
don Mario Proietti
VERITA', NON INQUIETUDINE
Una risposta alle letture fuorvianti di Vito Mancuso

«Due indizi fanno un sospetto, tre una prova»: il celebre proverbio ben si applica a quanto emerge dalla recente trilogia giornalistica con cui Vito Mancuso ha commentato l’inizio del pontificato di Papa Leone XIV sulle colonne de La Stampa. I suoi articoli — “L’ateismo di fatto o per scelta”, “La via stretta della Chiesa dopo Bergoglio”, e “Il cuore inquieto della Chiesa” — rivelano un orientamento teologico coerente quanto preoccupante: quello di una Chiesa svuotata della sua identità divina e ridotta a voce spirituale dell’umanità. È nostro dovere, alla luce del Magistero, indicare con chiarezza le derive implicite in tale visione.
1. Una fede senza verità: l’ateismo nobilitato
Nel primo articolo, Mancuso prende di mira il richiamo di Papa Leone XIV al “vivere come se Dio non esistesse”, definendolo un passaggio “stonato” e troppo polarizzante. Egli invita invece a valorizzare l’“ateo pensoso”, colui che cerca Dio con onestà anche senza riconoscerlo.
Ma la Chiesa ha sempre insegnato che la verità non si oppone alla misericordia. L’enciclica Veritatis Splendor (Giovanni Paolo II, 1993) insegna che il rapporto tra fede e morale si manifesta pienamente nell’incondizionato rispetto delle esigenze della dignità personale di ogni uomo, esigenze custodite da norme morali che proibiscono senza eccezione gli atti intrinsecamente cattivi (n. 90). Inoltre, afferma che «nessuna circostanza o intenzione può mai trasformare un atto intrinsecamente disordinato in un atto moralmente accettabile o giustificabile come scelta» (n. 81). Dunque, l’ateismo, anche nella forma nobile e sincera descritta da Mancuso, resta privazione della relazione con Dio, e dunque una ferita spirituale. La carità non annulla la verità; la presuppone.
San Tommaso afferma con limpidezza: “Ad iustificationem impii requiritur fides… quia sine fide impossibile est placere Deo” (Summa Theologiae, I-II, q. 113, a. 4), citando la Lettera agli Ebrei (11,6). La stessa affermazione si trova anche nella sua Super Epistolam ad Hebraeos, cap. 11, lect. 1, dove ne offre un commento diretto. Traduzione: “Alla giustificazione dell’empio è necessaria la fede, con la quale l’uomo crede di essere giustificato da Dio per mezzo di Cristo, poiché senza la fede è impossibile piacere a Dio”. Il Magistero della Chiesa, nella Dominus Iesus (2000), afferma: «Non di rado si afferma che la teologia della religione cristiana deve superare il concetto di missione ad gentes, in favore di un dialogo interreligioso comprensivo come metodo e criterio per ogni attività missionaria. Questa opinione presuppone spesso una concezione relativista, secondo cui la verità su Dio non potrebbe essere conosciuta e manifestata in modo definitivo e universale» (n. 22). La stessa dichiarazione chiarisce che non è possibile «considerare le religioni, anche se diverse tra loro, come vie complementari alla salvezza».
2. Una Chiesa senza missione: l’illusione della “via stretta”
Nel secondo articolo, Mancuso esalta Leone XIV come sintesi tra progressisti e conservatori, un Papa “di equilibrio” che rinuncerebbe a qualsiasi protagonismo per offrire una Chiesa meno visibile, più sommessa, non più segno di contraddizione.
Ma dimentica che la Chiesa è “colonna e sostegno della verità” (1Tm 3,15), e non può ridursi a mediatrice diplomatica tra sensibilità teologiche. Il Concilio Vaticano II, nella Lumen Gentium (n. 8), afferma che la Chiesa è insieme società visibile e comunità spirituale e che Cristo l’ha costituita come strumento di redenzione per tutti. Il Papa non è un tecnico dell’equilibrio, ma il successore di Pietro, chiamato a confermare i fratelli nella fede (Lc 22,32).
Il Papa non è un garante di pace interna tra opposti, ma colui che proclama con autorità la verità salvifica. Papa Leone XIV, se fedele a questa missione, sarà sì mite, ma non “neutro”.
3. Una Chiesa senza dottrina: l’inquietudine elevata a metodo
Nel terzo intervento, Mancuso loda il “cuore inquieto” del Papa e della Chiesa, come se la vera grandezza ecclesiale consistesse nel non definirsi, nel restare in tensione, nel non proclamare verità assolute. Ma qui si scorge l’inganno più sottile: l’ambiguità spiritualizzata diventa virtù.
La “Chiesa inquieta” è una suggestione poetica, ma è incompatibile con il mandato ricevuto da Cristo: “Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni” (Mt 28,19). I Padri della Chiesa non hanno fondato il cristianesimo sull’inquietudine, ma sulla certezza pasquale. Il Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 889) afferma che Cristo ha voluto che la Chiesa fosse infallibile nel suo insegnamento della fede e della morale, proprio per non lasciare i fedeli in balìa del relativismo.
La Chiesa deve certamente ascoltare i dolori dell’umanità, ma non può dissolversi in essi. È lì per portarvi Cristo, non per specchiarsi nella fragilità del mondo, ma per redimerla.
Si deve custodire l’identità, non rincorrere il consenso
I tre articoli di Mancuso sono coerenti in un’unica direzione: un cristianesimo senza dogma, senza missione, senza certezza. Ma ciò che in apparenza appare come apertura, in realtà è una resa culturale al pensiero liquido, che cancella la verità per rendere accettabile ogni sensibilità.
In tempi di confusione, occorre tornare al fondamento: Cristo è la Verità, e la Chiesa ne è la serva, non l’interprete soggettiva. Il nuovo Papa, se saprà resistere alla seduzione di chi vuole farne il portabandiera del compromesso spirituale, potrà davvero rinnovare la Chiesa non nella forma, ma nella fedeltà.
Il cuore della Chiesa non è inquieto. È saldo nella Verità, trafitto d’amore, ma pieno di speranza.
