20 Maggio 2024

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Eleonora Casulli

LA DONNA NEL GIUDEO-CRISTIANESIMO E NELLA CHIESA CATTOLICA

MASCHILE E FEMMINILE IN GENESI 1, 27

Nel mio primo intervento sulla tematica inerente alla «questione femminile» in relazione al Cristianesimo e alla Chiesa, avevo esplicitato che, proprio perché le accuse e le mistificazioni rivolte alla religione e alla istituzione partono da «problematiche» percepite come radicali, è necessario andare alla radice e, quindi, partire dalla Genesi. Così, dopo aver parlato delle donne prime testimoni del Risorto nel precedente intervento, mi accingo a ripartire dal principio.

Genesi 1, 26 recita: “E Dio disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra»”. Genesi 1, 27 recita: “Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò”. Mi preme ricordare inizialmente (e non me ne vogliano i lettori più addentrati) che i racconti della creazione contenuti nella Genesi vanno interpretati in modo allegorico e simbolico, non letterale: essi non presentano verità storico-cronologiche o scientifiche, bensì, attraverso un racconto senza tempo (il mito) ricco di immagini, simboli e metafore, dispiegano e veicolano verità profonde e immutabili su Dio, sul cosmo e sull’uomo (inteso come essere umano)[1].
Solo tali verità ultime e immutabili costituiscono l’oggetto della fede dei credenti, non il racconto dal quale vengono tratte. In Genesi 1, 26 la parola «uomo» nell’originale ebraico è «adam», scritto senza articolo, per cui va considerato un nome collettivo che indica la razza umana, l’umanità, ogni uomo sulla Terra, unica creatura fatta simile (a nostra immagine) al Creatore ma non del tutto uguale a Lui (a nostra somiglianza) in quanto, appunto, creatura. L’assoluta importanza di questo versetto è dovuta al fatto che “la verità rivelata sull’uomo come «immagine e somiglianza di Dio» costituisce l’immutabile base di tutta l’antropologia cristiana”[2], concetto che va tenuto sempre presente, poiché nel giudeo-cristianesimo rappresenta ciò che essenzialmente accomuna tutti gli esseri umani, di ogni tempo, luogo, condizione.
Al versetto 27 le parole «maschio» e «femmina» sono rese con «zakar» (letteralmente «il puntuto») e «neqebah» (letteralmente «la perforata»), il che potrebbe far pensare a una caratteristica esterna dell’essere, non così essenziale. In realtà, è l’andamento stesso della frase che ci fa capire altro: l’insistenza nel ripetere sia il verbo “creò”, sia “a sua immagine, a immagine di Dio”, prima di concludere con “maschio e femmina” serve a farci capire che sta proprio nell’essenza della creatura-uomo essere a immagine del Creatore in quanto maschio e femmina[3]. Il maschile e il femminile proprio in virtù delle reciproche differenze costituiscono quel tutto che è l’immagine del Creatore, non sono un «di più» rispetto all’essere esseri umani (in filosofia dovremmo dire che non sono accidenti, bensì limiti costitutivi dell’essere). La ripetizione «essere esseri» è da me voluta, a sottolineare che la teoria gender e quelle affini, tanto diffuse ormai nel mondo occidentale, si basano proprio sull’opposto: la femminilità/mascolinità non sono considerate caratteristiche dell’essere umano in quanto tale, bensì abitudini dettate dall’ambiente e dall’educazione che diventano identitarie o, peggio, sono ritenute orpelli, quasi come un vestito che può essere cambiato quando se ne ha voglia[4]. Questo mi spinge a un’ulteriore considerazione.
Dire che l’essere maschio e femmina fa parte dell’essenza dell’essere umano, la quale essenza reca l’impronta indelebile dell’immagine e somiglianza divina, significa dare un eguale nonché altissimo grado di dignità sia al maschile, sia al femminile; affermare il contrario, invece, toglie questa dignità tanto alla femminilità, quanto alla mascolinità. Questo ragionamento ci aiuta a capire quanto infondate, falsate e ideologicamente mistificate siano le affermazioni di chi attribuisce proprio al substrato culturale del giudeo-cristianesimo, al diffondersi della religione cristiana e all’azione della Chiesa nella società il dislivello nella dignità e nei diritti delle donne rispetto agli uomini, a favore di questi ultimi.
In realtà è proprio l’opposto! Il giudeo-cristianesimo ha introdotto nel mondo la novità assoluta della pari dignità sostanziale, che nel mondo pagano oggi tanto rimpianto e idealizzato non esisteva! Noi che, per grazia e senza meriti, riusciamo a cogliere tutto ciò, abbiamo il dovere di documentarci sempre meglio e non temere di difendere queste verità davanti al mondo che tanto le stravolge.
Non si può negare che nella storia ci siano state delle storture in ordine allo sbilanciamento della dignità e dei diritti a favore del mondo maschile, sia nel giudaismo sia nell’era cristiana; ma tali storture andrebbero considerate come tali e attribuite alle circostanze storico-culturali delle varie epoche e, in ultima analisi, all’imperfezione e fallibilità dell’essere umano corrotto dal peccato; è un grave errore considerare come causa diretta di queste deviazioni la sostanzialità del messaggio cristiano e la visione dell’uomo propria del giudeo-cristianesimo, agita dalla Chiesa per oltre duemila anni. Anche questo siamo chiamati a comprendere sempre meglio e a riaffermare con forza.
Nei prossimi appuntamenti approfondiremo gli altri passi della Genesi che ho elencato nel mio primo intervento.

___________________________________________________________________________

[1] Cfr. G. Cappelletto, In cammino con Israele. Introduzione all’Antico Testamento – I, Edizioni Messaggero Padova, Padova 2006, p. 110-111.
[2] Mulieris Dignitatem n. 6

[3] Cfr. G. Cappelletto, In cammino con Israele…, p. 128.
[4] “Io non so mai chi sono eppure sono io/Anche se oltre il vetro per me non c’è mai un dio/Ma questo qui è il mio corpo benché cangiante e strano/Di donna dentro un uomo eppure essere… umano”. Ritornello del brano “Io sono una finestra”, di Grazia Di Michele e Mauro Coruzzi (in arte Platinette), in gara al Festival di Sanremo del 2015.

Testo completo: https://www.vanityfair.it/show/musica/15/02/10/festival-sanremo-2015-grazia-di-michele-e-mauro-coruzzi-io-sono-una-finestra-testo?refresh_ce=

Videoclip ufficiale (davvero eloquente): https://www.youtube.com/watch?v=ubhMk0FFPU4

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S.E.R. Card. Raymond Leo Burke

Novena di 9 mesi a Nostra Signora di Guadalupe

Chiamata mondiale alla preghiera: per il ritorno a Nostra Signora

Quinta Riflessione

Riflettiamo, questo mese, sulla Terza Apparizione della Madonna a San Juan Diego. Quando Juan Diego ritornò dal Vescovo per trasmettergli nuovamente le intenzioni della Madonna, il Vescovo chiese un segno – un segno che la Madonna promise per il mattino seguente. 


La richiesta del Vescovo di avere un segno, per quanto possa essere stata ragionevole, colpisce una corda strana e risonante nella nostra società profondamente materialistica. Il nostro mondo è così affamato di segni di qualcosa di più grande che prova, penosamente e invano, a trovare un significato più profondo nella politica, nelle ideologie, nei piaceri materiali – nelle cose di questo mondo, che non lasceranno appagati.

Questo, però, non accade per mancanza di segni dell’amore di Dio. Accade perché abbiamo perso la nostra capacità di vederli.

L’apparizione della Madonna ci dà l’antidoto a questo materialismo: oggi siamo chiamati a essere segni della presenza di Nostro Signore nel nostro mondo. Quando viviamo con il cuore unito al Suo Cuore Immacolato nel Sacro Cuore di Gesù, Nostro Signore accompagna la nostra testimonianza con altri segni per confermarci e sostenerci nel nostro pellegrinaggio.

