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SEM IPC

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Blog Entries di SEM IPC

  1. SEM IPC
    Riprendiamo una pungente ma quanto mai verace riflessione di Eusebio Episcopo, tratta da "Lo Spiffero", il quale mette in fila date, circostanze e nomi di chi oggi versa lacrime di coccodrillo.
     
    Nel 1998 alla conferenza che tenne al Regio era assente tutta la nomenclatura della Chiesa locale, quella che oggi è al potere. In seminario i suoi saggi erano semiclandestini. Lo stringato messaggio dell'arcivescovo Repole. 
     
    Benedetto XVI se ne è andato l’ultimo giorno dell’anno così come ha sempre vissuto, con il suo inconfondibile stile, fatto di umiltà, dolcezza e innata eleganza. Avremo modo di parlare a lungo di lui e del suo magistero che ne fanno un moderno Padre della Chiesa. Il suo pensiero può essere considerato l’ultimo grande tentativo di fare incontrare tradizione e modernità. Joseph Ratzinger è stato il teologo, il prefetto della fede e il papa che si è posto in piedi di fronte alla modernità e ai suoi miti. Oggi la Chiesa è tornata ad essere, come scrisse Jacques Maritain nel 1966, «in ginocchio di fronte al mondo». Da quella prostrazione – frutto non del Concilio dei Padri ma del concilio dei media – la trassero Giovanni Paolo II e Ratzinger non per sfidare il mondo ma per mostrargli semplicemente Gesù Cristo. E per capire quanto Ratzinger fosse avversato bisogna leggere le rabbiose reazioni seguite alla pubblicazione della dichiarazione Dominus Jesus o al motu proprio Summorum Pontificum o il continuo tentativo dei vescovi tedeschi di infangarlo. Perché i suoi veri nemici erano tutti interni alla Chiesa, numerosissimi e adesso al comando. Pensiamo alla mafia di S. Gallo che per anni tramò alle sue spalle fino a farlo dimettere – Vatileaks rispetto agli scandali odierni non è niente – o ai teologi più in vista (molti di loro sono vescovi), uno dei quali, Peter Hünermann, arrivò a fondare un istituto teologico per contrastare il suo pensiero. Oggi i più ipocriti lo piangono, i più sinceri dicono che era un personaggio “complesso e contradditorio” e nei prossimi giorni ne sentiremo di tutti i colori. Ma perché Benedetto era tanto osteggiato? Per capirlo basta rileggere, ma è solo un esempio fra i tanti, il magistrale discorso di Ratisbona, centrato sulla de-ellenizzazione del cristianesimo o la proposizione dei “principi non negoziabili” che i vescovi boicottarono in tutti i modi, così come avvenne per la liberalizzazione del rito antico che il suo successore ha abrogato.
    Nell’avversione a Ratzinger/Benedetto XVI, la Torino progressista fu in prima fila. E poiché lo Spiffero ha la pretesa di dire quello che gli altri non dicono, ricordiamo a chi adesso ne tesse le lodi solo alcuni episodi, ma se ne potrebbe raccogliere una antologia.
    Nel 1998 il cardinale Ratzinger venne a Torino, invitato dall’arcivescovo Giovanni Saldarini. Visitò e parlò ai seminaristi e la sera tenne una conferenza al teatro Regio ove, platealmente e fragorosamente, era assente tutta la notevole porzione della Chiesa locale progressista, quella che oggi è al potere. I seminaristi del tempo presero a leggere i suoi libri, ma clandestinamente in quanto il rettore – che per la verità ne capiva poco – era contrario. Addirittura, il testo di una conferenza sulla liturgia tenuta da Ratzinger presso l’abbazia di Fontgombault– che oggi è nell’Opera Omnia – fu tradotta e poi stampata a spese di un privato e letta e diffusa quasi di nascosto. Da ricordare che, all’epoca, padre Eugenio Costa S.J. affermava che Ratzinger era l’esponente di un «pensiero nazista» e un vescovo da lui nominato, ora emerito liturgista “grillino”, non risparmiava critiche a Summorum Pontificum scagliando la sua bolla di nomina in latino addosso ai fedeli che gli chiedevano di fare ciò che Benedetto ordinava di fare. Enzo Bianchi, che però oggi – come sembrerebbe – si è addolcito, non lesinava critiche su tutti fronti. Alla proposta di invitare Ratzinger a parlare alla facoltà teologica, l’arcivescovo Severino Poletto si oppose preferendogli il cardinal Walter Kasper. Quando nel 2010 Benedetto XVI venne in visita a Torino, l’ufficio liturgico si oppose al canone romano in latino per la Messa in piazza S. Carlo, per fortuna invano. Uno dei più autorevoli esponenti del “cerchio magico” di S. Lorenzo disse che con l’elezione di Francesco la Chiesa «si era liberata di un peso». Per capire il mainstream basta entrare nel santuario di S. Giuseppe di via Santa Teresa retto dai Padri Camilliani dove troverà, sulla sua sinistra, una nicchia in cui attorno al Volto della Sindone, sono esposte le icone del cattolicesimo progressista: Lutero, Giovanni XXIII, Bonhoeffer, Che Guevara, Kennedy, Martin Luther King, il cardinale Martini, i martiri del razzismo e nessuna vittima del comunismo salvo, un po’ nascosto, Florenskij. In simile pantheon Benedetto XVI non troverà mai posto e questo, per chi non si è arreso alla «dittatura del relativismo», non è l’ultima delle sue glorie. Stringatissimo e di circostanza, il messaggio dell’arcivescovo Roberto Repole in occasione della morte di Benedetto XVI e forse è meglio così.
    Nessuno più lo ricorda, ma Benedetto XVI nel 2008 fu oggetto di una delle pagine più vergognose dell’accademia italiana quando, dopo averlo invitato, gli fu impedito di parlare alla Sapienza, avendo l’università accettato il diktat di un gruppo di professori tra cui – sembra incredibile – il premio Nobel per la fisica 2021 Giorgio Parisi e con il plauso del paladino di ogni libertà, Eugenio Scalfari, il quale scrisse che, secondo amici gesuiti, Joseph Ratzinger era «un modesto teologo». Invitiamo tutti a rileggere l’intervento che il papa avrebbe dovuto pronunciare e che è un inno alla libertà di ricerca.
    Ma come vedeva sé stesso Joseph Ratzinger? Qual era la funzione e l’immagine del vero teologo e, più in generale, del cristiano oggi? Lo scrive egli stesso all’inizio del primo capitolo del suo capolavoro, Introduzione al Cristianesimo, pubblicato la prima volta nel 1969 riferendosi al noto apologo del clown e del villaggio in fiamme narrato da Kierkegaard dove si racconta di un circo viaggiante in Danimarca, colpito da un incendio. Il direttore mandò subito il clown, già abbigliato per la recita, a chiedere aiuto al villaggio vicino, oltretutto perché c’era il pericolo che il fuoco, propagandosi attraverso i campi da poco mietuti e quindi secchi, s’appiccasse al villaggio. Il clown corse affannato al villaggio, supplicando gli abitanti ad accorrere al circo per dare una mano a spegnere l’incendio. Ma essi presero le grida del pagliaccio unicamente per un astutissimo trucco del mestiere, tendente ad attirare il maggior numero possibile di persone alla rappresentazione; per cui lo applaudivano, ridendo sino alle lacrime. Il povero clownaveva voglia di piangere e tentava inutilmente di scongiurare gli uomini ad andare, spiegando loro che non si trattava affatto d’una finzione, d’un trucco, bensì di una amara realtà, giacché il circo stava bruciando per davvero. Il suo pianto non faceva altro che intensificare le risate: tutti trovarono che egli recitasse la sua parte in maniera stupenda… La commedia continuò così finché il fuoco s’appiccò realmente al villaggio e ogni aiuto giunse troppo tardi: villaggio e circo finirono entrambi distrutti dalle fiamme. Benedetto XVI può apparire come quel clown, paludato in quegli abiti tramandati dal passato, e nella Chiesa di oggi di lui è rimasto poco. Ma la storia è lunga e soprattutto la Provvidenza è grande e il suo pensiero porterà i frutti domani.
     
