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  1. Le vicende scandalose che vedono implicato il pittore gesuita Marko Ivan Rupnik - di cui parleremo in maniera più diffusa in seguito - pongono alla nostra attenzione un problema che da decenni attende una risposta convincente e adeguata: quello dell'arte moderna che si ispira a modelli bizantini. L'arte sacra tradizionale dell'Occidente viene spesso accusata di essersi discostata dalla spiritualità bizantina per prendere vie razionali e realistiche che sono sfociate nel porre l'attenzione maggiormente sull'uomo piuttosto che su Dio. Curiosamente la nostra epoca impedisce ai pittori contemporanei di ispirarsi e di realizzare opere figurative di arte sacra classiche in linea con la tradizione italiana che va dal 1400 al 1700, opere che si legano perfettamente sia con la liturgia che con l'architettura occidentali. Per quel che riguarda la pittura dell'ottocento occorre dire che ebbe un lento ma graduale declino causato dalla nascita e dall'uso della macchina fotografica la quale portò l'artista a trascurare lo studio dell'anatomia e di altre discipline utilissime. Infatti si ebbe l'impressione che la fotografia potesse sostituire tali studi, ma non fu cosi e i risultati di questa pratica si manifestarono pienamente nell'arte del novecento. Inoltre occorre dire che l'artista cominciò a non esprimersi più liberamente tramite un'idea dell'opera nata completamente dal di dentro, ma fu costretto a mediarla con l'immagine che la fotografia gli forniva dall'esterno e ciò andava a discapito della spiritualità e della qualità dell'opera che inevitabilmente perdeva la sua unitarietà, specialmente per quel che riguarda l'impianto della composizione generale. L'uso di fotografie spesso porta anche oggi l'artista a eccessi di realismo inopportuni per l'arte sacra la quale necessita di un certo distacco dalla visione materiale a vantaggio di una certa spiritualità, come rimarca opportunamente l’enciclica "Mediator Dei" nella quale Pio XII chiede un'arte che "eviti l'eccessivo realismo da una parte e l'esagerato simbolismo dall'altra". Ciò che sorprende, comunque, è che gli artisti contemporanei si ispirino all'arte bizantina, chiaramente appartenente a un periodo più remoto, piuttosto che all'arte italiana tradizionale. Perché avviene questo? Sicuramente perché l'arte bizantina non richiede uno studio approfondito della geometria, né dell'anatomia e tanto meno della prospettiva. Questo spiega il proliferare di tanta arte pseudo-bizantina nella nostra epoca. Improvvisamente molti artisti, le cui raffigurazioni erano ispirate all'action painting di Pollok, all'espressionismo astratto di Rothko o all'astrattismo di Kandinski, sono passati tranquillamente ad un'arte di ispirazione bizantina. Infatti per questi artisti passare alle rappresentazioni classiche sarebbe stato impossibile, dato che questo tipo di pittura richiede un lunghissimo periodo di apprendimento, di almeno 20 anni, nello studio della tecnica utilizzata dai grandi maestri della tradizione occidentale. Con l'avvento delle varie correnti "moderniste" del novecento, purtoppo, si è perso gran parte del bagaglio che avrebbe contribuito alla formazione di detti artisti, per cui molti di loro ripiegano verso la pittura bizantina più stilizzata e più semplice da eseguire. Sarebbe opportuno comunque comprendere per sommi capi il processo creativo utilizzato dai grandi artisti della tradizione italiana, in modo da metterlo in relazione con l'arte bizantina e comprenderne lo sviluppo. Esso viene spiegato in modo analitico e soddisfacente dal grande pittore e incisore del cinquecento tedesco Albrecht Durër nel suo libro "Della simmetria dei corpi umani" il quale compì un viaggio in Italia espressamente per apprendere il sistema utilizzato da tutti i grandi pittori italiani dell'epoca per le loro raffigurazioni artistiche, specialmente per quel che riguarda la figura umana. Detto sistema era fondamentale, e lo è ancor oggi, per poter rappresentare la figura umana senza ricorrere ad un modello vivente, specialmente quando era necessario raffigurare scorci arditi o gruppi di figure in movimento e in relazione fra loro, cosa che non si potrebbe ottenere copiando dal vero e neanche con l'ausilio di fotografie. Esso consisteva nel disegnare varie sezioni del corpo umano poste a vari livelli, quindi la faccia frontale e il profilo del singolo pezzo anatomico, per ottenere in seguito, tramite le proiezioni ortogonali, i relativi ribaltamenti e finalmente le numerose visioni in scorcio delle singole parti anatomiche. Un procedimento lungo, complesso e meticoloso che richiedeva una pazienza e un'abnegazione fuori del comune