Il Pensiero Cattolico

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don Giuseppe Agnello

Sacerdoti nella rete

Nel servizio al Vangelo e alle anime, che il nostro tempo tanto tecnologico e virtuale ha accorciato nelle distanze, l’uso di piattaforme di condivisione (o social media), di canali della Rete, di registrazioni vocali, di video brevi o lunghi, si configura come un mezzo vincente ed efficace di trasmissione di contenuti, ma con piú di un rischio da evitare. Vorrei perciò a pro di tutti, ma vieppiú dei miei fratelli sacerdoti, riflettere con voi sul rapporto tra questi strumenti di evangelizzazione e catechesi, e la vita spirituale di chi (youtuber, influencer e tiktoker) li usa per raggiungere altri, oppure ne è destinatario (amici, follower, iscritti).

Ravviso infatti tre perícoli “connessi” a questo “mondo”:
1) La fuga dalla realtà;
2) La fuga dai doveri di stato;
3) La banalizzazione del mistero.
Nel primo caso, il web diventa piú importante della parrocchia, della propria famiglia (naturale, sacramentale o religiosa), delle persone da incontrare faccia a faccia; del tempo di silenzio, studio, preghiera; di chi ci cerca a casa o nel confessionale. La realtà ci vorrebbe incarnati nei luoghi reali, magari con il peggiore parroco del mondo o con solo trenta ragazzi in oratorio, ma noi preferiamo il gioco, la messa, e gli incontri online.
Nel secondo caso, invece, ci si dimentica la propria identità e il fine per cui si usano i social: istruire (gli altrimenti irraggiungibili) in vista della santificazione, che avviene sempre in presenza e in chiesa, collaborando con la grazia e incontrando persone in carne ed ossa (non a caso è vietato confessare e assolvere i peccati per telefono o simili).
L’ultimo rischio di questi mezzi, poi, è conseguenza dei primi due pericoli o derive: se la realtà non vale quanto il mondo virtuale, e se la mia identità vale perché ho 17.000 ammiratori e sostenitori mai visti e incontrati, oppure perché ho un milione di visualizzazioni, il mistero di Cristo e della Chiesa è banalmente sottomesso a follower e visualizzazioni, ragion per cui non deve meravigliare vedere sul web preti contenti e orgogliosi di scomuniche e sospensioni a divinis, che adesso non vivono per Cristo, ma per il canale Youtube e le visualizzazioni con relativi commenti.
La domanda sorge pertanto spontanea: se non avessero avuto una videocamera a riprenderli, come avrebbero esercitato il loro ministero nella Chiesa e nel territorio? Se si togliesse loro il web (non come atto liberticida e autoritario, ma come ipotesi di verifica), che ne resterebbe di un sacerdozio sbilanciato nella Rete? Svanirebbe l’inganno in cui tanti sacerdoti sono caduti, a motivo dell’ambivalenza del mezzo buono per i buoni e cattivo per i cattivi.
Dice infatti la Sacra Scrittura: «Nelle disgrazie può trovarsi la fortuna per un uomo, mentre un profitto può essere una perdita. C’è una generosità che non ti arreca vantaggi e c’è una generosità che rende il doppio. C’è un’umiliazione che viene dalla gloria e c’è chi dall’umiliazione alza la testa» (Sir 20, 9-12). È chiaro che questi versetti per un malato di visualizzazioni saranno la spiegazione della sua triplice fuga, come per un radicato nella realtà saranno la spiegazione che non è una disgrazia perdere il web. Ma qual è la verità che ci salva nella Chiesa? La spiritualità e l’esempio dei santi. Con essi dobbiamo misurare le nostre aspirazioni di bene, per fare un po’ di pulizia dentro e fuori di noi.
A vantaggio dunque di sacerdoti come don Alessandro Minutella, don Roberto Fiscer, don Alberto Ravagnani, offro l’esempio di un sacerdote vissuto nel XVI sècolo, ma che in Ispagna è il patrono dei sacerdoti diocesani. Cito solo loro tre, come sacerdoti diocesani, sia per la visibilità e le “diocesi virtuali” possedute, sia per le polemiche a loro e ad alcuni loro video connesse.