Questa non è una mera frase fatta. La Madonna sta chiamando ciascuno di noi a vivere la propria vita in maniera tale che la verità e l’amore di Cristo siano immediatamente chiari a tutti coloro che ci circondano. Cristo effonde nei nostri cuori, dal Suo Cuore Sacratissimo, la grazia per vivere così. Vivere le nostre vite in questa maniera è un obbligo che abbiamo davanti alla Madre Nostra e davanti al suo Figlio Divino, Nostro Signore e Salvatore: dobbiamo vivere le nostre vite nella ricerca fedele e generosa della santità che squarcia le tenebre del mondo circostante.

Sia chiaro, questo è un compito grande e difficile. Dobbiamo chiedere alla Madonna di intercedere per noi, così da poter ricevere la grazia di essere collaboratori di Cristo nella Sua opera di verità e d’amore.

Preghiamo…

Tutte le meditazioni della Novena a Nostra Signora di Guadalupe

Rossella Pastore

Basta parlare (solo) di misericordia

Si fa un gran parlare, oggi, di misericordia e amore di Dio. La maggior parte dei predicatori mette in risalto esclusivamente l’aspetto legato alla Sua bontà e compassione, confermando nell’errore i tanti fedeli (la maggioranza, anche in questo caso) già ampiamente persuasi che Dio perdoni tutto… a prescindere. A prescindere dal pentimento, a prescindere dal sacramento della Confessione… sempre che resti qualcosa da perdonare.

Il primo problema, infatti, è la perdita del senso del peccato, o almeno la relativizzazione della morale cattolica. Relativizzazione che si esplica in modi diversi: si può per esempio affermare che certe norme siano desuete («i tempi sono cambiati e anche la Chiesa deve aggiornarsi», come se quelle norme fossero di diritto umano e non divino), oppure dire che la tale parola/opera sarebbe pure peccato, ma le circostanze la rendono lecita (l’esempio più classico è quello della bugia di scusa [qui per approfondire], come se il fine giustificasse i mezzi…).
Assumendo che resti qualcosa da perdonare, che cioè qualche anima non abbia ancora del tutto smarrito la percezione del peccato, chi predica un Dio “tutto misericordia e niente giustizia” non fa altro che dare il colpo di dis-grazia, a queste anime. Chi confida temerariamente nella misericordia divina, infatti, non lascerà mai di peccare.
Obiezione comune, rispetto a questa visione, è la seguente: si può arrivare a lasciare il peccato anche “innamorandosi” di Dio, non solo per timore dei castighi o dell’eterna dannazione. In effetti, è risaputo che esistano due vie per arrivare a Lui: la via “del cuore”, tracciata dal beato Duns Scoto (sulla scia di san Francesco d’Assisi) e la via della ragione, un approccio meno sentimentale suggerito da san Tommaso d’Aquino. Entrambe le vie sono di per sé valide; anche la prima, perché alcuni Dio davvero li attrae con delicatezza e dolcezza, facendoli innamorare di Lui e al contempo facendo loro provare somma tristezza per esserGli stati lontano.
Tuttavia, la seconda sembrerebbe essere una via più sicura, perlomeno di questi tempi. Tempi di lassismo quasi totale; in cui, soprattutto, gli uomini sono meno sensibili al linguaggio dell’amore (tanto più che il loro concetto di amore è più che falsato… stravolto).
Insomma, i discorsi blandi e vaghi sull’amore di Dio non funzionano (quando non sono controproducenti). Non funzionano in particolare con i peccatori incalliti, a detta – tra gli altri – di san Giovanni Maria Vianney, patrono dei presbiteri e dei parroci. Le omelie del santo Curato d’Ars erano omelie “infuocate”, ricche di invettive contro gli impenitenti. Ma è questa, in certi casi, la vera misericordia: ammonire i peccatori è esattamente una delle sette opere di misericordia spirituale.
Più propriamente, misericordia e giustizia non si escludono a vicenda: pare invece che l’una comprenda l’altra. Quando è giusto, ad esempio quando castiga, Dio è anche misericordioso: Dio castiga, cioè – etimologicamente – “rende casto”, colui che ama, come si legge in Proverbi 3,12. Persino l’inferno è campo di esercizio della misericordia di Dio: Egli infatti non permette che le pene inflitte ai dannati siano superiori alla gravità dei loro peccati.
Allo stesso modo, quando ama, è anche giusto. Ama con amore di compassione il peccatore, e con amore di compiacenza il virtuoso. Con amore di predilezione, colui che più lo ama (si pensi a san Giovanni, l’apostolo vergine).
Inoltre, sembra essere tipico di Dio inviare prima dei “san Giovanni Battista”, che chiamino a conversione e lo facciano in maniera impetuosa, per poi manifestarsi personalmente e in tutta la Sua bontà/dolcezza. Del resto, l’instaurarsi di un rapporto confidenziale con Dio viene solo dopo essersi riconciliati con Lui. Questa prima fase è tipicamente dolorosa; ma, superatala, ci si può permettere di trattarlo con familiarità (ferma restando la riverenza). Nessuno che non sia casto (che lo sia stato reso a seguito di un castigo, se necessario), è degno di ciò.
Non solo: chi non teme Dio non è degno nemmeno della Sua misericordia. La Sacra Scrittura è chiara: «… salda egli rese la sua misericordia per quei che lo temono… ha compassione il Signore di quei che lo temono» (Sal 102,11. 13). Dunque, Dio usa misericordia con chi ha timore di Lui, ovvero con chi è pentito. Completa sant’Alfonso in Apparecchio alla morte (220): «Ma con chi lo disprezza e si abusa della sua misericordia per più disprezzarlo, Egli usa giustizia. E con ragione; Dio perdona il peccato, ma non può perdonare la volontà di peccare.
Dice S. Agostino che chi pecca col pensiero di pentirsene dopo d’aver peccato, egli non è penitente, ma è uno schernitore di Dio: “Irrisor est, non poenitens”. Ma all’incontro ci fa sapere l’Apostolo che Dio non si fa burlare: “Nolite errare, Deus non irridetur” (Gal. 6. 7). Sarebbe un burlare Dio offenderlo come piace, e quanto piace, e poi pretendere il paradiso».
A proposito di Paradiso, si consideri che non è la stessa cosa, accedervi dopo essersi pentiti in extremis (ammesso che in punto di morte si abbia avuta la grazia di formulare un atto di pentimento) e accedervi al termine di una vita ricca di meriti. Senza contare il Purgatorio che si avrà da scontare (e il Purgatorio non è una sala d’aspetto, ma luogo di tormenti, per quanto temporanei), il grado di gloria acquisito sarà diverso. Per ragioni di giustizia… e di misericordia: Dio ama e ricompensa chi più lo ama e più ha faticato per la Sua gloria.
Si è accennato, citando sant’Alfonso, alla “volontà di peccare”. Ma in un cristiano che sia ben formato, il peccato volontario è totalmente escluso. Quello in materia grave, evidentemente, ma anche quello in materia lieve: «Chiunque è nato da Dio, non fa peccato, perchè tiene in sè un germe di Lui; e non può più peccare, perchè è nato da Dio» (1Gv 3,9). Con ciò, non stiamo assolutamente affermando che sia vano dirci peccatori e bisognosi di misericordia. Colpevoli, manchevoli, lo rimaniamo: sì, ma di quali colpe, di quali mancanze? Non certamente di quelle volontarie! Il peccato “volontario”, in quanto tale, può essere sempre evitato. Si rimane miseri solo in quanto portatori del peccato originale e quindi naturalmente tendenti ad agire malamente o almeno imperfettamente (Rm 7,19). Ma, con l’aiuto di Dio e certamente con una buona dose di sforzo ascetico, è possibile raggiungere anche un grado altissimo di perfezione. I santi lo testimoniano.