e che veniva condotto a riga e squadra. Questa pratica durava molti anni e ci fa comprendere il motivo per cui i nostri grandi artisti dell'epoca diventavano anche esperti architetti. Infatti la pratica di mettere in prospettiva un corpo umano richiede un'abilità infinitamente maggiore che non il mettere in prospettiva un solido geometrico come un cubo, un cilindro o una piramide. Molti di loro erano infatti pittori, scultori e architetti non a caso. Pensiamo al campanile di Giotto, alla cupola di S. Pietro progettata da Michelangelo, al colonnato del Bernini in piazza San Pietro, solo per citare alcuni esempi. Il metodo descritto dal Dürer probabilmente sostituiva quello di Piero della Francesca descritto nel suo " De perspectiva pingendi", il quale trattava solo la prospettiva del volto umano, mentre quello di Durër analizza il corpo intero. Un tipico esempio pittorico eseguito con questo sistema è il "Cristo morto " del Mantegna. Il problema vero purtroppo è stato causato da alcuni grandi storici dell'arte. Uno dei più importanti è Kennet Klark il quale nel suo libro: "Il nudo" Aldo Martello ed. afferma a pag. 23, riferendosi al trattato di Dürer: "non ho letto questo libro, ma ho dato solo un'occhiata alle illustrazioni come tutti i miei colleghi". Questa è un'affermazione grave, poiché tutta l'arte pittorica del '500, '600 e '700 e anche l'architettura traevano origine dal procedimento descritto nel succitato libro. Infatti anche l'architettura teneva molto in considerazione la figura umana come capolavoro di Dio, applicandone le proporzioni nelle colonne, negli archi a tutto sesto, nelle cupole e perfino nelle decorazioni a forma di S che volevano simulare la clavicola umana. Inoltre non sarebbe possibile comprendere appieno la straripante esplosione artistica del Rinascimento, del barocco e del rococò senza conoscere la tecnica che ha generato questi capolavori. Nei disegni di Luca Cambiaso (1527- 1585) si può osservare non solo l'applicazione del suddetto metodo, ma anche una sua semplificazione. Si comprende anche quale sia la grande differenza che separa un artista come Raffaello o Michelangelo - abituati sin dalla più tenera età allo studio analitico del disegno tramite le costruzioni geometriche - e il Caravaggio che dipingeva esclusivamente dal vero. Ma sarebbe opportuno anche cercare di capire la concezione spirituale che sottende le opere dei grandi artisti bizantini . Possiamo notare come le figure dei santi rappresentati erano essenzialmente piatte e mancavano di chiaroscuro, dovevano infatti risultare completamente spirituali per cui il volume avrebbe rappresentato un impedimento a questo scopo. Le mani e soprattutto i piedi dovevano essere piccoli a indicare lo scarso attaccamento alla vita terrena. Di solito non si guardavano mai tra di loro, ma il loro sguardo era fisso e si perdeva all'infinito a contemplare direttamente la divinità. In loro era assente qualunque tipo di espressione mimica come il pianto, la tristezza, la gioia ecc. a rimarcare la loro impassibilità verso le passioni umane. Inoltre era assente la prospettiva lineare e quella aerea. La prospettiva lineare mancava anche perché gli artisti di allora erano a digiuno di questa scienza riservata agli architetti, tanto è vero che il Beato Angelico desiderava ardentemente imparare questa nuova disciplina e non nascondeva questo suo desiderio, frequentando gli studi di coloro che ne erano già in possesso. È noto il dialogo che ebbe col Brunelleschi di cui era molto amico e le spiegazioni che ne ebbe da lui e che Deda Pini riporta nel suo libro "Il Beato Angelico" (pagg. 49-50-51) concludendo così: "Questa spiegazione così evidente giovò molto all'Angelico, che comprese come occorresse adeguar la pittura all'architettura in quanto ai volumi, mediante la prospettiva. I risultati di quella lezione si riscontrano sulle sue opere, che il pittore domenicano eseguì in seguito e sulle quali si ammirano non solo le figure disposte su diversi piani e proporzionate a essi nelle dimensioni, ma anche diversi motivi architettonici ". Sicuramente comunque lo studio e l'applicazione della prospettiva non tolsero nulla alla spiritualità delle opere del Beato Angelico, anzi ci appaiono ancor più coerenti e libere. Con Giotto e Masaccio l'immagine statica bizantina cominciò già a modificarsi e si notano alcuni dipinti con architetture in cui viene applicata una sorta di assonometria o prospettiva anche se ancora intuitiva. Le figure dei santi cominciano a guardarsi tra di loro e nei volti si notano varie espressioni e atteggiamenti più naturalistici e questo non tolse nulla alla pittura bizantina, ma la perfezionò solamente in quello che erano i