
Pietro De Marco
Una presa di posizione più onesta : costringere politicamente Hamas al ritiro da Gaza

Le coordinate, indispensabili per un giudizio sulla guerra di Gaza che serva alla sua soluzione, mi sembrano:
A. La responsabilità piena e primaria di Hamas nella successione degli eventi e delle proporzioni acquisite dal conflitto sul campo e/o a livello internazionale.
Sia che si trattasse di coinvolgere Israele in una guerra impopolare e favorire le sue divisioni interne (l’uso degli ostaggi) fino a limitarne la risposta armata; sia che il 7 ottobre rientrasse un progetto più ampio, forse iraniano, quello di palesare la debolezza di sraele e invitare all’emulazione altri soggetti del mondo musulmano, queste strategie o calcoli convergevano nell’obbiettivo ridurre le condizioni oggettive della sua sicurezza. Dall’attacco del 7 ottobre ad oggi il conflitto in corso è per ogni aspetto conforme ad na definizione, che risale a Roger Trinquier: dimostrare (nel nostro caso agli israeliani) la loro vulnerabilità, alimentare le divisioni interne, contrapporre i sentimenti privati e domestici (quelli ad es. dei familiari degli ostaggi) all’ethos del cittadino militante. Il piano è riuscito quanto alle famiglie degli ostaggi, inevitabilmente disposte a tutto. Ma né questo, né le preoccupazioni internazionali per l’estensione del conflitto, e per altre ricadute, potevano bilanciare, fino a inibire, il dovere immediato di reazione da arte di Israele. E i costi della risposta alla provocazione (“fare il gioco di Hamas”, dicevano i nostri saputi) erano e restano così alti che potevano essere bilanciati solo da un risultato militare-politico tendenzialmente irreversibile. Così è stato. Dunque:
B. la risposta di Israele coincide con la necessità di distruggere l’apparato militare (mezzi e uomini) di Hamas come organizzazione specifica e come modello di altre. L’aggressione del 7 ottobre conferma l’inaffidabilità come partner negoziali di formazioni del genere. Se, e in quanto, è vero che Hamas sia stato favorito dai governi israeliani contro l’ANP -secondo le regole del divide et impera- è risultato alla prova dei fatti che nel territorio (nel bacino sociale) palestinese si possono solo costituire nemici armati di Israele, pronti a colpire secondo disegni strategici propri. Che i Territori siano in permanenza idonei alla formazione e alla crescita di formazioni terroristiche è un dato fermo, che varrà domani, anche e tanto più) quando si discuterà della formazione di uno stato palestinese non (più) controllato da potenze terze dotate di un mandato a prevenire e reprimere eserciti irregolari. Regredire al passato (controverso) non è far fronte al presente non controvertibile.
C. Il dato cruciale, ora non in un futuro ottimo, sembra quello della istituzione (che potrebbe già darsi) di potenze terze di controllo e garanzia. Ma, e quasi per paradosso, chiunque si proponga oggi come mediatore di pace nei territori di Gaza (e della Cisgiordania) deve voler politicamente (e mostrarsi militarmente capace di) sostituire Israele nella distruzione degli apparati terroristici ancora esistenti e nell’impedirne la formazione di futuri. Non vi sono altre garanzie, inferiori in operatività e decisione, che abbia senso dare ad Israele. Anche la ricostruzione di Gaza, migliori condizioni di vita (edilizia sociale, attività produttive, libertà civili) delle popolazioni palestinesi, l’autogoverno, sono obbligatamente sotto questa condizione: un periodo di ‘occupazione’ che le favorisca e difenda. Queste garanzie implicano una indispensabile dimensione diplomatica medio-orientale globale, che non decollerà senza la certezza, in tutti gli attori, delle capacità di deterrenza (locali e di teatro) di Israele. Infatti:
D. l’argomento che un nuovo statuto politico e una certa condizione di benessere impedirebbero per sé stessi la formazione di una forza armata palestinese (oggi di guerriglia, domani ufficiale) rivolta contro Israele è infondato e, se in buona fede, ingannevole. Le formazioni terroristiche e irregolari ai confini di Israele sono volute e alimentate da soggetti e risorse ideologiche e materiali provenienti dai paesi musulmani. Sono inoltre filiere professionali che si rigenerano; espressione delle guerre ‘moderne’ (o post-classiche) che non si svolgono anzitutto sul terreno, ma attingono alla figura assoluta del ‘partigiano’ e mirano a ‘demoralizzare’, a demolire la sicurezza (anche morale) dell’avversario, come ho ricordato. Su questo la trattativa globale deve sancire la fine della strumentalizzazione sanguinosa dei palestinesi da parte dei paesi arabi. Sono essi (più l’Iran, oggi) a dover dare garanzie, di fronte alle potenze internazionali, di porre fine a questa pratica pluridecennale contro Israele.
E. Non è sensato pensare operativamente uno stato palestinese, posto che sia una soluzione fruttuosa (vi sarebbe la possibilità di regioni di Israele a statuto speciale, entro l’unica cittadinanza israeliana), se non su questi fondamenti (b+c+d) accettati e sperimentati per un periodo idoneo. Gli israeliani debbono volere fermamente questo obiettivo e lavorare perché sia quello delle potenze internazionali. In questo quadro si trattano le concessioni.
F. Un primo passo, poiché siamo molto indietro: i diversi soggetti attivi nella sfera pubblica mondiale, dalle istanze morali-religiose e giuridiche agli stati alle organizzazioni cd. multilaterali, devono uscire dalla sorprendente parzialità per cui la responsabilità strutturale e costante, non di un giorno (v. sopra a+b), di Hamas non è entrata nelle agende, non è obiettivo di conclamata pressione politica. Nessuna istanza ha agito né agisce sanzionatoriamente su Hamas, che pure non è attore inafferrabile; ha quadri borghesi e basi finanziarie note. Ma Hamas sa di contare, a distanza di sessanta settant’anni dalle guerre rivoluzionarie asiatiche o nordafricane dette di ‘decolonizzazione’, su una eredità di atteggiamenti occidentali favorevoli ad ogni insorgenza. Più che l’antisemitismo, minoritario, è un maggioritario complesso di colpa post-coloniale – inappropriato nel caso israeliano come retrospettivamente per l’intera vicenda vietnamita o algerina- rende gli Europei ostili a Israele, quando combatte.
Il moralismo politico rende storicamente ciechi. Capaci solo di rifugiarci nella doverosa pietà per i morti ma inermi davanti ad un nemico che sfrutta, come propria arma principale, la nostra pietà e insicurezza. È scritto in ogni manuale di contro-insorgenza, in ogni definizione di guerra asimmetrica. E sfrutta anche la paura del dissenso delle forti minoranze musulmane interne (come la Gran Bretagna delle recenti sanzioni ad Israele). Così mettiamo il tutto in capo a Benjamin Netanyahu. Siamo infinitamente sciocchi e infantili, inutili anoi stessi e agli altri, un po’ vili. Dobbiamo pregare perché la Santa Sede si elevi sopra queste mediocrità.
p. s. Ho scritto per l’attuale sito di Sandro Magister sulla ‘proporzionalità’ della
risposta israeliana (www.diakonos.be 24 gennaio 2024).