  2. SEM IPC
    RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO IL SEGUENTE 
    COMUNICATO STAMPA
     
    Da questa mattina, per 15 giorni, nei pressi del Vaticano resteranno affisse alcune decine di manifesti dedicati alla Liturgia tradizionale.
     
    Un comitato di promotori, che partecipano a titolo personale pur provenendo da diverse realtà cattoliche (come i blog Messainlatino e Campari & de Maistre, e le associazioni Coordinamento Nazionale del Summorum Pontificum e Ass. San Michele Arcangelo), ha voluto rendere pubblico il profondo attaccamento alla Messa tradizionale proprio quando ne sembra programmata l’estinzione: per amore del Papa, affinché sia paternamente aperto alla comprensione di quelle periferie liturgiche che da qualche mese non si sentono più ben accette nella Chiesa, perché trovano nella liturgia tradizionale la piena e compiuta espressione della fede cattolica tutta intera.
     
    «Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso» (Benedetto XVI). La crescente ostilità nei confronti della liturgia tradizionale non trova giustificazione né sul piano teologico, né su quello pastorale. Le comunità che celebrano secondo il Messale del 1962 non sono ribelli alla Chiesa; al contrario, benedette da una costante crescita di fedeli e di vocazioni sacerdotali, costituiscono un esempio di salda perseveranza nella fede e nell’unità cattoliche, in un mondo sempre più insensibile al Vangelo, e in un tessuto ecclesiale sempre più cedevole a pulsioni disgregatrici.
     
    Per questo, l’atteggiamento di rifiuto con cui i loro stessi pastori sono oggi costretti a trattarle, non è solo motivo di acerbo dolore, che questi fedeli si sforzano di offrire per la purificazione della Chiesa, ma costituisce anche una grave ingiustizia, davanti alla quale la carità stessa impone di non tacere: «un silenzio inopportuno lascia in una condizione falsa coloro che potevano evitarla» (S. Gregorio Magno).
    Nella Chiesa dei nostri giorni, in cui l’ascolto, l’accoglienza e l’inclusione ispirano ogni azione pastorale, e si vuol costruire la comunione ecclesiale “con metodo sinodale”, questo popolo di fedeli comuni, di giovani famiglie, di ferventi sacerdoti, ha la fiduciosa speranza che la sua voce non venga soffocata, ma accolta, ascoltata e tenuta nella giusta considerazione. Chi va alla “Messa in latino” non è un fedele di serie B, né un deviante da rieducare o una zavorra di cui liberarsi.