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S.E.R. Card. Raymond Leo Burke

Novena di 9 mesi a Nostra Signora di Guadalupe

Chiamata mondiale alla preghiera: per il ritorno a Nostra Signora

Quarta Riflessione

Continuiamo a contemplare l’importanza della perseveranza. Sebbene San Juan Diego abbia fallito nel convincere il Vescovo riguardo alla veridicità delle sue affermazioni, non ha però lasciato che il suo insuccesso fosse motivo di disperazione. Piuttosto, egli ha diligentemente seguito l’invito della Vergine Madre di Dio a tornare dal Vescovo Zumárraga.


L’abilità di riconoscere i nostri fallimenti con onestà ed umiltà è, di per sé, un dono della grazia, ed invero un segno del sano operare delle nostre coscienze. Infatti, i santi erano profondamente consapevoli dei loro fallimenti. Quando ci sentiamo colpevoli, dovremmo ringraziare Dio per il fatto che la grazia ci ha risparmiati (almeno in quel dato momento) dagli errori di una coscienza lassista o ottusa, condizione che sembra affliggere molti, in maniera particolarmente insidiosa, nei nostri tempi.

Quando falliamo, lasciamo che il nostro orgoglio intervenga, spingendoci a supporre che possiamo conquistare il peccato? O piuttosto ci voltiamo verso Dio, in cerca di aiuto? E quando chiediamo aiuto, domandiamo risultati immediati? O siamo disposti a perseverare nel piano di Dio per la nostra salvezza eterna? Riflettiamo onestamente su queste domande.

Come San Juan Diego ha imparato, i frutti dell’intercessione della Madonna non sono sempre immediatamente manifesti. Nondimeno, essi sono reali, e sono potenti. Continuiamo a chiedere alla Madre Nostra di ottenere per noi tutto ciò che di buono e santo desideriamo, conformemente al piano di Dio su di noi.

Preghiamo…

Tutte le meditazioni della Novena a Nostra Signora di Guadalupe

Eugenio Fazia

A che pro' l'Ordine Sacro di Diaconato permanente alle donne?

Uno dei temi che in questo Sinodo, su insistenza di alcuni Padri, si sta trattando  è l’accesso delle donne all’Ordine Sacro del Diaconato permanente.  Ma, a parte le tante e valide ragioni con le quali   valenti teologi ed Eminenti Cardinali hanno bocciato l’argomento relativo alla concessione  dell’Ordine Diaconale  permanente alle donne e  l’abolizione del celibato dei sacerdoti,  mi permetto di fare una  mia considerazione che non vuole avere nulla di polemico, ma piuttosto vuole offrire un momento di riflessione sulla condizione attuale dell’ordine del Diacono permanente.


Io sono un diacono permanente ordinato da circa 25 anni, laureato alla facoltà di teologia presso l’università Pontificia Lateranense, e ora all’età di 74 anni mi capita di tanto in tanto di riflettere oltre che sulla mia vita privata anche sul mio ministero diaconale.
Per quanto riguarda il ministero diaconale, è triste ammetterlo, ma non ho mai esercitato alcun ufficio di ministero , tranne che per un qualche servizio liturgico.
Il diaconato è stato riconsiderato, come sapete, nel Concilio Vaticano II e precisamente nella Lumen Gentium cfr. parag. 29 con il titolo :“Rinnovata utilizzazione dei diaconi loro uffici di ministero” poi riguardo all’ufficio di ministero specifica più avanti quanto segue : “…. E siccome questi uffici, sommamente necessari alla Chiesa, spetterà poi ai competenti ceti Episcopale territoriali di vario genere se e dove tali Diaconi siano istituiti per la cura delle anime”.
Dunque i padri conciliari hanno lasciato ai Vescovi l’onere di decidere se ordinare i diaconi permanenti e in quale ruolo inserirli nelle attività pastorali sebbene nel Vangelo( Atti degli Apostoli cap. 6°) risulta molto chiaro quale fosse l’ambito in cui i diaconi permanenti dovrebbero esercitare il loro ufficio di ministero. I Vescovi pur ordinando i Diaconi permanenti non hanno mai deciso, fin’ora, in quali ruoli dovessero essere inseriti.
Nei primi tempi della mia ordinazione, non avendo ricevuto alcun incarico per esercitare il mio ministero, ho pensato che probabilmente ero ritenuto inadeguato a ricoprire un qualche Ufficio.

Con il passar del tempo però mi rendevo conto che la mia situazione era ben più diffusa e generalizzata. In quasi tutte le diocesi italiane, oltre che nella mia diocesi, il ministero del Diacono permanente si riduce ad un mero servizio liturgico (direi come sacrestano evoluto !) piuttosto che essere inseriti negli uffici della vita pastorale pertinenti al ministero del Diacono quali ad esempio negli Uffici quali Economato e Amministrazione, Edilizia del culto, Pastorale della famiglia, Ufficio per la pastorale della Carità uffici esistenti nell’organigramma della Diocesi.
Evidentemente i Vescovi considerano l’ordine Diaconale solo una forma di onorificenza o di premio per una presenza assidua nelle funzioni religiose e attività parrocchiali.

Ma se, “Sic stantibus rebus”, mi chiedo, che senso ha concedere alle donne l’Ordine Sacro del Diaconato permanente? Solo per un servizio liturgico? E magari, e ancora peggio, in supplenza di sacerdoti a causa di carenza di vocazione sacerdotale? Scriveva, infatti, San Giovanni Paolo II : “ un sacerdote può essere sostituito solo da un altro sacerdote”. Il Diacono permanente non può e non deve essere la soluzione della mancanza di sacerdoti.
Mi sembra, inoltre, pretestuoso sostenere che la presenza della donna nelle Istituzioni della Chiesa favorirebbe una “ventata di aria fresca” nella Chiesa.
Se poi, addirittura, qualcuno ritiene che la Chiesa sia maschilista e obsoleta e che pertanto oggi è importante favorire l’apporto del servizio delle donne, forse dimentica che la donna ha sempre avuto ed ha, tutt’ora, ruoli di primaria importanza nella storia della Chiesa. Ne cito solo alcune, perchè l’elenco completo sarebbe davvero molto lungo, che hanno dato notevoli contributi alla Chiesa e spesso anche alla comunità civile : S. Chiara, S. Teresa D’Avila, S. Rita da Cascia, S. Caterina, S. Giovanna D’Arco, S. Teresa di Lisieux , Santa Madre Teresa di Calcutta e molte altre ancora che o con la vita ordinaria o con il loro martirio hanno dato con la loro testimonianza al Vangelo reale vigore alle istituzioni della Chiesa.

Conclusione : non credo che i Padri sinodali, sostenitori dell’ordine sacro di diacono alle donne e dell’abolizione del celibato del sacerdote, ignorano le realtà in cui versa il nostro Diaconato permanente e tanto meno ignorano la reale presenza della donna nella storia dell’Antico Testamento e della Chiesa in ruoli davvero di rilievo.
Ma, secondo il mio povero pensiero, questi Padri sinodali, hanno in realtà, un solo obiettivo cioè quello di aumentare nella Chiesa confusioni e divisioni. Questi obiettivi di desacralizzazioni, evidentemente, sono i primi passi che fanno parte di un unico progetto finale di negare cioè la reale presenza di nostro Signore Gesù nell’Eucaristia. Quindi sarà più facile spianare la strada per la creazione di una nuova religione universale che riunisca tutte le religioni mondiali compreso la massoneria che, nonostante la scomunica ancora vigente, si sta adoperando, già da adesso, ad aprire un dialogo con alti prelati per ricercare e condividere punti comuni così come hanno dichiarato recentemente alcuni maestri delle rispettive logge al termine di un incontro riservato( a porte chiuse) a Milano con il Arcivescovo metropolita della Diocesi e un Cardinale. I punti comuni sarà possibile trovarli, ovviamente, solo dopo aver negato la reale presenza del nostro Signore Gesù Cristo nell’Eucarestia.