suoi scopi e cioè coinvolgere lo spettatore nella scena raffigurata e muoverlo alla preghiera. Non si tratta quindi di una rivoluzione o di un cambiamento, ma solo di un perfezionamento tecnico atto a rendere con più naturalezza ciò che già era in nuce nella pittura bizantina. Si nota anche una migliore comprensione del chiaroscuro e i volumi si fanno più evidenti. Michelangelo perfezionò ulteriormente questa visione inserendo la linea serpentina ad S di cui parla Hogarth (1697- 1764) nel suo trattato "Analisi della bellezza", facendo assumere alla figura umana il movimento di torsione che faceva apparire come animate le figure. Quando ebbe finito il Giudizio Universale e la gente fu invitata ad ammirare il capolavoro, pare che la prima emozione che essa ebbe fu di paura e stupore insieme, dovuti al fatto che le figure dei demoni e dei dannati sembravano animate e si aveva l'impressione che si staccassero dal muro per quanto erano naturali. Anche i volti vengono rappresentati non solo di fronte di profilo o di tre quarti, ma anche nelle varie visioni dall'alto e dal basso in scorci arditissimi. Possiamo desumere da quanto detto che la pittura rinascimentale, contrariamente a ciò che si pensa, non è in contraddizione con la pittura bizantina, ma anzi la porta a compimento come la larva, che mutandosi in farfalla, non muta la sua natura. Tutto questo ci fa capire come sia inopportuno da parte di alcuni artisti prediligere forme più approssimative a forme più compiute. Questo è anche il caso di Marko Rupnik. Per comprendere la personalità dell'uomo Rupnik, è necessario analizzarne l'opera o meglio le brutte copie di mosaici bizantini. L'arte infatti svela e riflette perfettamente ciò che l'artista realmente è nel suo io più profondo. Per quanto abbiamo detto sopra, comprendiamo bene che nelle opere di Marko Rupnik vi è solo un'imitazione superficiale e puramente esteriore della pittura bizantina. Non basta usare la tecnica del mosaico con le sue belle tesserine dorate e inondare di luce gli sfondi, incorniciare di aureole a tutto spiano i volti delle figure rappresentate per ottenere qualcosa di spirituale, o disegnare in modo scorretto le prospettive degli ambienti ostentando una falsa ingenuità e purezza quasi infantili, per produrre qualcosa di simile all'iconografia bizantina. È necessario invece vivere una vita di preghiera, essere intrisi seriamente di una spiritualità, sottoporsi a penitenze di vario genere prima di mettere mano ai pennelli, cose che erano soliti fare i pittori bizantini. È necessario essere animati e mossi dallo Spirito Santo oltre che da una grande fede e dal desiderio vivo di comunicarla ai fratelli senza puntare su guadagni astronomici. E qui risuonano come un'eco lontana le parole di Cennino Cennini nel suo "Trattato della pittura" "...all’arte non si perviene con sete di guadagno, né per vanagloria..." Purtroppo, come spesso accade, la contraffazione diventa evidente in alcuni particolari: in un piede troppo grande ben piantato sul terreno, in una mano troppo carnale avezza più al possesso che alla preghiera, a volti tutti identici, stereotipati, quasi fatti con lo stampino, all'espressione di un volto imbambolato più che rapito in estasi mistica, ad occhi senza una scintilla di luce che pare contemplino le tenebre degli inferi anziché la luce sfolgorante del Tabor, ad un disegno troppo arrotondato, affrettato e superficiale che a volte sembra rasentare il fumetto. Qualcuno ha voluto paragonare Rupnik a Caravaggio (riguardo la vita sregolata), ma su questo punto è preferibile tacere https://instagram.com/giorgioesposito52?igshid=MzRlODBiNWFlZA==
  2. Sebbene da parte di molti teologi e liturgisti si richiami di frequente il celebre principio lex orandi-lex credendi, a ricordare che tra la fede e la preghiera, tra la dottrina e la liturgia che hanno prodotto la musica e l'arte sacre cristiane, vi sia un nesso indissolubile, assistiamo da decenni alla rottura e discontinuità tra essi. L'innovazione ha cancellato la tradizione, invece di mantenersi in equilibrio con essa, la riforma è diventata rivoluzione, in quanto non è stata condotta in base a criteri di scelta dell'antico. La Chiesa cattolica è a un bivio: o conservare innovando, cioè riproponendo mutatis mutandis, la tradizione delle immagini nel luogo di culto, o replicare malamente l'iconografia orientale oppure l'aniconicità protestante. Ad evitare tale rischio e riparare i guasti ove già consumati, urge la comprensione dell'unità sussistente tra simbolismo liturgico dei riti, loro interpretazione mistagogica e disposizione iconografica. Ne dipende la comprensione della verità cattolica. L'icona è la presenza divina, una