     
    Il Comitato promotore
    (Toni Brandi, Luigi Casalini, Federico Catani,
    Guillaume Luyt, Simone Ortolani, Marco Sgroi)
    prolibertatemissalis@gmail.com
  3. SEM IPC
    Ettore Gotti Tedeschi interviene circa il libro di Stefano Fontana "Ateismo cattolico?". Parte da un testo di Marcello Pera che legge S. Agostino e Kant, ritenendo che quest'ultimo volesse unire Ragione e Scrittura. Kant era un uomo religiosissimo ma non cattolico. Un utile stimolo alla riflessione.
    Mi riferisco all’articolo di Nicola Barile, con cui commenta il libro di S.Fontana, (non ancora letto : "Ateismo cattolico?"). Barile riprende  opportunamente una considerazione di Fontana su Kant (“l’esaltazione della religione  in Kant non è veramente tale essendo essa non altro che un nome diverso per una morale pienamente autonoma , una esigenza  o una condizione della morale . ”) lasciando  intendere ( se son riuscito a ben capire ), che questa affermazione avrebbe fatto inorridire Kant, che credeva in una morale oggettiva ,non in una morale  autoprodotta  dall’individuo . Appunto.
    Non entro nella valutazione per "incompetenza filosofica" e senza volere minimamente offrire una  mia alternativa di pensiero, ma, al fine di capire meglio e approfondire il rapporto tra Kant e cristianesimo,  propongo al lettore de Il Pensiero Cattolico , la lettura dell’ultimo  libro  scritto  dal  prof. Marcello Pera , filosofo  e amico ( già  Presidente del Senato, autore del libro “Senza Radici” , scritto nel 2005 con J.Ratzinger  e del libro “Perché dobbiamo dirci cristiani “ del 2008 , con prefazione di Papa Benedetto XVI    ) ,  che è parcheggiato nel “Cortile dei Gentili “ da qualche tempo  , aspettando di esser invitato ad entrare… ,ma  non trova più neppure il custode del  cosiddetto  Cortile. Cortile  che  forse è stato chiuso definitivamente da qualche anno …
    Marcello Pera  ha pubblicato nel settembre 2022 (con Morcelliana ) il saggio “Lo sguardo della Caduta . Agostino e la superbia del secolarismo”, dove affronta anche l’influenza di S.Agostino su Kant ( i commenti che seguono son frutto solo del mio tentativo di comprensione dello scritto di MarcelloPera). Ciò esplorando il rapporto che Kant aveva con il cristianesimo, che non pretendeva di correggere, bensì di presentarlo alla ragione, di spiegarlo e comunicarlo,  perché (secondo Kant) se il cristianesimo venisse  ricondotto nei limiti della ragione,  la fede cristiana potrebbe trovare la capacità di  esser universalmente condivisa in modo convincente. Kant  riconosceva che il cristianesimo era la miglior religione  e più adeguata, poiché la morale della -ragion pratica- è deontologica e si fonda sul dovere di essere santo, in un regime di libertà personale . Poiché per Agostino lo “Sguardo sulla Caduta “ è l’essenza del Cristianesimo, la strategia di Kant si direbbe esser stata quella di portare il peccato originale a esser inteso per mezzo della ragione , con aiuto della grazia . Kant intendeva razionalizzare il Cristianesimo, sinergizzandosi  con il progetto di Agostino di  cristianizzare la Ragione.
    L’intenzione di Kant appare essere quella di provare l’unità tra Ragione e Scrittura .
    Marcello Pera  ricorda al lettore che le diffidenze verso Kant son spesso state diffidenze anche verso Agostino . Kant  è troppo ottimista e confida troppo nella ragione , mentre  Agostino è troppo pessimista e confida “troppo” nella fede .  Ma Agostino vinse la battaglia fondando (grazie alla sua fede ) una dottrina e cultura cristiana (“ La Carta dell’Occidente “), Kant invece non riuscì nel suo progetto di unire Ragione e Scrittura .
    EttoreGottiTedeschi
  4. SEM IPC
    L’arte è sempre contemporanea, cioè è figlia del tempo nel quale vivono gli artisti che la producono. Ecco perché, se in questo momento ultimo del nostro mondo, da diversi decenni, Dio viene relegato ad un ruolo marginale o addirittura spesso dimenticato, l’arte sacra cristiana vive grandi difficoltà di inclusione. In questo vuoto che si è creato in Occidente l’arte bizantina, russa, ortodossa, che è sempre uguale a se stessa, fedele ai suoi rigorosi, riconoscibili, sacri canoni, immutabili per scelta, ha costituito un saldo punto di riferimento cui l’Occidente ha guardato perché li trovava un’ancora di certezza di trasmissione e condivisione dei valori di fede. Sono anni ormai che noto come le chiese siano spesso spoglie, dimentiche del saldo antico sodalizio tra arte fede e liturgia che la Chiesa centrale non ha saputo, nonostante inviti e discorsi con gli artisti, rivitalizzare e, se opere d’arte nuove vengono commissionate, si tratta per lo più di icone, la cui sacralità è indiscussa. Ma sappiamo bene che quelle icone sono espressione del mondo culturale e religioso cui appartengono col quale noi siamo, per sentito anelito ecumenico, in contatto, ma non appartengono alla nostra tradizione d’arte sacra che ha una storia lunga quanto il cristianesimo. E’ nell’arte paleocristiana che sono nati capolavori immortali i quali animavano e ancora animano la fede di chi entri in un luogo sacro e sente quei testi iconici perfettamente aderenti ai luoghi che essi stessi esaltano, celebrando la Verità. 
    Ci sono artisti contemporanei d’arte sacra che, fedeli alla tradizione occidentale, operano nella conoscenza dei simboli, della cultura cristiana, della fede, ma che sono spesso al di fuori dei circuiti di notorietà. Non è il caso di uno degli artisti presenti all’ultimo incontro in Vaticano promosso da Papa Francesco, Gian Maria Tosatti, il quale, alla domanda rivoltagli da un giornalista -Cosa vi aspettate ora voi, come artisti?- risponde:- C’è molta strada da fare. In questi decenni, se non secoli, di percorsi separati tra arte e Chiesa si è accumulata una distanza. – (Alessandro Beltrami su Avvenire.it, 23 giugno 2023).
    Ecco: è di questa distanza che voglio parlare, ma non solo. Sento l’urgenza da tempo di provare a trovare soluzioni per colmare questa distanza; ne hanno bisogno gli artisti di fede che non temono di auto-marginalizzarsi dal mondo dell’arte tout court dipingendo o scolpendo opere d’arte sacra cristiana ma ne ha bisogno soprattutto la Chiesa occidentale, per rimettere i tasselli di un puzzle scompigliato al posto giusto. Aggiungo che ne hanno bisogno anche i fedeli che molto spesso riferiscono di sentirsi ‘spaesati’ quando entrano in una chiesa moderna. 
    Forse è necessaria una rieducazione ai valori, alle regole e canoni espressivi basati sulla comunicazione attraverso il simbolo che consente di svelare l’invisibile nel visibile, proiettato verso la speranza (certezza) dell’oltre cristiano.
     Forse sono necessari Concorsi pubblici, Biennali, Triennali, dotati di giurie all’altezza di verificare il contenuto sacro autentico delle opere a concorso. Ricordiamo la Firenze del ‘400 in cui venivano banditi concorsi dalle varie Corporazioni di Arti e Mestieri attraverso i quali sono venuti alla luce e sono stati donati alla storia dell’uomo artisti del calibro di Donatello, Brunelleschi e potrei continuare in un lunghissimo elenco.  Dove sono oggi i ‘patrocinatori’ anche laici di allora che commissionavano arte sacra e di soggetto religioso?
    Forse c’è bisogno di valorizzare attraverso Mostre gli artisti d’arte sacra che hanno operato nella giusta direzione per educare a un discernimento necessario. Ricordo i saltuari e poco incidenti interventi del Vaticano alla più importante esposizione d’arte italiana, la Biennale di Venezia.
    Mi aspetto moltissimo dai dibattiti che possono animare il mondo culturale della relazione tra arte e Chiesa dalla mostra inaugurata a giugno del corrente anno nei Musei Vaticani: “Contemporanea 50. La collezione d’ Arte Moderna e Contemporanea dei Musei Vaticani 1973-2023”.
    Personalmente ritengo che il supporto e contributo culturale offerto mensilmente da una rivista come “I Luoghi dell’Infinito” e da alcuni blog in rete come  Il Pensiero Cattolico siano validi e importanti, anzi fondamentali.
    Ma ci vuole un programma operativo centrale che ridia luce all’UCAI e ristabilisca regole attraverso la Pontificia commissione d’Arte sacra. Un lavoro imponente che sia veicolato fino alle micro-realtà ecclesiastiche.
     