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Gabriele Cianfrani:

IL SIGNORE VEDE NEL SEGRETO, MA NON PARLA NEL SEGRETO:

l’estromissione di Dio dalla storia

Una delle espressioni più ricorrenti negli ultimi anni, se non addirittura una sorta di «mantra», è la seguente: Dio lo si trova dentro se stessi. Ma il Signore si è espresso con ben altre parole:


«Io sono il Signore, non c’è n’è altri. Io non ho parlato in segreto, in un angolo tenebroso della terra. Non ho detto alla discendenza di Giacobbe: “Cercatemi nel vuoto!”. Io sono il Signore, che parlo con giustizia, che annuncio cose rette […]» (Is 45,18-19)

Ebbene il Signore non ha parlato in angoli tenebrosi della terra non chiede di cercalo nel vuoto. Sì, perché mettersi alla ricerca di Dio solo dentro se stessi – una fede intimistica –, come a voler far trasparire una sorta di umiltà e di manifestazione della propria piccolezza, ma che in realtà si tratta di falsa umiltà e Dio scompare nel vuoto. Viene in mente la posizione circa il Deus absconditus, fortemente apofatica, a tal punto da comportare l’impossibilità di parlare di Dio. Per quale motivo l’articolo esordisce in questo modo? Perché negli ultimi anni si corre imperterriti verso due direzioni opposte ma al contempo dai risultati identici:

1^ direzione: la ricerca di Dio esclusivamente nel mondo materiale-naturale, promuovendo una forte azione ecologista – «ecologista», non «ecologica», e tra le due vi è una bella differenza –, fino al punto da considerare Dio così intimo al mondo naturale da essere scambiato per una sorta di madre natura;
2^ direzione: la ricerca di Dio esclusivamente nel mondo del proprio «io», nella sola dimensione interna dell’uomo, con la conclusione che «Dio vive nel mio/tuo cuore».

Queste due direzioni estreme, opposte tra esse, conducono al medesimo risultato e non tengono conto di una caratteristica fondamentale della Rivelazione di Dio in quanto tale: essa è sia naturale sia soprannaturale.
Per quanto riguarda la prima direzione, la ricerca di Dio viene condotta esclusivamente sul piano naturale, come se il medesimo fosse la manifestazione della sostanza divina, il modo attraverso il quale si manifesta la sostanza divina. Insomma, si tratta di una direzione che conduce alla visione panteista, nella quale Dio e l’uomo sono posti sullo stesso piano. Pertanto, la ricerca di Dio diviene la ricerca di se stessi e non è più Dio ad essere il principio e la fine ma l’uomo, che coincidendo con Dio pone se stesso al posto di Dio.
Per quanto riguarda la seconda direzione, la ricerca di Dio viene condotta esclusivamente nella propria «coscienza», nel proprio «io», come se Dio fosse presente localmente dentro di me e solo in me posso trovarlo. Probabilmente al liturgista non è sfuggita la precisazione «localmente», in riferimento alla presenza reale di Cristo nella Eucaristia, la quale è sostanziale ma non locale. Eppure la ricerca di Dio all’interno di se stessi, come se vi fosse localmente, cosa potrebbe comportare? Semplice: l’annullamento di Dio, dal momento che lo si rende soggetto al moto locale. Ebbene ci troviamo dinanzi a due posizioni estreme fortemente presenti nel mondo odierno: la prima riduce Dio al mondo materiale e in tal modo ne consegue l’annullamento di Dio, la seconda riduce Dio alla propria coscienza e in tal modo ne consegue ugualmente l’annullamento di Dio.
Il rischio che si nasconde è quello di una progressiva estromissione di Dio dalla storia dell’uomo, come se la medesima storia fosse totalmente estranea a Dio o come se coincidesse con Dio stesso che si manifesta ed auto-manifesta. Ed ecco il punto di arrivo della riflessione: mai come ora regna l’antropocentrismo, così incisivo da escludere Dio o da far coincidere, in ultimo, Dio con l’uomo. Certo, dal momento che la tendenza è quella di far dipendere il futuro, nella sua totalità, esclusivamente dall’uomo. L’azione dell’uomo è incisiva, ciò non si può negare, ma l’uomo resta pur sempre il custode di ciò che Dio gli ha affidato, non il creatore. Ovviamente il piano naturale non esclude di per sé l’anima intellettiva dell’uomo, che rientra nella sua natura, ma in questo caso il piano naturale viene considerato in maniera materialista. Non è tutto, in quanto le conseguenze delle due direzioni conducono, a quanto pare, ad un risultato ancor più allarmante:

«In questo potete riconoscere lo Spirito di Dio: ogni spirito che riconosce Gesù Cristo venuto nella carne, è da Dio; ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio. Questo è lo spirito dell’anticristo che, come avete udito, viene, anzi è già nel mondo» (1Gv 4,2-3).

Entrambe le direzioni conducono ad una sorta di naturalizzazione di Dio, nella esaltazione materiale-naturale che, proprio per questo, getta nell’oblio la soprannaturalità di Dio, e tale esito non è altro che la negazione del Verbo Incarnato. Sì, nell’ostinata ricerca di Dio esclusivamente nel mondo materiale-naturale oppure esclusivamente nella propria coscienza, ciò che si nega è proprio il fatto che il Verbo sia venuto nella carne, dal momento che Dio lo si riduce alla sfera della creaturalità, nella quale siamo noi. A questo punto occorre ricordare, come già fatto sopra, che la Rivelazione di Dio non è solo naturale solo soprannaturale, ma e naturale e soprannaturale, per cui i due piani devono essere custoditi, dacché la stessa gratia supponit naturam, non destruit, sed perficit eam. Questo delicato equilibrio consente all’uomo di dirigere con criterio la sua ricerca di Dio, altrimenti la ricerca, semmai si riducesse alle due direzione sopra riportate, condurrebbe non alla ricerca di Dio ma alla ricerca di se stessi, al posto di Dio. Ed ecco la progressiva estromissione di Dio dalla storia.

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S.E.R. Card. Raymond Leo Burke

Novena di 9 mesi a Nostra Signora di Guadalupe

Chiamata mondiale alla preghiera: per il ritorno a Nostra Signora

Terza Riflessione

Questo mese, contempliamo gli eventi della seconda apparizione della Madonna a San Juan Diego.Sebbene egli abbia fatto del suo meglio per soddisfare la richiesta di Maria, Juan Diego non riuscì a convincere Mons. Juan de Zumárraga dell’autenticità delle sue affermazioni. Nel tornare sul Tepeyac, Juan Diego dev’essere stato consumato dal dolore per questo fallimento, e forse era rimasto un po’ confuso dal fatto che la Madonna non fosse intervenuta più direttamente. La risposta di Maria è significativa: invece di criticare Juan Diego, lo incoraggia a ritornare dal Vescovo. Lo incoraggia a perseverare. I nostri fallimenti non ci rendono inutili davanti a Dio, né inamabili davanti alla nostra Madre celeste.

Infatti, Dio ci santifica nella nostra debolezza, se solo ci rivolgiamo a Lui per chiedere l’aiuto della Grazia Divina. Perfino la nostra più grande debolezza è invito a fare maggiormente affidamento su Dio. Miei fratelli e sorelle in Cristo, è la perseveranza, non la perfezione immediata, ad essere il segno della vita cristiana sulla terra. Noi siamo nati in Cristo nel Battesimo per crescere ancor più pienamente in Lui, per portare ancor più fedelmente e generosamente, con Lui, la croce dell’amore puro e disinteressato. Quali fallimenti pesano attualmente sulla vostra anima? La Madonna vi desidera riconciliati col suo Divin Figlio. Confessatevi appena potete e riprendete il cammino del pellegrinaggio che avete intrapreso nel Battesimo e che raggiungerà la sua destinazione nella vita eterna. Siamo chiamati alla stessa perseveranza che dimostrò san Juan Diego quando s’impegnò nuovamente a portare avanti la missione della Madonna. Chiediamo alla Madre Nostra di intercedere presso Dio per noi, affinché possiamo ricevere in abbondanza la grazia della perseveranza.