finestra sul Mistero, dice l'Oriente slavo: serve per indicare all'uomo: qui c'è Dio. E se c'è Dio, cosa si fa: si deve coltivare il rapporto (colere) con lui: ecco il culto. Il card. Thomas Spidlik, uno dei noti teologi cattolici della spiritualità orientale, era contrario alle icone orientali nelle chiese occidentali, perché esse si possono comprendere perfettamente solo nella liturgia orientale; senza questa, le icone sono oggetti certamente belli, straordinari, ma, staccati dal contesto per il quale vengono creati, perdono il loro significato. Si capisce subito che da noi le icone sono estranee al contesto, ma inserite per esotismo. Certamente le icone non riempiono il vuoto creato dalla iconoclastia postconciliare e dalla confusione vigente nella liturgia, anzi, paradossalmente le aggravano; anche perché il popolo non le capisce e non le venera, e noi sappiamo che le icone esistono per essere venerate. Infatti una immagine sacra non è fatta per il gusto dell'artista, ma per la venerazione di colui che rappresenta: il Signore, la Vergine, i Santi. Simbolismo e raffigurazione non sono la stessa cosa, nell'arte come nella liturgia. Così si andarono definendo tre tipologie di immagini cristiane: simbolica, allusiva ai sacramenti e parabole; narrativa, di episodi biblici, evangelici o di santi; iconica, cioè immagini per il culto. Proprio su quest'ultimo tipo si aprì la discussione nell'VIII secolo, sfociato nell'iconoclasmo, con conseguenze drammatiche sulla tenuta della Chiesa d'Oriente; ma fu gradualmente confutato riaffermando il dogma dell'incarnazione, col concilio Niceno II(787), che tra i suoi principali attuatori ebbe san Giovanni Damasceno. Il padre Rupnik, non so se si sia posto il quesito: dai miei mosaici, il fedele è indotto a venerare i prototipi che rappresentano, o si ferma solo all'ammirazione estetica? Se poi dinanzi ad essi si svolge la liturgia, questa non diventa una "danza vuota intorno al vitello d'oro che siamo noi stessi"(J.Ratzinger)? Si pensi ai mosaici della cripta dove è esposto san Pio da Pietrelcina, che hanno portato ad etichettarla come "tomba di Tutankhamon". C'è un modo, invece, di fare arte sacra, che Dio stesso ha rivelato, che mantiene in unità il rito, l'arte e l'interpretazione della liturgia, per non scadere in "un imparaticcio di usi umani"(Is 29,13), cioè nell'idolatria. L'incarnazione del Verbo - non quella dell'artista - è la condizione senza la quale non ci può essere liturgia e nemmeno iconografia. Ecco delineato lo spirito della liturgia, non solo orientale, collegato al concetto di culto e di liturgia celeste e terrena, al mondo visibile come segno dell'invisibile. Ecco il mistero della presenza sacra nell'icona come, seppur ad altro livello, nell'Eucaristia. Così la presenza divina guarisce l'uomo e lo trasforma in santo, lo santifica. La teologia orientale sostiene la deificazione dell'uomo in Cristo. Se si prescinde da questo e dall'incarnazione del Verbo, la liturgia e l'iconografia scadono nella mitologia. Lo sviluppo in essa dell'allegoria, vuol rendere presente il mistero di Cristo, dal suo ingresso nel mondo al suo ritorno per giudicare il mondo. La liturgia è capace di velare e svelare, di celare e di far capire, perché non è possibile comprendere tutto nello stesso tempo; molte cose si capiranno solo successivamente, dice Gesù agli apostoli. La liturgia e le immagini servono a sentire il "Dio vicino", che è il cuore del cristianesimo, a differenza dell'ebraismo che lo attende ancora o dell'islamismo che lo considera irraggiungibile. Gesù è il Dio vicino, che entra nella vita dell'uomo. Quindi la liturgia e l'iconografia cristiana non possono essere mitologiche o tendenti all'astrazione. Si guardino gli occhi nelle figure di Rupnik: sono indefiniti come quelli dei personaggi disneyani; ciò condiziona le figure, facendo scadere la scena quasi a raffigurazione gnostica. L'iconofilia che ha preso i latini sa di patologia. Avendo abbandonato o addirittura distrutto la tradizione figurativa occidentale, si cerca di riempire il vuoto, prendendo le icone orientali e mettendole nel nostro contesto culturale: una de-culturazione. L'icona orientale nella liturgia romana è un pesce fuor d'acqua! Eccezion fatta per quelle icone arrivate a noi nel Medioevo quando la liturgia romana era più simile alla bizantina e che hanno avuto la fortuna di godere della venerazione dei fedeli. Si dirà che non favoriamo lo scambio tra l'oriente e l'occidente. Non è così: deve svilupparsi la conoscenza delle rispettive tradizioni, ma rimanendo nella loro differente ricchezza; proprio questo e non il bricolage favorisce lo scambio.
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