    Voglio parlare però anche, inserendomi in un dialogo sollevato da tre articoli letti recentemente  (dell'artista Giorgio Esposito e don Nicola Bux apparsi su Il Pensiero Cattolico,  e di Luisella Scrosati su La Nuova Bussola Quotidiana  )  del caso di un artista che si è introdotto in questa ‘distanza’, in questo iato vero e proprio, quasi generalizzato, conquistando commissioni su commissioni in luoghi molto significativi e cruciali della nostra fede, ma non solo, aiutato probabilmente dal suo essere un sacerdote, imitando esteriormente e apparentemente gli stilemi dell’arte orientale delle icone, forte di quella tendenza di scelte ecclesiastiche da me precedentemente esplicitata. Come è potuto accadere che nessuno si sia accorto e abbia contestato la banalizzazione del linguaggio espressivo delle icone, la loro effimera manipolazione prodotta nelle opere di Marko Ivan Rupnik?
    Vorrei proporre la mia analisi delle sue opere che non mi hanno mai convinta, essenzialmente, per gli sguardi privi di spiritualità dei suoi personaggi sacri. La sovrabbondanza, inoltre, di colori vivaci e di tessere dorate mi trasmetteva uno stordimento depistante, l’esatto contrario di quel che un’opera d’arte sacra deve comunicare. Quelle pupille nere che in tanti hanno negativamente commentato paragonandole a quelle dei personaggi dei cartoni animati, mi appaiono come il luogo del buio dell’anima, chiuso alla luce che Cristo ha affermato di essere. Non appartengono né alla tradizione artistica occidentale, né a quella orientale: sono una invenzione - negazione, di tutto.
    Come possono pupille nere, volti inespressivi che non mirano all’oltre, salvaguardare lo sguardo evocativo del sacro?
    Come può mai avvenire in queste opere una reciprocità dello sguardo, così come nelle icone, dove la prospettiva inversa fa affacciare il divino nello spazio-tempo dell’umano, dove si ha l’impressione che la scena venga verso lo spettatore quasi ad incontrarlo?  Qui sta il significato teologico della scelta degli iconografi. É Dio che ha l’iniziativa, è Lui che viene verso l’uomo per rivelarglisi. Il fondo oro delle icone riflette la sacralità dello spazio divino. Non a caso sono state definite le “finestre” da cui il divino si affaccia.
    Nelle opere di Rupnik la sovrabbondanza dell’oro, dappertutto, confonde, disorienta, invade.
    Nella grammatica compositiva dello spazio delle icone, completamente diversa da quella occidentale, gli accorgimenti che mirano al naturalismo della rappresentazione, cioè che costruiscono l’illusione di realtà, come l’uso della prospettiva di tradizione occidentale, del chiaroscuro, della tridimensionalità, dell’armonia delle parti, non fanno parte dell’iconografia orientale in quanto ritenuti contrari alla natura sacra dell’icona. Nelle opere di Rupnik c’è una adesione formale e superficiale allo spazio prospettico delle icone, una semplificazione all’occidentale, non sempre coerente all’interno della stessa scena, della prospettiva, della postura del corpo che non rispetta nel suo complesso i criteri espressivi dell’iconografia.
    Un’altra libertà assunta da Rupnik risiede nell’uso del colore degli abiti della Vergine Maria: in Occidente simbologia sacra vuole che il rosso sia il colore dell’umanità e l’azzurro della divinità, tanto è vero che Cristo ha la veste azzurra, in quanto Dio, e il manto rosso in quanto ha assunto natura umana; viceversa, la Vergine ha la veste rossa e il mantello azzurro a sottolineare la sua origine umana e il suo essere stata prescelta per la venuta al mondo di Gesù, il suo essere diventata divina. Nella tradizione orientale il mantello (maphorion)  di Maria è di color porpora cupo; il colore porpora, da sempre colore regale, ha in sé la sintesi di rosso e azzurro dunque indica la totalità, deriva infatti dall’unione di rosso e blu. Copre quasi completamente il corpo e il capo di Maria lasciando trasparire talvolta la veste sottostante celeste.
    Il maphorion ha tre stelle dipinte sul capo e sulle spalle di Maria che simboleggiano la Aeiparthenos, o perpetua verginità di Maria prima, durante e dopo il parto.
    Tengo a ricordare che l'icona è sotto la diretta giurisdizione della Chiesa che obbliga l'artista a non inventare secondo suo estro il suo personaggio. Questo controllo si esercita durante la benedizione richiesta per ogni icona nuovamente dipinta. 
    Allora mi chiedo a quale tradizione afferisca Rupnik nella sua rappresentazione degli abiti della Vergine Maria? Alla orientale o alla occidentale?
    Continuo a non trovare coerenza operativa nelle sue rappresentazioni che sembrano ritagliarsi una ‘creativa’ appartenenza alla tradizione iconografica orientale, con spunti di realismo occidentale, dimentico del tradizionale simbolismo cristiano, con uno sguardo al mondo cartoonistico spersonalizzante.
    Cosa ha a che fare tutto questo col sacro?
     
     
     
  5. SEM IPC
    Francesco, il giullare di Dio! L'appellativo ideato da Roberto Rossellini nel 1950 racchiude perfettamente le caratteristiche dell'animo di San Francesco: il servizio, innanzitutto. Come tutti i giullari, servi di un sovrano, lui sceglie un sovrano-Padre, il sommo tra i sovrani. Opera un servizio totalizzante e vive la sua fede per tutta l'esistenza. Ma ha il grande pregio dell'umiltà, di chi si sente sempre  servo inutile, cioè quel servo che sa che Dio non ha bisogno di lui, ma trova in Dio la propria pienezza e gode di tutto, ogni istante, perchè riceve il 'nulla' (1) di Dio e ne fa tesoro.  Dal momento della chiamata ribalta la sua esistenza, totalmente, si spoglia di tutto e comincia a vedere con il punto di vista di Dio. La felicità che sente dentro di sè  dopo questa scelta la trasmette ad altri, Chiara in primis, con una forza che smuove le montagne. Un giullare deve divertire il re e  lui impasta di gaiezza la sua santità, fino a ricevere le stimmate. E' una santità 'bambina', quella di Francesco, che non riconosce il linguaggio ieratico della Chiesa e scandalizza per la sua autenticità. Lo porta a parlare con tutti gli elementi del creato che considera tutti egualmente degni di rispetto perché sono creati da Dio. E allora sgorga come acqua di ruscello di montagna dal suo animo Il Cantico delle creature, oggi ancora uno dei testi poetici più toccanti, perché veri, che siano mai stati scritti. Bellezza e verità coincidono sempre, nell'arte sacra più che mai.  E allora voglio proporre quest'opera(2) del pittore barese Toni Bux (compianto fratello del nostro amato don Nicola ndr),(3) come emblematica della gaiezza del giullare di Dio, Francesco, dal nostro autore colta appieno ed espressa con epifanica maestria e modernità. Con la sua inconfondibile pennellata fluida, avvalorata dall'uso della tempera e dalle scelte cromatiche vivaci,  Bux qui mette in campo il soffio vitale di un anima, come quella di Francesco, in simbiosi con Dio e quindi col creato. E allora predilige la linea curva che da sempre rimanda al divino, all'unione, al cielo. Tutto è ricurvo: prato, cielo, edicola, foglio del frate che scrive, raggi del sole, luna, ali degli uccelli, postura del corpo, dita e piedi di Francesco con lo sguardo rivolto al cielo. Le braccia aperte in posizione dell'orante ma rivisitate in chiave mistico-visionaria, a tracciare la sagoma di un gabbiano in volo, leggiadro e leggero, perché è vuoto di mondo e pieno di Dio. Ha lo sguardo del cane di Goya (4), che tira fuori il capo dalla rena, e solleva il suo canto di speranza mirando l'infinito. Quanta leggerezza ci trasmette questo dipinto, proprio quella che sospinge Francesco in questa lirica  di lode. Con la speditezza del tratto dei  paesaggi  veneziani di Monet ma con la pennellata essenziale di Velazquez e la discrezione della sue figure Toni Bux si esprime attraverso un realismo che voglio definire trasfigurato. Trasfigurato perchè è oltre lo sguardo reale, approda già ad un oltre che è quello cristiano, quello di chi ha 'confidenza' con Dio e sa trasmettere una esperienza estetica che,  se si tratta di arte sacra, come in questo caso, è anche estatica.  (1) Nello Zibaldone Leopardi scrive:" Pare che solamente quello che non esiste, la negazione dell'essere, il niente, possa essere senza limiti e che l'infinito venga in sostanza ad essere lo stesso che il nulla" (2 Maggio 1826) (2) L'opera fa parte di una serie di 8 tutte su San Francesco  custodite nella Badia Benedettina a Settimo(FI) premiate e vincitrici  al concorso d'Arte sacra di Firenze del 1998. (3) Bari, 1936-2016. (4) Francisco de Goya y Lucientes,Il cane, olio su muro trasportato su tela,1819-23, Madrid, Museo del Prado.        
  6. SEM IPC
    In questo breve articolo vogliamo puntare l’attenzione su un punto problematico di una parte purtroppo non minoritaria dell’esegesi neotestamentaria contemporanea: l’interpretazione della storicità della Risurrezione di Cristo e il ruolo della comunità primitiva nell’elaborazione dei racconti della tomba vuota. La Risurrezione va intesa come un fatto storico vero e proprio oppure come una pura esperienza interiore degli apostoli? Se la seconda ipotesi fosse vera, si dovrebbe creare artificiosamente nell’insieme delle testimonianze pasquali del Nuovo Testamento una cesura ingiustificabile: quella tra storia e fede. Ma questa dicotomia non rivestiva nessun interesse per la prima generazione cristiana. 
     