Preghiamo…

Tutte le meditazioni della Novena a Nostra Signora di Guadalupe

Eleonora Casulli

LA DONNA NEL GIUDEO-CRISTIANESIMO E NELLA CHIESA CATTOLICA

Prime testimoni del Risorto

Come preannunciato nel mio primo intervento, all’inizio di questo tempo pasquale desidero soffermarmi su quanto il racconto evangelico della Resurrezione di Cristo dica della dignità e della missione della donna nel Cristianesimo e nella Chiesa.  Il racconto della Resurrezione nei quattro Vangeli, pur con differenze non sostanziali che analizzeremo, inizia con le mirofore (portatrici di oli), ossia le donne (una donna in Giovanni) che si recano alla tomba all’alba della domenica per ungere il corpo di Gesù, trovano il sepolcro aperto e senza il corpo di Gesù, hanno una visione di angeli i quali annunciano loro che Gesù è risorto e chiedono loro di farsi portavoce di questo evento presso i discepoli. I passi che ci interessano sono: Mt 28, 1-10; Mc 16, 1-11; Lc 23, 55 – 24, 11; Gv 20, 1-18.

La scelta degli evangelisti di raccontare le cose così come sono andate a noi può sembrare normale, scontata, pacifica. Così non è. Nella società giudaica di quei tempi, infatti, la testimonianza di donne e bambini non aveva alcun valore, né a livello giuridico, né a livello sociale di considerazione da parte degli altri: questo traspare anche nella narrazione evangelica, laddove è sempre riportato che apostoli e discepoli non credono minimamente alle parole delle donne/della donna nel momento in cui le ascoltano. Il fatto che tutti gli evangelisti abbiano attestato che le prime testimoni della Resurrezione sono state donne, che le prime a dare l’annuncio ai discepoli sono state donne e che non sono state inizialmente ritenute attendibili da chi le ha ascoltate, è considerato dagli studiosi una delle prove per così dire indirette, ragionevoli, sia dell’attendibilità dei Vangeli, sia della verità della Resurrezione (la quale verità, però, è e resta un Mistero, per cui non può mai essere dimostrata del tutto razionalmente, ha sempre bisogno dell’adesione di fede)[1].
Attendibilità dei Vangeli significa che ciò che viene narrato in essi corrisponde a quanto è effettivamente successo, essi riportano i fatti come sono andati, non si possono considerare un racconto romanzato studiato a tavolino per indurre le genti a credere in Gesù risorto e, quindi, nel Cristianesimo che su questa verità è incentrato[2].
Se gli evangelisti avessero voluto redigere un racconto credibile per l’epoca, mai e poi mai si sarebbero sognati di riportare che le prime testimoni della resurrezione sono state donne, alle quali nessuno, neanche i discepoli, all’epoca dava credito![3] Mai e poi mai avrebbero parlato degli Undici come uomini impauriti prima e dubbiosi dopo aver ricevuto il primo annuncio della Resurrezione![4] E invece l’hanno fatto, l’hanno raccontato e attestato e tutti e quattro hanno riportato i nomi di alcune delle donne (Giovanni solo quello di Maria di Magdala), proprio per dare valore alla loro testimonianza, stravolgendo così la logica dell’epoca. Apostoli ed evangelisti hanno stravolto la logica dell’epoca nella considerazione delle donne perché è stato il Maestro prima di loro a farlo[5], durante tutta la sua vita terrena e al culmine della stessa, nel momento della Resurrezione; del resto, anche il Mistero dell’Incarnazione si è compiuto a seguito del “sì” di una donna, la cui libera adesione di fede è stata considerata imprescindibile da Dio stesso. E di libera adesione di fede “al femminile”, in realtà, si parla anche nei racconti della Resurrezione: le donne vedono, ascoltano, credono, rispondono adeguatamente, annunciano.
Subito. La loro risposta di fede appare generosa e adeguata, quella dei discepoli inizialmente un po’ meno. Anche la Mulieris Dignitatem, al n. 16, afferma che: “Sin dall’inizio della missione di Cristo la donna mostra verso di Lui e verso il suo mistero una speciale sensibilità che corrisponde ad una caratteristica della sua femminilità. Occorre dire, inoltre, che ciò trova particolare conferma in relazione al mistero pasquale, non solo al momento della croce, ma anche all’alba della risurrezione. Le donne sono le prime presso la tomba. Sono le prime a trovarla vuota”. Andiamo adesso ad analizzare più nello specifico, nella prospettiva inerente al nostro argomento, la narrazione dei quattro Vangeli:

Dopo il sabato, all’alba del primo giorno della settimana, Maria di Màgdala e l’altra Maria andarono a visitare la tomba. Ed ecco, vi fu un gran terremoto. Un angelo del Signore, infatti, sceso dal cielo, si avvicinò, rotolò la pietra e si pose a sedere su di essa. Il suo aspetto era come folgore e il suo vestito bianco come neve. Per lo spavento che ebbero di lui, le guardie furono scosse e rimasero come morte. L’angelo disse alle donne: “Voi non abbiate paura! So che cercate Gesù, il crocifisso. Non è qui. È risorto, infatti, come aveva detto; venite, guardate il luogo dove era stato deposto. Presto, andate a dire ai suoi discepoli: “È risorto dai morti, ed ecco, vi precede in Galilea; là lo vedrete. Ecco, io ve l’ho detto”. Abbandonato in fretta il sepolcro con timore e gioia grande, le donne corsero a dare l’annuncio ai suoi discepoli. Ed ecco, Gesù venne loro incontro e disse: “Salute a voi!”. Ed esse si avvicinarono, gli abbracciarono i piedi e lo adorarono. Allora Gesù disse loro: “Non temete; andate ad annunciare ai miei fratelli che vadano in Galilea: là mi vedranno”. (Mt 28, 1-10)

L’evangelista Matteo nomina due donne e mette subito a confronto la loro reazione con quella delle guardie (a favore delle prime!), attraverso le parole dell’angelo (Voi non abbiate paura!), dato che le guardie per lo spavento erano rimaste come morte. Le donne, pur nel comprensibile turbine emotivo, appaiono invece subito vigili e reattive: corrono a dare l’annuncio ai discepoli; un istante dopo le troviamo prostrate in adorazione ai piedi del Risorto, che hanno dunque immediatamente riconosciuto, rispondendo adeguatamente all’incontro con Lui; infine ricevono da Lui prima una considerazione rassicurante e comprensiva (non temete) e poi la missione. Anche nel Vangelo di Marco sono presenti i nomi delle testimoni:
“Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e Salome” (Mc 16, 1). Dopo l’annuncio della Resurrezione fatto dall’angelo, Marco racconta che:

esse uscirono e fuggirono via dal sepolcro, perché erano piene di spavento e di stupore. E non dissero niente a nessuno, perché erano impaurite. Risorto al mattino, il primo giorno dopo il sabato, Gesù apparve prima a Maria di Màgdala, dalla quale aveva scacciato sette demòni. Questa andò ad annunciarlo a quanti erano stati con lui ed erano in lutto e in pianto. Ma essi, udito che era vivo e che era stato visto da lei, non credettero.” (Mc 16, 8-11)

