Don Mario Proietti
Restaurare, non rifondare: conclusione del ciclo
Quindicesimo articolo del ciclo “I papi passano, ma la Curia rimane”
Dopo un lungo cammino di riflessione, attraversando i nodi più delicati della vita della Chiesa contemporanea, è giunto il momento di concludere. Non per porre fine alla riflessione, ma per raccogliere quanto seminato, ricapitolare i temi emersi e offrire una sintesi spirituale e pastorale che possa accompagnarci oltre questo percorso. Ogni tappa ha toccato, con rispetto e verità, la carne viva della Chiesa: le sue fatiche, le sue bellezze, le sue tensioni. Il titolo scelto per questo ultimo contributo esprime in maniera precisa l’atteggiamento che riteniamo più necessario per questo tempo: restaurare, non rifondare. Un verbo antico, ecclesiale, che richiama il rispetto per l’opera originaria e il desiderio di restituirla alla sua luce.
Una Chiesa da restaurare, non da reinventare
C’è oggi una tentazione, più diffusa di quanto sembri, che serpeggia tra certi ambienti teologici, pastorali e perfino magisteriali: quella di ritenere che la Chiesa, per essere fedele al suo compito, debba cambiare profondamente, anzi rifondarsi. Si invocano nuovi paradigmi, si moltiplicano i linguaggi che suggeriscono rotture radicali, si esaltano forme di sinodalità permanente che sembrano voler ridefinire la struttura stessa della Chiesa. In realtà, tutto ciò che non parte da una profonda fedeltà a Cristo, alla Tradizione, al Magistero autentico, rischia di sfociare in una reinvenzione arbitraria e infedele.
La Chiesa non ha bisogno di essere rifondata, perché la sua fondazione è divina: essa nasce da Cristo e non dal consenso umano. Rifondarla significherebbe, di fatto, dichiarare fallita la sua origine. Restaurare, invece, significa riportarla alla sua forma autentica, purificarla dalle incrostazioni, liberarla dagli abusi, senza mai alterarne l’essenza. Come nel restauro di un affresco prezioso: non si cambia l’opera, ma la si riscopre nella sua verità nascosta.
Non si tratta di tornare indietro per nostalgia, ma di andare in profondità per verità. La Chiesa deve essere continuamente riformata, “reformanda semper”, ma sempre in continuità con ciò che è, mai contro ciò che è. Ogni vera riforma parte da un atto di umiltà e di adorazione.
Ritrovare l’unità senza settarismi
Durante il nostro itinerario, abbiamo constatato come la Chiesa viva oggi una polarizzazione sempre più acuta. Le etichette abbondano: tradizionalisti, progressisti, sinodali, conservatori, integralisti, modernisti. Ogni gruppo rivendica la vera fedeltà, mentre accusa l’altro di tradimento. Ma la verità cattolica non è partigiana: è universale, cattolica appunto. Non si difende la verità con la logica del partito, ma con la logica della comunione.
Ritrovare l’unità non significa eliminare il confronto, ma tornare al centro, che è Cristo, la sua Parola, il suo Corpo e Sangue, il Magistero della Chiesa in continuità con tutta la Tradizione.
La verità non può essere contro la carità. Il pericolo del settarismo è che anche chi ha ragione finisca per diventare cieco, accecato dalla propria ragione. L’unità si ricostruisce con pazienza, con ascolto, ma soprattutto con la condivisione di uno stesso sguardo verso l’alto.
Fedeltà senza irrigidimenti
In tempi di confusione, l’appello alla fedeltà è giustissimo. Ma anche la fedeltà, se vissuta male, può irrigidirsi. E l’irrigidimento spirituale è una forma sottile di chiusura alla grazia. La fedeltà vera non è attaccamento a formule, ma adesione viva alla verità intera.
In questo ciclo abbiamo ricordato la necessità di custodire la dottrina, la liturgia, la disciplina della Chiesa. Ma non abbiamo mai inteso la fedeltà come ritorno a forme superate per nostalgia, o come adesione formale e sterile. La fedeltà che serve oggi è quella dei santi: radicale e umile, forte e mite, sicura e aperta allo Spirito.
Non serve irrigidirsi per essere ortodossi. Serve ardere, come i discepoli di Emmaus, di una fedeltà che ha conosciuto il fuoco dell’incontro con il Risorto. Solo così la verità diventa vita, e la vita diventa missione.
Conclusione finale
Giunti al termine di questo ciclo, ci accorgiamo che la Chiesa ha già tutto ciò che le serve per essere se stessa. Non le manca nulla, se non la nostra disponibilità ad accoglierla, ad amarla, a servirla con cuore indiviso. I suoi strumenti sono eterni: la Parola di Dio, i Sacramenti, la comunione ecclesiale, la vita dei santi, il Magistero fedele.
Non è tempo di ripensare la Chiesa nei suoi fondamenti, ma di convertirci dentro di essa. La riforma più urgente è quella del cuore: riformare le nostre intenzioni, le nostre prassi, le nostre omissioni.
Restaurare è un verbo di speranza. Significa credere che la Chiesa, pur ferita, è bella. Che la sua vocazione è eterna. Che il suo futuro passa dalla nostra risposta.
Ripartiamo, allora, dal Cuore della Chiesa, che è il Cuore di Cristo. Restiamo con Lui. Solo così potremo anche noi essere strumenti di vera riforma.
Ringraziamento
Questo ciclo non ha voluto spiegare tutto, né fornire soluzioni immediate. Ha voluto, semplicemente, accompagnare il lettore a pensare, a pregare, a soffrire e a sperare con la Chiesa. Se anche solo una persona si è sentita interpellata, allora il lavoro non è stato vano.
I papi passano, la Curia resta. Ma soprattutto: resta il Signore. A Lui la gloria, alla Chiesa la nostra fedeltà, al mondo la nostra carità.