     
                   Il programma esegetico del protestantesimo liberale  seguiva, nei confronti del Nuovo Testamento, un precetto che non poteva essere messo in discussione: considerare ogni professione di fede nella Risurrezione di Gesù Cristo e ogni racconto delle visioni del Risorto presenti nei Vangeli e negli Atti degli Apostoli -ma anche in alcuni testi paolini- come il risultato di una lunga e intricata elaborazione letteraria e teologica. La funzione di un tale lavorìo teologico sarebbe stata quella di costruire un racconto capace di restituire in termini narrativi la testimonianza di un’esperienza che non era strettamente storica, ma interiore e mistica. Il fatto che si trattasse di una interpretazione la cui logica rimaneva tutta interna alla testimonianza stessa rendeva impossibile -e in fondo sbagliato- cercare di ricostruire gli eventi storici soggiacenti a quei testi. I racconti pasquali non dovevano essere presi alla lettera. Il loro valore storico doveva considerarsi nullo. Ciò che contava era la loro interpretazione. Nel migliore dei casi, si ipotizzava che a questa elaborazione apostolica e subapostolica si accompagnasse una sostanziale buona fede; nel peggiore, si immaginava di aver a che fare con una dannosa sofisticazione dell’originaria esperienza cristiana. In ambedue i casi, tale elaborazione avrebbe avuto il suo punto di partenza in una intuizione “spirituale”, in un fenomeno puramente interiore. La fede degli apostoli, allo sguardo demistificatorio dell’esegeta, doveva perciò risultare indipendente dai racconti degli incontri sensibili col Risorto, come anche dai racconti della tomba vuota. Occorreva separare quella fede da qualunque concezione esplicitamente e crudamente “fisica” della Risurrezione di Cristo, e questo fin negli strati più arcaici della documentazione evangelica. Il modernismo cattolico (sia nella sua forma originale, tra fine ottocento e primi del novecento, sia nella sua incarnazione “progressista” postbellica) seguì il protestantesimo su questa strada.
     
                Una fede impossibile?
                   L’impostazione era essenzialmente ideologica, e rispondeva a un presupposto storico e filosofico preciso, cioè alla postulata impossibilità di credere a una Risurrezione (intesa come rianimazione) reale di Cristo nella cornice della Weltanschauung moderna. Il significato dei racconti evangelici veniva quindi ridotto secondo la misura di una mancanza di fede che doveva essere ormai assunta come un dato inconfutabile ed irreversibile. Gli strumenti di questo programma di lungo corso -che arriva coi suoi più recenti epigoni sino a noi- si sono avvicendati e sovrapposti: lo storicismo romantico con la sua fascinazione per lo spessore poetante e trasfigurante della tradizione biblica, il sociologismo con il suo corollario di eziologie contestuali, l’esistenzialismo con la sua smania di attualizzare l’appello alla conversione -il kérygma - saltando a pie’ pari la concretezza storica dell’evento evangelico. Parlando della Risurrezione come di un «mito», Rudolf Bultmann fu in fondo onesto riguardo al suo programma teologico, e rivelò al di là di ogni ragionevole dubbio quale è l’esito a cui esso conduceva.
                   Le cause prossime e quelle remote di un simile programma intellettuale (e pastorale: questa impostazione doveva tracimare immediatamente, con un entusiasmo degno di altre imprese, nella predicazione, la quale si imbottì in men che non si dica di richiami al «Sitz im Leben», alla «comunità primitiva pre e postpasquale» e alla «comprensione non mitica della Risurrezione») devono essere cercate nella inamovibile convinzione che sia assolutamente impossibile, all’uomo entzaubert (disincantato) dell’epoca tecnologica, credere ad eventi soprannaturali. Il rifiuto pregiudiziale del miracolo è la tara di questo atteggiamento spirituale. La Risurrezione del Signore è il più clamoroso tra i miracoli, e in quanto tale doveva essere espunta nella sua letteralità, per entrare in quel limbo fumoso e anfibio che è lo spazio interpretativo. A mediare tra l’evento storico concreto, la sua risonanza esperienziale nel mondo interiore degli apostoli e l’espressione linguistico-narrativa di quell’esperienza sarebbe rimasto solo il milieu esegetico di una modernità intellettualmente avara, che legifera tirannicamente sui confini della credibilità spostandone continuamente i paletti, ma senza rendersi mai conto fino in fondo della sua soffocante autoreferenzialità. All’interno di questo spazio cangiante può regnare solo il sospetto, che non a caso è stato coltivato come una virtù cardinale. Non parliamo in questo caso di quel sospetto metodologico che è parte insostituibile della dimensione critica della ricerca esegetica. Parliamo di un sospetto che si insedia nel campo in cui normalmente dovrebbero prosperare l’amore al testo, l’obbedienza alla verità e la serietà nei confronti della rivelazione; parliamo di una diffidenza pervicace e prevenuta verso qualunque affermazione soprannaturale, che smette di essere una precauzione metodologica per farsi -sotto la maschera austera dell’onestà intellettuale- postura teoretica e atteggiamento esistenziale .
     
     
                Due tipi di testimonianza?
                   Su di un piano strettamente metodologico, questo genere di esegesi comporta l’introduzione di una rottura, di una disomogeneità nella interpretazione delle testimonianze apostoliche. Avremmo così, secondo questa impostazione, due tipologie di racconti: quelli in cui si riferiscono fatti reali, storici, e quelli in cui si riferisce -sotto una veste narrativa che sarebbe in realtà una protointerpretazione teologica- l’esperienza propriamente indicibile del Gesù vivo nello Spirito. Che uno schema simile sia -come detto- di natura ideologica lo dimostra il fatto, molto chiaro, che non sia affatto questa l’intenzione dei testi neotestamentari. Prendiamo, a titolo di esempio, il discorso di Pietro a Cornelio riportato in At 10, in particolare ai vv.39-41. Gli apostoli sono testimoni tanto delle cose compiute da Gesù nella regione dei giudei e a Gerusalemme quanto della sua Risurrezione. Non c’è soluzione di continuità tra i due generi di testimonianza; non sono riferiti l’uno a fatti esteriori -sensibili- e l’altro ad un’esperienza interiore del Cristo vivente e glorioso, che poi debba essere tradotta nei termini immaginativi di una narrazione. Sono invece le due parti di una testimonianza omogenea, che si riferisce in tutti e due i casi a eventi storici. Non abbiamo a che fare con due esperienze eterogenee, che avrebbero come oggetto l’una il Gesù della storia e l’altra il Cristo della fede. Distinzioni di questo genere rispondono molto bene alla mentalità dell’esegeta moderno, ma di sicuro non si riscontrano nella natura specifica della testimonianza degli apostoli e nell’intenzione autentica dei testi in cui essa si è depositata (cf. At 4,20).
     
