Il Pensiero Cattolico

18 Luglio 2025

More results...

Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors
18 Luglio 2025

More results...

Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors

Don Mario Proietti

Collegialità episcopale: comunione nella verità o sinodalità fluida?

Secondo articolo del ciclo: “I papi passano, ma la Curia rimane”

Nel precedente articolo abbiamo provato a leggere con sobrietà e attenzione una frase densa di significato pronunciata da Papa Leone XIV: “I papi passano, ma la Curia resta”. Partendo da lì, abbiamo messo a fuoco un disagio ecclesiale che non nasce da ideologie, ma dal modo in cui, negli ultimi anni, la dottrina e la prassi sono spesso andate in direzioni diverse.
La questione centrale non è se un Papa sia stato più o meno tradizionalista, ma come le verità della fede vengano custodite e trasmesse, attraverso parole, decisioni, documenti e — soprattutto — interpretazioni.
Proseguiamo ora il nostro cammino entrando dentro uno dei nodi più discussi e spesso fraintesi del Concilio Vaticano II: la cosiddetta collegialità episcopale. Un tema apparentemente tecnico, ma che tocca la struttura stessa della Chiesa, la sua unità e la missione del Vescovo di Roma.

Il testo del Concilio: cosa dice davvero Lumen Gentium?

Nel capitolo III della costituzione dogmatica Lumen Gentium — uno dei documenti centrali del Concilio Vaticano II — si legge: “Il collegio o corpo dei Vescovi […] in quanto riunito sotto un solo capo, esprime l’unità del gregge di Cristo. In esso i Vescovi, fedelmente aderenti al capo, ricevono con Pietro e sotto Pietro il potere di suprema e piena potestà su tutta la Chiesa, potere che però non possono esercitare se non col consenso del Romano Pontefice.” (LG 22)
In apparenza, nulla di strano. Il testo parla di unione tra il Papa e i vescovi, della Chiesa come collegio di pastori, e ribadisce chiaramente che nessun potere può essere esercitato se non in comunione con Pietro e sotto la sua autorità.
Eppure, proprio questo passaggio ha suscitato perplessità, polemiche e, in alcuni casi, interpretazioni gravemente erronee.

Il problema: un’ambiguità che apre a due letture

Il nodo è sottile, ma reale. Parlare di “potere supremo del collegio episcopale” rischia di far pensare che il Papa non sia più l’unico soggetto della suprema autorità nella Chiesa, come invece aveva definito il Concilio Vaticano I nel 1870. Sembra quasi che la suprema potestà risieda contemporaneamente nel Papa e nel collegio dei vescovi, quasi come in un “parlamento spirituale” dove il Papa sia presidente e non capo.
Non a caso, durante il Concilio, fu necessaria una “Nota esplicativa previa”, voluta da Paolo VI, per precisare che:

1) il collegio episcopale non esiste senza il Papa;
2) il Papa può agire da solo, ma il collegio non può mai agire senza di lui;
3) non ci sono due soggetti della suprema potestà, ma uno solo: il Papa, che può esercitarla collegialmente o personalmente.

Il fatto stesso che sia stata necessaria una nota chiarificatrice dimostra che il testo approvato non era inequivoco. E oggi, a distanza di decenni, le interpretazioni errate continuano a moltiplicarsi, soprattutto in ambito pastorale e sinodale.

La dottrina cattolica: cosa ha sempre insegnato la Chiesa?

La Chiesa è gerarchica per istituzione divina. Questo significa che non è un’organizzazione paritaria o assembleare, ma è fondata sul ministero affidato da Cristo a Pietro e agli Apostoli.
Il Concilio Vaticano I definì dogmaticamente che: “Il Romano Pontefice ha la piena e suprema potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa, non solo nelle cose che riguardano la fede e i costumi, ma anche nella disciplina e nel governo della Chiesa universale.” (Pastor Aeternus, 1870)
E ancora: “Questo potere del Papa non è delegato, ma proprio, pieno, supremo e universale.
Il Papa, quindi, non è parte di un consiglio decisionale, né capo simbolico. È il vero successore di Pietro, principio visibile e fondamento dell’unità.
I vescovi hanno una vera autorità nelle loro diocesi, ma non partecipano automaticamente alla potestà universale sulla Chiesa. Lo fanno solo quando agiscono in comunione effettiva e giuridicamente riconosciuta con il Papa, ad esempio in un Concilio ecumenico convocato e guidato da lui.

La continuità nello sviluppo: cosa ha voluto davvero dire il Concilio?

Il Concilio Vaticano II non ha voluto cambiare la dottrina. Ha voluto mettere in luce un aspetto reale ma trascurato: che i vescovi non sono semplici funzionari del Papa, ma veri successori degli Apostoli, chiamati ad avere cura non solo delle proprie diocesi, ma della Chiesa intera, in spirito di corresponsabilità e comunione.
Il termine “collegialità” va dunque inteso non in senso giuridico o democratico, ma in senso sacramentale e teologico:

–  i vescovi non sono singoli isolati, ma membri di un unico collegio, uniti nella fede e nel servizio;
–  il collegio non ha potere separato dal Papa, ma esiste solo nella comunione con lui, che ne è capo e principio.

È una novità di enfasi e di linguaggio, non di contenuto. Ma quando il linguaggio si presta a equivoci, occorre esplicitare bene i confini.

L’errore da evitare: la sinodalità fluida come ideologia

Negli anni post-conciliari, e ancor più oggi, la parola “collegialità” è stata piegata fino a trasformarsi in “sinodalità”, intesa come democratizzazione del governo della Chiesa. Si è giunti a dire che:
–  il Papa dovrebbe sempre “ascoltare il popolo” prima di decidere (come se la verità dipendesse dai numeri);
–  le Conferenze episcopali potrebbero avere potere magisteriale autonomo (come se ogni Paese potesse avere una dottrina diversa);
–  i Sinodi debbano decidere e non solo consigliare (come se il Papa fosse obbligato a recepire ogni linea suggerita).
Tutto questo non è conforme alla fede cattolica, ma esprime una visione ecclesiologica deformata, in cui la Chiesa perde la sua struttura divina per diventare una federazione di opinioni.

La vera comunione nasce dalla verità

La Chiesa non è una democrazia, ma una comunione gerarchica. Il Papa non è un monarca assoluto, ma neppure un moderatore. È il Successore di Pietro. I vescovi non sono sottoposti a lui come impiegati, ma collegati a lui da un vincolo sacramentale e giurisdizionale, che garantisce la trasmissione della verità rivelata.
Parlare oggi di “collegialità” ha senso solo se si resta fedeli al significato che il Concilio ha voluto dare, nella linea della Tradizione.
Per questo occorre vigilare su certe forzature, su certe deformazioni sinodali che rischiano di spaccare l’unità, di confondere i fedeli, e di trasformare la comunione ecclesiale in una struttura fluida, dove ognuno dice la sua e nessuno ascolta la voce del Pastore.
La vera riforma ecclesiale non nasce da “più collegialità”, ma da più verità, più unità, più obbedienza alla Tradizione. Solo così il gregge potrà riconoscere una sola voce e camminare sicuro.

Prossimo articolo: Libertà religiosa: dignità della persona o relativismo travestito?

...dello stesso Autore

...articoli recenti

Lascia un commento

Scroll to Top