Il Minutella è noto per la sua deriva scismatica e la sua autoproclamazione di Grande prelato e di Leone di Maria; il Fiscer è noto per la sua evangelizzazione digitale su Tik tok e su Istagram attraverso simpatiche scenette; il Ravagnani, un vero conquistatore di gioventú digitale, si attesta adesso sull’importanza della palestra e degli integratori per il físico, che ovviamente esibisce in esercizi che ne esaltano i progressi. Tutti e tre possono dire ai loro follower «voi siete il sigillo del mio apostolato nel Signore» (1 Cor 9, v.2), ma al Minutella, che si sente l’eroe della Chiesa, dobbiamo dire: «Il paziente vale piú di un eroe, chi domina sé stesso val piú di chi conquista una città» (Pr 16, v.32); ai suoi sostenitori, proprio perché il suo agire è contro ogni regola e apostolicità della Chiesa, diciamo: «Vi ordiniamo pertanto, fratelli, nel nome del Signore nostro Gesú Cristo, di tenervi lontani da ogni fratello che si comporta in maniera indisciplinata e non secondo la tradizione che avete ricevuto da noi» (2 Ts 3, v.6); a quelli del Ravagnani e al Ravagnani stesso, che ora non mette piú nemmeno il clergyman nei suoi video: Alberto, «Allènati nella vera fede, perché l’esercizio físico è utile a poco, mentre la vera fede è utile a tutto…sii di esèmpio ai fedeli nel parlare, nel comportamento, nella carità, nella fede, nella purezza» (1 Tm 4, 7b.8.12).
Al don Fiscer genovese, invece, vogliamo dire qualcosa in piú, sia per l’indignazione che ha suscitato in noi il video in cui finge di celebrare messa e mima, al posto di quelle consacratorie, le parole di una canzone di Ornella Vanoni; sia per la compassione che ha suscitato in noi il suo vídeo di “addio” temporaneo ai social media. Lo facciamo non come nemici in casa, ma come fratelli in Cristo che apprezzano la creatività dello Spírito Santo e i diversi carismi, doni dell’unico Spirito (Cfr 1 Cor 12, 9-10), ma non dimenticano che si scherza con i fanti, ma non con i santi. Partiamo da lontano, però.
Nella sua opera Platicas sacerdotales [Trattato sul sacerdozio] del 1563, san Giovanni d’Avila, trattando del sacerdote come del piú grande dono che Cristo possa averci fatto, considera sia il mistero che lo abbraccia e lo rende mediatore, esempio, maestro, vittima, sia la santificazione che da esso parte e si irradia sulla comunità affidatagli. Ciò che fa da sottofondo a tutta l’opera e anche alla spiritualità del santo è la sua devozione al Santíssimo Crocifisso, meditando sul quale ha sviluppato tutte le sue virtú: quelle che gli hanno fatto sopportare le false accuse di rigorismo morale, il carcere, le invidie e persecuzioni, la malattia e ogni fatica. Ripartire da questo esempio per ogni considerazione sui preti social è un atto dovuto a Gesú Crocifisso, perché nessuna via nuova di nuova evangelizzazione deve dimenticare che solo ai suoi piedi c’è vera fecondità spirituale, e solo nell’Eucaristia adorata (che è il Crocifisso nascosto sia nella sua umanità, sia nella sua divinità) c’è il bene di tutti.
Se infatti Lo si adora, Lo si mangia devotamente e si vivrà per Lui (Cfr Gv 6, v.57). Se Lui resta il sottofondo per il nostro protagonismo o solo l’occasione per stare bene insieme, nessun apostolato porterà nuovi amici a Gesú, ma porterà sicuramente tanti “amici” secondo la logica di Facebook. Per essere adorato va però conosciuto, ed è per fare conoscere il Signore che si muove lo zelo di tanti sacerdoti che usano, senza abuso, il mondo digitale. Tra questi don Roberto Fiscer, un sacerdote di cui ho apprezzato solo un video, quello in cui ho visto il suo volto serio, dolce, dimesso dalle smorfie delle scenette che ci aveva abituato a vedere.
In esso parla cuore a cuore “alla sua famiglia”, dopo un diluvio di reazioni non certo contenute, alla sua profanazione della Messa (il Sacrifício di Cristo sulla Croce). In un video di 17 secondi, infatti, si vede lui all’altare, in paramenti verdi coi capelli raccolti in una coda alta, durante il canto di offertorio, mentre versa il vino dall’ampollina in una specie di calice di ceramica.
Non è una scena tratta dalla messa vera e propria, ma la simula col fine di “propaganda Missae”: infatti il titolo sovraimpresso in cima al video è «Vi porto a Messa con me». Ebbene, dov’è il problema? Nei capelli e nella barba? No!, sebbene non diano proprio l’idea dell’όrdine che Gesú porta nella vita di una persona. Nei molti bracciali che porta all’uno e all’altro polso? No!, sebbene non sia piú un adolescente che deve far mostra di mode.