    Le apparizioni non sono dunque l’esplicitazione immaginativa di una qualche esperienza interiore con cui Cristo si sarebbe rivelato come vivente. Non è questo che intendono i nostri testimoni. Una simile affermazione sarebbe una pura invenzione a posteriori, che rifletterebbe la mentalità dell’esegeta, non quella degli apostoli e dei discepoli. [...] “Risuscitato” non può avere due sensi. O significa che il corpo del Cristo non è rimasto nella tomba, ma è stato vivificato dalla potenza di Dio ed ha così potuto essere visto e toccato, allo stesso modo di prima, dai testimoni, o non significa niente.
    (Jean Danielou, La Risurrezione, 1969)
     
    Intendere la Risurrezione di Cristo come la pura “interpretazione” di una “esperienza interiore”, prescindendo dalla sua natura di fatto concreto, rende di fatto impossibile comprendere o anche solo giustificare la predicazione apostolica così come ci è trasmessa in testi come quello di At 2,29-31, in cui il discorso sul corpo, sulla «carne» di Cristo, diventa il criterio di verifica della profezia. Di questo parlavano gli apostoli. Questo volevano testimoniare al mondo. Non è la fede della comunità primitiva in quella “esperienza interiore” ad aver generato i racconti evangelici come affabulazione e mitopoiesi; piuttosto, è la testimonianza delle apparizioni sensibili del Risorto offerta dagli apostoli di fronte alla comunità a costituire il senso di quei racconti. Racconti che la Chiesa ha sempre recepito come resoconti di eventi reali. La Risurrezione di Cristo non è il prodotto della fede: è la fede ad essere la conseguenza della Risurrezione.
  7. SEM IPC
    Notre tour viendra bientôt d’être rassemblés
    dans votre grange et dans votre aire,
    Quand la gloire de Dieu vivant éclatera
    comme un coup de tonnerre!
    (Paul Claudel, Processional, 1910)
     
    Qual è lo scopo della Risurrezione di Cristo? La domanda è meno banale di quanto non appaia ad un primo esame. Se consideriamo l’evento con cui Gesù Cristo sconfisse nella Sua carne mortale la morte stessa il più grande miracolo operato nella Historia Salutis, allora dobbiamo anche chiederci quanto sia lecito parlare di “comprensione” di questo miracolo e del suo scopo.
     
     
    Il miracolo della Risurrezione
    Due distinte considerazioni si impongono qui. La prima è legata alla natura dei miracoli in generale. In genere ci accostiamo ai gesti operati da Gesù nella sua vita terrena (guarigioni, risurrezioni, esorcismi e segni profetici) interpretandoli con la categoria del “miraculum”, vale a dire come fenomeni che destano “meraviglia” perché esulano da una spiegazione naturale. Definiamo implicitamente quei fatti con una negazione: tutto ciò che non è soggetto alle leggi naturali. Così risparmiamo tempo, ma complichiamo la nostra posizione dispettatori del fenomeno. Se non disponiamo di strumenti capaci di spiegare le azioni soprannaturali di Gesù, allora le accogliamo senza comprenderle fino in fondo. Ci fermiamo alla loro superficie (la “meraviglia”) ma ce ne sfugge il senso. E il senso è il loro scopo. Possiamo comprendere un atto di cui non cogliamo il fine? Più da lontano, possiamo contemplare il fine di un atto che si situa al di fuori delle logiche naturali? La nostra nozione di finalità, sviluppata tutta dentro il cerchio della comprensione naturale delle cose, può guidarci oltre il confine dal quale si entra nel regno del soprannaturale? Soprattutto, può evitarci una deformazione naturalistica dei gesti soprannaturali di Cristo per guidarci ad una loro comprensione autentica? La seconda considerazione attiene più in dettaglio a quel particolarissimo tipo di miracolo che è la Risurrezione di Cristo. Risorgendo da morte, e sconfiggendo dunque l’estremo nemico della condizione creaturale, Cristo è in certo qual modo uscito tanto dall’ambito naturale (ciò che è proprio della nozione di miracolo) quanto dal cerchio chiuso della storia. La Risurrezione di Cristo è esterna alla storia umana. Entra in essa come evento, ma solo per trasfigurarla. È storica, ma non viene dalla storia. Non si lascia inghiottire da essa, non le cede il suo segreto. La vivifica proprio perché introduce in essa un principio che quella non conosce. Concedere alle nostre facoltà intellettive di comprendere fino in fondo la Risurrezione come evento (cioè come fenomeno reale con un’origine e un fine) significa ammettere che dobbiamo contemplarne il posto nell’ordine delle cose. Dobbiamo vederne il fine, e dobbiamo farlo rispettando la sua natura divina. Dobbiamo lanciare il nostro sguardo dove gli sguardi umani non possono arrivare. Contemplare il fine (ossia l’intelligibilità) della Risurrezione, ma con il caveat di rispettarne il carattere divino. È questa una delle doti della fede: riconoscere che il significato non si estingue con la storia né si lascia soffocare nelle pieghe della natura, ma continua -trasfigurato e finalmente condotto a pienezza- nell’eternità.
     
     
    «Ognuno al suo posto»
    L’estesa riflessione che san Tommaso d’Aquino dedica alla pericope di 1Cor 15, 20-28 (Super I Epistolam B. Pauli ad Corinthios, XV, L.3, 926-950) può aiutarci a trovare una risposta a queste domande. In riferimento al versetto commentato nella lectio precedente, 1Cor 15,13:
     
    Se non c’è risurrezione dei morti, neanche Cristo è risorto.
     
    che san Tommaso ritiene essere una dimostrazione della Risurrezione di Cristo secondo il procedimento logico della negazione del condizionato (modus tollens: è falso che Cristo non sia risorto, perciò è falso che non ci sia risurrezione dei morti), ora il v. 20 ci introduce alla stessa verità affermata positivamente:
     
    Ora invece Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti.
     
    L’apostolo Paolo, riguardo a questa affermazione, sviluppa tre aspetti. Innanzitutto, mostra come la Risurrezione di Cristo sia collegata a quella degli altri. Poi mostra l’ordine in cui essa avviene («unusquisque autem in suo ordine»). Infine, mostra lo scopo ultimo della Risurrezione («deinde finis»). La relazione della Risurrezione di Cristo con quella di tutti gli altri è illustrata da san Paolo secondo una schemadi priorità ontologica e cronologica. Tutti risorgeranno. Ma la «primizia» che è Cristo precede «coloro che sono morti» («dormientium») secondo la successione temporale e secondo la dignità («tempore et melioritate, seu dignitate»): esiste una gerarchia dei risorti. Questa gerarchia è causa di speranza: se Cristo -la primizia di coloro che dormono in attesa della Risurrezione (cf Ap 1,5)- è risorto, allora anche gli altri risorgeranno dopo di Lui. San Paolo deve ora provare che la relazione tra la primizia e tutti gli altri passa attraverso la natura umana di Cristo. Per fare ciò, dimostra in generale che (v.21)
     
    se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti.
     