L’evangelista da un lato si sofferma sull’emotività delle donne (spavento, stupore, paura), tanto da togliere loro la capacità di riferire quanto appena vissuto; dall’altro mette in evidenza la figura di Maria di Màgdala, ricordando chi lei fosse (Gesù aveva scacciato da lei sette demoni) e sottolineandone la prontezza di risposta alla missione appena affidatale (andò ad annunciarlo). Il focus su Maria di Magdala pone il racconto di Marco come raccordo fra quello dei Sinottici e quello del Vangelo di Giovanni: Gesù risorto si è rivelato per primo ad una donna considerata all’epoca peccatrice o quantomeno non in grazia di Dio[6]; questa è la verità dei fatti e Marco non ha paura di metterlo nero su bianco, sottolineando che la fede e la prontezza di questa donna non trovano immediato riscontro nei discepoli, i quali erano in lutto e in pianto e non credettero.
L’evangelista Luca attesta la presenza, già dal venerdì santo, delle “donne che erano venute con Gesù dalla Galilea” (Lc 23, 55), le quali la domenica si recano al sepolcro, lo trovano vuoto e ascoltano le parole dell’angelo; egli ricorda loro uno dei discorsi in cui Gesù aveva annunciato la sua resurrezione (attestando indirettamente come gli insegnamenti del Maestro fossero rivolti indistintamente ai discepoli e alle discepole, fatto non scontato per l’epoca)[7]. In quel momento,
esse si ricordarono delle sue parole e, tornate dal sepolcro, annunciarono tutto questo agli Undici e a tutti gli altri. Erano Maria Maddalena, Giovanna e Maria madre di Giacomo. Anche le altre, che erano con loro, raccontavano queste cose agli apostoli. Quelle parole parvero a loro come un vaneggiamento e non credevano ad esse”. (Lc 24, 8-11)
Anche l’evangelista Luca, dunque, ad un certo punto fa i nomi; in più, Luca sottolinea la capacità delle donne di far proprio l’annuncio di Cristo (si ricordarono delle sue parole) e, di contro, la durezza e l’incredulità degli Undici e degli altri (non credevano ad esse). Questa difficoltà maschile nel comprendere l’annuncio di salvezza e nell’aderirvi nella pienezza della fede, viene nuovamente evidenziata da Luca subito dopo, parlando dei discepoli di Emmaus.
Essi stessi, rispondendo a Gesù non riconosciuto, fanno riferimento all’annuncio della resurrezione ricevuto dalle donne;[8] tuttavia, vista la situazione e visto come subito dopo Gesù si rivolgerà a loro[9], è palese la loro difficoltà a credervi. Il Vangelo di Giovanni si focalizza su Maria di Màgdala, regalandoci una pagina densa di tenerezza e verità:

Maria invece stava all’esterno, vicino al sepolcro, e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro e vide due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù. Ed essi le dissero: «Donna, perché piangi?». Rispose loro: «Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto». Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù, in piedi; ma non sapeva che fosse Gesù. Le disse Gesù: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?». Ella, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: «Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto e io andrò a prenderlo». Gesù le disse: «Maria!». Ella si voltò e gli disse in ebraico: «Rabbunì!» – che significa: «Maestro!». Gesù le disse: «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: «Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro». Maria di Màgdala andò ad annunciare ai discepoli: «Ho visto il Signore!» e ciò che le aveva detto”. (Gv 20, 11-18).

Analizzando questo passo evangelico, san Tommaso D’Aquino ha definito Maria Maddalena «la apostola degli apostoli»[10], proprio a sottolineare che ella “fu la testimone oculare del Cristo risorto prima degli apostoli e, per tale ragione, fu anche la prima a rendergli testimonianza davanti agli apostoli.
Questo evento, in un certo senso, corona tutto ciò che è stato detto in precedenza sull’affidamento delle verità divine da parte di Cristo alle donne, al pari degli uomini”[11]. Lei, “simbolo collettivo del ruolo da protagonista della donna nel cristianesimo”[12], è la discepola fedele, rimasta accanto al «suo» Signore, come ella stessa lo chiama, durante tutta la passione, fin sotto la croce e al momento della sepoltura.
Non le è bastato: vuole stargli accanto anche quando con tutta evidenza è morto. Tutto in questo racconto e nella storia di questa donna parla di una relazione profondissima e personale con Dio in Cristo Gesù. Per la Maddalena l’incontro con il Risorto segna l’inizio di “un percorso che dall’incredulità si apre progressivamente alla fede”[13]: ella riconosce il Signore nel momento in cui si sente chiamata per nome, quando tutto l’amore del Signore per lei le giunge agli orecchi del cuore attraverso il suo modo di chiamarla. Solo questo incontro personale e unico, solo l’aver fatto esperienza del Risorto rende possibile la missione di evangelizzazione che Gesù stesso le affida: “la Maddalena ha visto Gesù, ha udito la sua voce, probabilmente ha toccato il suo corpo (il che spiegherebbe perché Gesù le dice di non trattenerlo)”[14]. Non sono bastate la visione di angeli, le loro parole e le prime parole di Gesù: nella Maddalena come in tutti noi, per suscitare la risposta di fede e il conseguente slancio missionario, sono necessarie l’appellazione intima e personale e l’esperienza del Risorto.
Proprio come la Vergine Madre di Dio, Madre della Chiesa e Regina degli Apostoli, ha concepito il Figlio a seguito della sua totale adesione di fede, ricevendo per prima l’Annunciazione, allo stesso modo un’altra donna, Maria di Màgdala, ha dato per prima la sua personale risposta di fede nel Risorto ed è diventata il simbolo della «maternità» della Chiesa militante, la prima di tutti coloro, uomini e donne, che nella Chiesa generano figli nella fede trasmettendo loro l’Annuncio di gioia, aprendoli così alla possibilità di accedere alla vita vera, alla vita eterna. Per questo possiamo a ragione affermare che “la storia del cristianesimo deve molto a Santa Maria Maddalena e alle tante donne che hanno speso la loro vita per Cristo”[15].
Ecco che una donna si è meritata il titolo di «apostola», proprio per aver ricevuto questo specialissimo privilegio di essere stata la prima ad incontrare Gesù risorto: a partire dal 2016, per volontà di papa Francesco, la memoria liturgica di santa Maria Maddalena, il 22 luglio, è stata elevata al grado di festa, al pari di quella degli apostoli. Questa scelta, “non va letta come una rivincita muliebre: si cadrebbe nella mentalità delle «quote rosa».
Il significato è ben altro (…) Lei, la prima «mandata da» (questo significa «apo-stolo»): mandata dal Risorto a «istruire» gli Undici”[16].
Una scelta fatta unitamente all’invito a riflettere sul ruolo e sulla responsabilità delle donne nella Chiesa e nell’evangelizzazione, perché continuino ad essere considerate e valorizzate nella vita e nella missione della Chiesa come Cristo stesso ci ha mostrato.

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[1] Se si vuole approfondire questo argomento, cfr. N. Masetti, Orientamenti di Teologia Fondamentale, Editrice Elle Di Ci Leumann, Torino 1991, p. 191 – 214.
[2] “Se non esiste risurrezione dai morti, neanche Cristo è risuscitato! Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede”. 1Cor 15, 13-14.
[3] “Le donne vedono per prime il Risorto (…). Nessuno dava importanza alla testimonianza delle donne. Se si fossero inventati le apparizioni, perché correre così stupidamente il rischio di essere derisi per questo miracolo «da donnicciole»?”. N. Masetti, Orientamenti…, p. 114.
[4] “Un’apologetica invenzione del sepolcro vuoto non è credibile. Gli evangelisti avrebbero fatto ben attenzione a non scegliere donne come testimoni. Se avessero inventato, avrebbero avuto l’avvertenza di non far incorrere gli apostoli in tante brutte figure”. Ibidem, p. 206.
[5] “In tutto l’insegnamento di Gesù, come anche nel suo comportamento, nulla si incontra che rifletta la discriminazione, propria del suo tempo, della donna. Al contrario, le sue parole e le sue opere esprimono sempre il rispetto e l’onore dovuto alla donna.” Mulieris Dignitatem, n. 13.
[6] Sull’identità di Maria di Màgdala, non priva di equivoci nel corso della storia, cfr. https://it.aleteia.org/2019/07/22/chi-era-veramente-maria-maddalena/
[7] Cfr. Lc 24, 6-7.
[8] “Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto”. Lc 24, 22-24.
[9] “Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti!” Lc 24, 25.
[10] “Facta est Apostolorum Apostola per hoc quod ei committitur ut resurrectionem dominicam discipulis annuntiet”. S. Tomaso D’Aquino, In loannem Evangelistam Expositio, c. XX, L. III, 6.
[11] Mulieris Dignitatem, n. 16.
[12] https://www.lavoce.it/maria-maddalena-magdala-apostola-degli-apostoli-chiesa-donna/
[13] https://it.aleteia.org/2019/07/22/chi-era-veramente-maria-maddalena/
[14] https://www.it.apostlesofil.com/s-maria-maddalena-apostola-degli-apostoli/
[15] https://www.interris.it/spiritualita/santa-maria-maddalena-apostola/
[16] https://www.lavoce.it/maria-maddalena-magdala-apostola-degli-apostoli-chiesa-donna/

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Novena di 9 mesi a Nostra Signora di Guadalupe

Chiamata mondiale alla preghiera: per il ritorno a Nostra Signora

24 Marzo 2024: SecondaRiflessione

Durante la prima apparizione a San Juan Diego, Maria si è presentata come la Vergine Madre di Dio e Madre nostra.