Nei vasi sacri che non sono secondo le norme liturgiche? (Cfr Ordinamento generale del Messale Romano nn 328-329) Nemmeno!, sebbene nell’ambito dell’arte sacra assistiamo ormai al faidate sdoganato e che non fa nemmeno notizia. Sarà nel turibolo fumante sulla mensa? Neanche per questo!, sebbene sia fuori luogo. Allora non resta che la sincronizzazione delle sue labbra con la voce di Ornella Vanoni che canta “Rossetto e cioccolato” (playback perfetto, ma contesto non benedetto): «Si fa cosí: è tutto apparecchiato, per il cuore e per il palato. Sarà bello bellissimo, travolgente, lasciarsi vivere totalmente». Si, è proprio qui che è scattata l’indignazione e la pena, perché la simpatia di don Roberto, le trovate di don Roberto, in un crescendo desacralizzante, hanno raggiunto il colmo dell’oblio del Crocifisso. Per questo oblio, neppure la migliore intenzione (spiegare ai ragazzini e ai giovani che è bellissimo e travolgente partecipare alla santa messa) regge: si è profanato un rito; si è giocato con oggetti e paramenti destinati al culto e benedetti per quest’unico fine; si è trattato in modo indegno il SS Sacramento dell’altare.
Si è scelta la via dei comici e, come Massimo Troisi e Lello Arena hanno ridicolizzato l’Annunciazione, come Maurizio Crozza ridicolizza papi e cardinali, cosí un sacerdote ha ridicolizzato l’altare. Non lo ha fatto nell’intenzione, ma nell’oblio del Crocifisso e nella banalizzazione del mistero, che in un sacerdote sono inescusabili. Dice infatti san Geremia: «Io pensavo: “Sono certamente gente di bassa condizione, quelli che agiscono da stolti, non conoscono la via del Signore, la legge del loro Dio. Mi rivolgerò e parlerò ai grandi, che certo conoscono la via del Signore, e il diritto del loro Dio”. Purtroppo anche questi hanno rotto il giogo, hanno spezzato i legami!» (Ger 5, 4-5).
Don Roberto è certamente “un grande” rispetto ai comici di cui facevo menzione, ma per vocazione e ministero!, non per il numero di visualizzazioni e per la simpatia. Ha inoltre rotto il giogo soave di Cristo pur volendo condurre a Cristo; e ha spezzato i legami con il mistero, banalizzando il mistero. Di tutto questo non è consapevole, però, come rivelano le sue parole di commiato temporaneo dai social media, dal titolo «Il male ha paura delle persone libere»:
«Questa sera non condivido con voi il solito video, ma volevo comunicarvi una decisione che sto prendendo, sto maturando in queste settimane, che è quella di lasciare (per un po’ di tempo, ma non so per quanto) questa famiglia, perché per me voi siete una famiglia. Perché? Perché si è alzato il livello di violenza, di aggressività, nei commenti sotto i miei vídeo. E questo mi ferisce, non perché sono rivolti a me, ma perché io in questo viaggio ho dei compagni di avventura. Spesso li vedete che sono i ragazzi della parrocchia, sono i bambini dell’ospedale. E quando un bimbo dell’ospedale mi dice: Don, ma perché ci insultano? E beh!: questa cosa mi ha ferito profondamente e che mi ferisce ancora di piú, è che questi attacchi non arrivano dai “lontani”, cioè da persone che sono lontane dalla Chiesa, ma da persone e gruppi vicini e dentro la Chiesa, che vedono nei miei video e nella mia persona qualcosa di sbagliato, di blasfemo, di indemoniato. Pensate: quando sono entrato su Tik tok nel 2020, ricevevo degli insulti, a volte, di persone lontane, ma poi le stesse persone lontane hanno capito che dietro ai miei video c’è un ideale: il tentativo di presentare una Chiesa diversa; e questo ha generato un rispetto. Gesú, pur di avvicinare le persone a Dio, ha pagato lo scotto e il prezzo di sentirsi dare del beone, del mangione, “sei un diàvolo”. Ma sono contento perché vedo che altri miei colleghi o parrocchie portano avanti questo. Ed è un po’ come una staffetta: io l’ho portato per un po’; adesso lo porta qualcun altro. Sono contento che quando mi chiamano nelle diocesi o nelle città, o mi chiamano nelle scuole, o mi scrivono in privato, mi chiedono consigli; si riavvicinano alla fede attraverso questi video stupidi per molti, però a volte basta una briciola, perché quando si ha fame, ti bastano le briciole. Io non riesco a dare di piú che delle briciole. Chi è sazio non lo capirà mai. Mi mancherete tanto! Io amo veramente il popolo di Tik tok, però adesso non è piú un luogo líbero. Anche se so che il popolo di Tik tok, la gente, sa apprezzare, sa cosa volevo comunicare.