    Dio intendeva reintegrare la natura umana corrotta a causa dell’uomo stesso, perché a causa di Adamo la morte entrò nella creazione (v.22: «Come infatti tutti muoiono in Adamo»). Era dunque conveniente («pertinebat») alla dignità della natura umana che essa venisse restituita alla sua piena integrità da un uomo («reintegraretur per hominem»). La morte era stata causata da un uomo, e così doveva esserlo anche la sconfitta della morte. La prova particolare arriva subito dopo (v.22):
     
    Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita.
     
    Condannati in Adamo a subire la morte del nostro corpo, riceviamo in Cristo il dono della vita («vivificamur in Christo»), secondo il dettato di Rm 5,12. Tutti saranno reintegrati nella vita («vivificabuntur»), i buoni e i cattivi. Ma, come anticipato sopra, sussiste un ordine dei risorti (v.23):
     
    Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo.
     
    «Unusquisque autem in suo ordine»: è la gerarchia della Risurrezione. È vero, lo ripetiamo, che tutti in Cristo siamo vivificati. Ma non si può ignorare la duplice differenza che seziona l’insieme dei risorti: quella tra il capo e le membra non meno che quella i buoni e i malvagi. Questo taglio è per l’ordine (ossia per la relazione), non semplicemente per la separazione. Che cosa determina questo ordine? La dignità. La primizia, Cristo, precede i fratelli nella Risurrezione perché è il ricettacolo perfetto della Gloria del Padre. Da qui viene la Sua dignità preminente (cf Gv 1,14) di Figlio e capo del corpo dei risorti. Ma dopo di Lui (e a causa di Lui) vengono tutte le membra, che risorgono proprio perché appartengono a Lui («qui sunt Christi»). Costoro sono coloro che hanno vissuto la passione del loro Signore nel loro corpo, consegnandogli la loro vita nella fede e crocifiggendo il peccato nelle loro membra. Tra di essi, annota san Tommaso, non c’è ordine di tempo, perché la loro Risurrezione sarà istantanea («in ictu oculi»). Sussisterà invece un ordine derivante dalla dignità («quia martyr resurget ut martyr, apostolus ut apostolus...»).
    Veniamo dunque alla questione da cui abbiamo preso le mosse. Si può definire lo scopo della Risurrezione? San
    Tommaso ci introduce alla risposta: sì, e questo scopo è duplice. Il v.24 dichiara:
     
    Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo avere ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza.
     
    «Deinde finis»: l’intento dell’Apostolo è quello di mostrare che la Risurrezione trova il suo compimento non solo nel raggiungimento del bene supremo («adeptionem boni»), ma anche, correlativamente, nella eliminazione del male («remotionem mali»). Cristo, infatti, dovrà raccogliere in sé la signoria su tutte le cose (v.25: «oportet illum regnare»), senza eccezioni. Il bene supremo è il rimanere uniti a Dio («inhaerentia ad Deum»), che si realizzerà totalmente e immediatamente con la riduzione a nulla di tutte le potenze angeliche(«cum evacuaverit omnem principatum, et potestatem, et virtutem»). La fine e il fine di cui stiamo parlando, precisa san Tommaso, non sono accostabili a quello che si figurano nelle loro speranze escatologiche gli ebrei e i musulmani. Essi immaginano la vita eterna come un’esistenza finalizzata ai piaceri corporei. In realtà, la fede ci insegna che la vita eterna consisterà nella unione a Dio per visione immediata e godimento di Lui. I credenti («fideles») saranno consegnati da Cristo al Padre: questo è il Regno che Egli si è acquistato a prezzo del proprio sangue (Ap 5,9), e che mette nelle mani di Dio, il Padre. San Tommaso distingue i due nomi («cum tradiderit regnum Deo et Patri»): Cristo consegnerà il Regno a Dio (nel senso di Creatore) in quanto possessore di una natura umana, e al Padre in quanto detentore della natura divina. Non è la natura divina ad essere duplice. È la particolare identità di Cristo a rendere necessario per Lui porsi di fronte a Dio in due atteggiamenti diversi. Un tale sdoppiamento dell’azione redentiva di Cristo può forse apparire cervellotico, ma non è fine a se stesso. Con questa distinzione san Tommaso si riserva un dispositivo ermeneutico che gli permette di chiarire la questione del fine della Risurrezione, mettendola in prospettiva e spingendola oltre la sfera umana, fin nel cuore della vita divina. La logica del ragionamento diverrà più chiara alla fine.
     
     
    «Tutto in tutti»
    Nella seconda metà del v.24 san Paolo proclama l’annullamento del potere delle gerarchie angeliche (Principati, Potenze e Virtù). L’unione a Dio dovrà realizzarsi senza la mediazione angelica. Seguendo Gal 4,1, san Tommaso riporta lo stato presente dell’umanità a quello del bambino che necessita di un pedagogo. Nella condizione presente gli uomini sono sotto la tutela e la guida degli angeli. Ma una volta che il Regno sarà consegnato a Dio Padre, quella tutela sarà assolutamente superflua. Tutte le potenze angeliche cesseranno le loro funzioni, e tutta la realtà si ritroverà immediatamente sotto la sovranità di Dio. La fine delle mediazioni non significherà la fine delle gerarchie angeliche, ma solo la fine della loro attività efficace nei nostri confronti. Allora sarà noto e sperimentabile da tutti che tutto, compresi gli angeli, trae la propria esistenza e la propria potenza da Dio, principio di tutte le cose («ex quo sunt omnia»). Ridotte al nulla tutte le realtà, cioè rivelata la loro totale dipendenza da Dio, dovrà essere completata la sottomissione di tutte le forze che Gli sono ostili (v.25):
     
    È necessario infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi.
     
    La rimozione del male è il secondo lato del fine della Risurrezione. I nemici di Cristo verranno distrutti. Stanno già da ora sotto i piedi di Cristo, ma in due modi diversi: perché si sono convertiti a Lui oppure perché - nonostante la loro opposizione- Cristo compie comunque la Sua volontà. Perciò sono sconfitti, o in quanto conquistati da Lui, o in quanto puniti da Lui. Ciò che avverrà alla fine però si distacca qualitativamente dallo stato presente, poiché i nemici di Cristo staranno sotto i Suoi piedi nel senso che dovranno sottomettersi alla Sua umanità («sed in futuro ponet sub pedibus, id est sub humanitate Christi»). I reprobi saranno non solo sottomessi al capo (la divinità di Cristo), ma anche ai suoi piedi (la sua natura umana). La forma paolina «donec ponat» («finché abbia posto») significa che il Regno di Cristo crescerà gradualmente, manifestandosi in modo sempre più chiaro e indubitabile fino a che tutti i Suoi nemici non saranno stati sottomessi, cioè fino a quando ogni forza ostile a Cristo non avrà riconosciuto che Egli regna. Allora il Regno cesserà di crescere, perché avrà raggiunto la sua massima estensione manifestandosi in tutto e in tutti. La forza più ostile di tutte, la morte, sarà infine compresa in questo Regno (vv.26-27a):
     
    L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi.
     