Queste parole sono tanto confortanti e motivanti oggi quanto lo furono circa 500 anni fa:

“… sono onorata di essere la tua compassionevole Madre, tua e di tutte le persone che abitano insieme in questa terra, ed anche di tutte le altre stirpi d’uomo. Coloro che mi amano, coloro che gridano a me, coloro che mi cercano, coloro che in me confidano”.

Come cattolici, diciamo essere gran fatto che Maria sia nostra Madre. Noi la chiamiamo la nostra Madre Beata abbastanza frequentemente, forse, da perdere a volte di vista quale cosa straordinaria sia quella che stiamo dicendo. Maria, la Madre sempre Vergine di Dio, è nostra madre: prendete un momento oggi per riflettere quanto più profondamente riuscite sulle stupende implicazioni di quest’affermazione.

Sappiate nel vostro cuore che lei è vostra Madre. Sappiate, oltre ogni ombra di dubbio, che la sua cura materna per voi è reale. Riconoscete che Lei vuole ciò che è meglio per voi – e che non desidera nient’altro se non portarvi in un rapporto più stretto col suo Figlio Divino che, attraverso la di lei Divina Maternità, è diventato nostro Fratello. Contemplate come questo sia un segno degli abissi insondabili dell’amore di Dio per noi, il Quale ha mandato a noi Maria nel ruolo di Madre e di Mediatrice della Grazia. Per tutti i giorni a venire, chiedete espressamente l’intercessione di Maria per ottenere ciò che di buono e santo desiderate, così che il vostro desiderio possa conformarsi ancor più saldamente al piano di Dio su di voi.

Preghiamo…

Tutte le meditazioni della Novena a Nostra Signora di Guadalupe

LA MOSTRA DI CARPI “OFFENSIO PLENA”

don Giuseppe Agnello

La prudenza bíblica è un dono di grande utilità nel pensare, nell’agire, e nel parlare (Cfr Sap 8, 6-13), che non dovrebbe mancare in uòmini di Dio, a maggiόr ragione se dotati di grandi responsabilità nel diàlogo con il mondo contemporàneo.

Una cosa senz’altro sàggia e schietta sarebbe il non farsi trascinare nel solo punto di vista dell’interlocutore, ma di conservare il pròprio punto di vista di credenti, perché in caso contràrio si diventa còmplici di aberrazioni di pensiero e di azione, che prèndono forza dall’ingenuità o ignoranza colpévole di chi li ha permessi. Tutto questo è mancato nella mostra che dal 2 Marzo 2024 si è inaugurata nella chiesa di Sant’Ignàzio di Carpi, sede del Museo diocesano; e che vuole avér tèrmine il 2 Giugno 2024, ma che speriamo vivamente finisca prima. Si frontéggiano, come ben sapete due visioni della realtà. La prima è quella del pittore Andrea Saltini, autore delle 20 tele, sostenuto dalla persona del vicàrio episcopale don Carlo Bellini, che definisce le sue òpere «intrise di spiritualità»; e sostenuto dalla crítica d’arte Cristina Múccioli, che le chiama «evocazioni misericordiose (di chi si accora le misèrie altrui sapèndole anche pròprie), convocate e accolte senza esclusioni igiènicoestètiche». In questa posizione non c’è il cattolicésimo dell’autore, il quale ha sí una sua ricerca del mistero, ma non nell’incontro primàrio con Dio, bensí con la misèria che lo fa soffrire. Egli stesso lo ammette: «Penso che la sèrie Gratia plena ruoti intorno alla ruota dell’uomo e al bisogno, in qualche modo, di trascèndere la nostra soffernza. In realtà non si límita a parlare di questa lotta; è, in sé, evidenza di questa lotta».

L’altra visione della realtà è quella degli scandalizzati da questa mostra e dalle roboanti presentazioni e lodi sul suo contenuto, dal luogo che la òspita e dalla diòcesi che la contínua a presentare come arte sacra, non vedendo la blasfemia del quadro INRI, che è la punta del borgognone. Questa posizione riposa su tre capisaldi dell’arte sacra: il soggetto sacro, la sua rappresentazione chiara del mistero di cui parla, e la glòria che si deve dare a Dio attraverso forme, matèria e colori. E di tutti e tre resta garante la fede cattòlica dell’artista, perché «l’uomo, senza la fede, non può piacere a Dio» (Cfr Eb 11, v.6) e «la vera fede è útile a tutto» (1 Tim 4, v.8), o, come si legge nella precedente traduzione CEI74: «la pietà è útile a tutto». Fede e pietà, dunque, sono necessarî all’arte sacra: fede nel mistero di Cristo integrale (perché la Chiesa si è impegnata sempre nella stòria a combàttere le eresie che intaccàvano il mistero di Cristo); e pietà come rapporto filiale col Padre, come dono dello Spírito Santo.

Dunque la nostra riflessione non è una riflessione sull’arte in gènere o su quella contemporànea, o sulle scelte diocesane di questa o quella diòcesi, che pure in questo caso ci tocca affrontare; ma sull’arte sacra, affinché nessuno cerchi fόglie di fico per coprire la vergogna di ciò che è successo. La fede dell’artista di arte sacra non è il deismo, non è una spiritualità confusa o un’antropològia àtea, ma deve èssere la fede della Chiesa (quella contenuta nel Credo e nel Catechismo della Chiesa Cattòlica), anche se l’artista si riconosce peccatore e pieno di misèrie. Il soggetto dell’arte sacra quindi non può èssere un’allusione alla stòria sacra o un títolo che la richiama, ma un riflesso o rappresentazione del Logos che si è fatto carne, o è stato prefigurato nell’Antico Testamento; senza altri veli rispetto a quello della stòria precedente all’Incarnazione, e senza travalicare la stòria nota e rivelata con reintepretazioni bizzarre o blasfeme: altrimenti l’òpera d’arte non sarà capita, potrà èssere fraintesa, e potrà èssere pure blasfema (con o senza l’intenzione dell’autore). Le attualizzazioni hanno sempre un límite: l’immaginàrio collettivo. E l’immaginàrio collettivo dei fedeli ha sempre una garanzia: la tradizione della Chiesa. Senza il límite e contro ogni garanzia di cattolicità, elementi consegnàtici dalla stòria sacra, il sensus fidei si ribella alle falsificazioni íntellèttualístiche, come è successo a Carpi. Ragiόn per cui, se anche si vuole assόlvere l’artista, non si pòssono scusare gli organizzatori, anche solo per il fatto che non si onora Dio contraddicendo la stòria e la fede, e nemmeno dando all’arte licenze che non può avere, quando è sacra. La Sacra Scrittura insegna che «chi custodisce un fico, ne màngia i frutti, chi ha cura del suo padrone ne riceverà onori» (Pr 27, v.18). Parole rivolte a chi crede che il fico è la conoscenza e il padrone è Dio, per cui non si può nell’arte sacra indúlgere sull’ignoranza e non avere cura dell’onore di Dio, spècie in chiesa. Questo è invece accaduto a Carpi, non solo per la questione del quadro senza perizònio e con la testa di Longino sulle pudenda del Signore. La mancanza del panno della purezza ha un suo precedente nel Crocifisso di Michelàngelo a Firenze, ma questa scelta isolata dell’iconografia sacra si spiega con lo studio anatòmico che l’artista stava facendo a quel tempo mentre era òspite del priore di un convento, tant’è che Michelàngelo stesso lo volle coperto e coperto rimase per sècoli. E dovrebbe ritornare ad èsserlo! Qui a Carpi siamo andati oltre, con pose, vesti, gesti ambígui, antistòrici, chiusi alla preghiera che l’arte sacra deve suscitare, e infine blasfemi. Ci scandalizza che dietro la frase di frà Cristòforo, che è poi citazione della Léttera a Tito: «Tutto è puro per i puri» (Cfr Tt 1, v.15), si vòglia risòlvere la questione, a rimpròvero dell’osservatore e a discolpa di tutti gli altri.