Voglio guardare negli occhi quei bimbi e quei ragazzi, e saremo noi a decidere, insieme, se non abbiamo fatto comunque in questi anni qualcosa di bellissimo. Non limitate mai la vostra libertà! Non accontentatevi di qualcuno che vi dà qualche metro di libertà.
Non lo fa Dio; non lo deve fare nessuna persona. Non deve farlo la Chiesa. Grazie»
. Come si può notare, il problema non è come ha trattato il sacro e il mistero della Croce, dimenticandosi di ciò che rappresenta anche nel cuore degli uomini “lontani” (non ho letto i commenti “aggressivi” e “violenti” né li scuso, ma posso capire che il sensus fidei del credente che non sa trasformare un dolore in preghiera o richiamo, può davvero diventare capace di ferire). Il problema di don Fiscer è la libertà di nutrire con le briciole chi ha fame e tanta fame, di farlo nella libertà dei modi che ha scelto, e in obbedienza all’ideale di «presentare una Chiesa diversa». Ha gli occhi puliti, e il cuore davvero ferito, mentre lo dice; e sono sicuro che fa tanto bene ai bambini dell’ospedale e nella sua parrocchia finché realizza teatrini su palcoscenici o scenette per far passare attraverso l’allegria una qualche verità. Temo però che la risata che sconfina sempre sull’altare, non abbia dato a “la sua famiglia virtuale” (non so ai suoi parrocchiani in carne ed ossa) quel posto reale nella Chiesa, in cui il bisogno di risposte resta unito all’onore dovuto a Dio.
È su questo punto la correzione fraterna che gli indirizziamo con l’esempio e le parole di san Giovanni d’Avila, che per il suo tempo fu ritenuto un “Oracolo della Chiesa”, per la sua capacità di discernere il bene dal male nelle sue sottili ramificazioni. Di cui sono memorandi due discorsi ai sacerdoti che andrebbero messi in tutte le sagrestie del mondo. Nel primo dice ad un certo punto:
«Chi vuole onorare Cristo, si ricordi di questo onore [la vocazione al sacerdozio e la possibilità di consacrare] che ha ricevuto da lui. Chi fuori dell’altare vuole andare composto, e con la maturità che deve, si rammenti quanto è stato ingrandito, quanto gran negozio ha operato nell’Altare, e dica con Giuseppe: “Come potrò fare questo male e peccare contro il Signore Dio mio?” Ma se noi sacerdoti non siamo di pietra o demoni; vedendo che il Signore si lega con le nostre parole, si lascia pigliare con catene d’amore dalle nostre indegne mani, non abbiamo giammai né cuore, né lingua, né occhi, né mani, né petto, né corpo per offenderlo: vedendoci tutti interi consacrati al Signore col conversare e toccare il medesimo Signore…La lingua del sacerdote è una chiave, con cui si serra l’inferno e si apre il cielo: si illuminano le coscienze e si arriva a consacrare Dio…Ma noi altri non penetriamo la dignità sacerdotale!…E se fin qui siamo stati poco accurati nel riconoscere la grandezza del beneficio…Dio ha zelo di aiutarci ad essere ciò che dobbiamo essere: non ha egli voglia di arricchirsi e signoreggiare nel Clero, come dice san Pietro, ma di pascerci con buona dottrina e buon esempio…e vuole aiutarci ad essere i piú santi e saggi del popolo».
Forse, dopo queste parole, il rapporto con l’Altare di don Fiscer sarà diverso; la ferita sua sarà molto relativizzata rispetto alle ferite arrecate a Cristo e al suo onore; il concetto di libertà non sarà piú ritenuto il dono di una Chiesa diversa, ma il legame di ogni generazione alla Chiesa di sempre. Per il resto siamo anche noi sicuri che l’allegria non ha mai fatto male alla santità. Il Maligno, infatti, non sopporta la gente allegra, ma si fa facile burla di quei sacerdoti che non hanno chiara la loro dignità sacerdotale e la santità dell’Altare.

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