Sarebbe bene, per chi vuole valorizzare l’arte sacra, studiare le vite e l’arte di Giotto, del beato Angèlico, del servo di Dio frà Clàudio Granzotto, e del grande architetto della Sagrada Família Antònio Gaudí. In altri e piú famosi artisti possiamo trovare il gènio, la bellezza e la fedeltà rappresentativa dell’evento cristiano, ma in essi troviamo anche la premessa necessària all’arte sacra: l’umiltà, la preghiera, la penitenza che accompàgnano lo stúdio e l’esecuzione. Da esse derívano l’igiene estètico dell’òpera e anche la comunicazione esatta tra contenuto dell’òpera e attesa del credente. Il professόr Granzotto, prima ancora di diventare frate, diceva: «A me piace l’arte e l’Arte Sacra. Per questo mi tengo lontano da ogni dissipazione: non frequento osteria, mi sforzo di mantenermi buono. Se non si è buoni e raccolti non si può far dell’Arte Sacra. Bisogna sentire ed è allora che si può trasfòndere nel marmo il buono e il bello».

Ma torniamo alla mostra di Carpi e a come persino Agensir.it títoli: «Nessuna immàgine blasfema e dissacrante»; e vediamo a títolo di esempî, alcune delle òpere del Saltini, tenendo presente ciò che dice l’autore e ciò che vediamo noi. L’autore, per lo piú si propone una rilettura in chiave contemporànea del Caravàggio, e nel quadro “Pescatore di uòmini” ci riesce. Un san Pietro deposto nell’acqua, però, ha bisogno di mille spiegazioni per legare armonicamente l’intento dell’autore di un ritorno all’orígine della chiamata; il rapporto tra l’acqua che lo accòglie morto e l’acqua che lo vedeva vivo; la fede di chi deve pensare contemporaneamente al Pietro stòrico, a quello del Caravàggio citato e del Saltini che lo cita. Ad ogni modo, qui, la citazione del Merici, conserva al santo il perizònio che sarà tolto a Gesú.

Altra òpera: “San Giovanni Battista”, mezzobusto visto di spalle e nudo, su fondo nero, con la pelle rosso fuoco, ma il collo e il volto colór incarnato, ha il capo chino, mentre riceve lapilli nella notte, che l’autore ci spiega sono, come in molti altri quadri, «Segni gràfici accennati che vògliono rimandare sempre alla presenza dello Spírito Santo». Il pellerossa a metà è spiegato come màrtire consapévole, ma senza la didascalia dell’autore non c’è nulla della descrizione dei Vangeli che ce lo possa fare riconόscere come il Precursore. Sembra un giόvane ballerino in tuta rossa anatòmica, che, cogitabondo e pronto a ballare, riceve una gragnuola di lamelle d’oro o di luce, come nella finale del serale di “Amici” succede al vincitore. Da questo quadro risulta ancora piú chiaro che le didascalie bàstano se sono radicate nella realtà, altrimenti a poco serve una scritta che chiama “San Giovanni [in Laterano]” il San Giovanni Battista di Giovanni Micheluccî, sull’autostrada del Sole presso Firenze.

Il quadro “Non crederò” «è molto caro all’autore» perché ha una dòppia prospettiva: può èssere san Tommaso «che finalmente crede e si apre all’amore»; e può èssere Gesú, «che espone il petto, la ferita a noi». Come fa la stessa persona a somigliare a entrambi e a parlare di entrambi? Somigliando all’uomo della Denim che si sta svestendo o rivestendo, e ci dice il suo status: “Non crederò”.

Il quadro “Natanaele…un israelita in cui non c’è falsità” proségue, acutizzando il tutto, la rappresentazione dell’immaginàrio dell’autore: mezzobusto nudo e frontale di un giovinetto con uno strano sombrero a tre anelli, ma che guarda al cielo. “Paràclito”, invece, porta solo il nome della terza persona della Trinità, perché ad èssere rappresentato è un astronàuta che abbràccia un ammalato, visto che la salvezza la si può aspettare solo dallo spàzio. E se cosí è trattato il Divino Amore, che ne sarà della beata Vérgine Maria?

Nel tríttico “Gratia plena” è vestita come una cubista che ha scelto vesti bianche anziché nere, o come una modella di Thierry Mugler che è palpata e annusata, e passata al microscòpio di sguardi farisàici da una plètora di uòmini che la oggettivízzano. Come vedete, e spero che abbiate sotto gli occhî i quadri di cui parlo, l’arte contemporànea non può (costitutivamente) èssere arte sacra, ma solo a soggetto religioso, con tutte le varianti àntistòriche, àntidommàtiche, àntiuniversàli, antirazionali, e pure blasfeme, già viste. E veniamo a questo punto alla blasfemia piú evidente: il quadro “INRI (San Longino)”. Gesú è Gesú solo per la visibilità delle stímmate a piedi e mani, perché poi ha il corpo e il volto puliti di un efebo: niente ferite, niente ematomi, niente barba. È disteso a terra su un pavimento scuríssimo, confortato solo da un lenzuolo raggrinzato all’altezza del tronco, che non si capisce se è il lenzuolo con cui è stato calato dalla croce o ciò che resta di un letto movimentato. Longino non veste da soldato, non ha la lància né elmo in testa, ma «la mano che preme verso il costato è secondo l’interpretazione dell’autore il símbolo, l’atto stesso che identifica il personàggio – soggetto principale dell’òpera: San Longino. NOTA: il pezzo è stato pensato e si sviluppa orizzontalmente (come raffigurato sul catàlogo) dal momento che la prospettiva è stata creata dall’autore con un punto di vista dall’alto». Poi però il quadro si còlloca verticalmente; lo fa l’autore, aggiungendo altra spiegazione. Risultato? La prospettiva aèrea dell’efebo deposto, con un Longino riverso sul suo corpo e con la fàccia sulle pudenda senza perizònio; con la mano sinistra premente la pància del deposto e la destra che scompare in mezzo alle gambe aperte del giόvane. Uno che guarda sta scena che deve pensare? Se siamo davanti a Gesú e a san Longino, c’è la blasfemia o il “vitupèrio di cadàvere”, come qualcuno dice pensando alla fellatio in corso. Se non sono Gesú e nemmeno san Longino, INRI allora signífica: «Idioti! Non riconoscete “Illos”?». No, quando si perde il contatto con la realtà. L’arte contemporànea non è esente da questa règola: se vuol fare di testa sua e come le piace, non si difenda dietro il dito se poi cade nella blasfemia, perché qui nessuno è scemo. Concludo con un anèddoto contenuto nel Diàrio di Giovanni Papini, in data 11 Febbràio 1947: «Un certo Cristofanelli, di Roma, architetto, viene a lèggermi alcune pàgine di un diàrio immaginàrio di Michelàngiolo, scritto nel gergo di un mediocre giornalista del Novecento, senza pensieri alti e nuovi, con scarsa esattezza stòrica. Gli dico schiettamente il parèr mio e costui quasi si arràbbia, sicuro comè di avér letto tutto quel che si riferisce a Michelàngiolo e d’èssere un ecclellente scrittore. Debbo rattenermi per non dirgli quel che mèrita, cioè che il suo libro è penosa e ingiuriosa profanazione di un gènio ch’egli mostra di non avér compreso. Ma questi principianti quanto piú sono mediocri, tanto piú sono presuntuosi».

Lo stesso si potrebbe dire di me che commento Andrea Saltini, ma ricordi il Saltini e tutta la diòcesi di Carpi che nostro Signore Gesú Cristo è piú grande di tutti ed è «degno di ricévere…onore, glòria e benedizione» (Ap 5, v.12)

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