    Ostile alla vita in quanto tale, la morte dovrà essere la «novissima inimica», perché il suo posto è la fine. Essa infatti non può coesistere con la vita, e a fortiori con la vita reintegrata da Cristo. La Risurrezione è la morte della morte (cf Os 13,14 nella versione della Vulgata: «Ero mors tua, o mors!»). La rimozione della morte potrà avvenire solo alla fine, secondo l’ordine con cui la totalità delle cose viene da Dio («ut servet ordinem, quia quae a Deo sunt, ordinata sunt»). Completata la sottomissione, tutte le cose rimangono sottomesse a Cristo. Ma sono sottomesse a Dio Padre nella misura in cui Cristo stesso è sottomesso al Padre. Dobbiamo forse leggere in ciò una subordinazione del Figlio al Padre (vv.27b-28)?
     
    Però, quando dice che ogni cosa è stata sottoposta, è chiaro che si deve eccettuare Colui che gli ha sottomesso ogni cosa. E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anch'egli, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti.
     
    All’umanità del Figlio il Padre ha sottomesso tutto («subiecit omnia Filio, inquantum est homo»); è quindi all’umanità del Figlio che il Padre si rivela superiore («et sic Pater est maior Filio»), e non alla divinità, giacché il Figlio è pari al Padre e opera col Padre, facendo tutto ciò che Egli fa. Di conseguenza, l’umanità di Cristo è tanto sottomessa al Padre quanto è sottomessa alla natura divina del Figlio, e precisamente perché tutto -senza esclusione- sia sottomesso a Dio, e così Dio sia «omnia in omnibus». Ecco che infine lo sdoppiamento della consegna del Regno al Padre prende tutto il suo senso. San Tommaso suppone infatti che, affermando che tutto sarà sottomesso a Cristo (v.28: «cum autem subiecta fuerint illi omnia»), l’Apostolo volesse indicare che non è nell’umanità di Cristo che deve essere cercato il fine ultimo della Risurrezione. La creatura razionale sarà condotta oltre, fino alla contemplazione beata di Dio. In essa infatti, e in nient’altro, è la felicità dell’uomo («in ea est beatitudo nostra»). L’itinerario che dalla natura umana, assunta dal Verbo, conduce fino alla reintegrazione della dignità primigenia nella sconfitta della morte e del peccato, introduce ultimamente -e trova il suo riposo- solo nella visione di Dio, unione perfetta. Questo è il vero scopo della Risurrezione: la riconduzione di ogni bene alla sua origine divina, perché solo in Dio sia riconosciuta e sperimentata eternamente la vita, la salvezza, la virtù, la Gloria, e ogni cosa. Perché solo Dio sia la nostra felicità («solus Deus sit beatitudo») e l’esistenza,
    spogliata di tutto ciò che non è Lui, corra incontro al suo destino, che è quello di riceversi in pienezza per l’eternità dal Suo Redentore.
  8. SEM IPC
    In punta di piedi e sommessamente, come colui che osa sussurrare qualche banalità mentre assiste alla discussione tra due giganti, mi intrometto nel dialogo tra Don Alberto Strumia ed il Prof. Gotti Tedeschi, ringraziandoli sin d’ora per le riflessioni che hanno condiviso. Don Alberto, in prima battuta, indica in modo chiaro la “radice del problema”, evitando che certe letture sociologiche, psicologiche o ecclesiologiche falliscano il bersaglio e non arrivino alla radice della questione. Primo auspicio: che tutti possano aver chiaro chi sia il nemico, come i medici che intendano combattere la malattia e non il sintomo. Trovo, personalmente, decisivo il richiamo nella citazione del Card. Biffi: “Gesù Cristo, per trionfare giustamente e ragionevolmente dell’Anticristo, ha bisogno della nostra collaborazione”. Secondo auspicio: che tutti sentano l’esigenza di collaborare alla battaglia. Il Prof. Gotti Tedeschi, raccogliendo la splendida indicazione, sospinge la riflessione sulla strategia della battaglia, ovvero sul come si possa offrire collaborazione e partecipare al trionfo di Cristo. Senza scordare che tutto ciò accade in tempi abbastanza apocalittici, per non dire escatologici e, secondo Don Alberto (che in parte risponde alla questione posta dal professore sulla direzione dell’operato della Chiesa), e accade quando "può dirsi ormai conclusa l’epoca dei movimenti con la morte dei loro fondatori”. In nulla volendo correggere, mi premono alcune considerazioni che contribuiscano, forse, ad integrare il quadro tracciato. Uno dei protagonisti della -usando la definizione di Don Alberto- “epoca dei movimenti”, ha affermato: “Non solo non ho mai inteso "fondare" niente, ma ritengo che il genio del movimento che ho visto nascere sia di avere sentito l'urgenza di proclamare la necessità di tornare agli aspetti elementari del cristianesimo, vale a dire la passione del fatto cristiano come tale nei suoi elementi originali, e basta”. Un altro fondatore, come sintesi di una immediata e chiara comprensione, intuisce “l’obbligo" di cercare la santità: “Avevo ventisei anni, grazia di Dio e buon umore. Null’altro. E dovevo fare l’opera”. Nella storia, come non ricordare il Crocifisso che si rivolge al giovane assisano: “Su di lui, veramente poverello e contrito di cuore, Dio posò il suo sguardo con grande accondiscendenza e bontà; non soltanto lo sollevò, mendico, dalla polvere della vita mondana, ma lo rese campione, guida e araldo della perfezione  evangelica e lo scelse come luce per i credenti…” (Leggenda maior). E prima di lui c’è chi, lasciando disgustato le dissolutezze romane, trascorse il suo tempo vivendo da eremita in una grotta in isolamento spirituale, generando una delle aggregazioni di cristiani più decisive per il nostro continente e per il mondo. Prima o dopo l’ultimo concilio, non credo esista, se non nel commento storico, “un’epoca dei movimenti” (…e cosa sia un movimento, quali formazioni rientrino della definizione, quali mantengano l’ortodossia, quali l’intuizione iniziale, quali l’afflato profetico… a posteri l’arduo giudizio). Esiste invece, dalla risurrezione di Cristo in poi, il tempo dei santi. Santi, ovvero pienamente uomini, che hanno involontariamente in comune, pur in epoche diverse, una strategia: un luogo preciso, una necessità precisa, alcuni volti precisi e una relazione al destino in Cristo. Nella storia del mondo e della Chiesa, il passo è segnato da Cristo attraverso i santi e i beati. Quando il buon Dio ne dona uno, in modo tanto imperscrutabile quanto imprevedibile, appare una luce per i credenti, che allora si aggregano, spiritualmente o fisicamente, intorno a quella grazia. Persino le questioni ecclesiologiche su movimenti, associazioni, opere… appaiono necessarie ma successive, per tempo e gerarchia. E poi fatico ad immaginare Benedetto nella grotta a chiedersi se il gregge debba essere piccolo o grande, o Francesco a La Verna ad arrovellarsi sul numero di possibili followers...  Questo anche perché, citando Von Balthasar, “Quale sia l’estensione della fecondità di un santo rimane, almeno sulla terra, un segreto di Dio“. Occorre, quindi, capire cosa ci aiuti nel cammino verso la santità (come riconoscimento attuale della presenza di Cristo), ovvero verso la nostra piena umanità. Ma non vorrei nascondermi dietro al generico richiamo alla santità. Oggi manca, nella stragrande maggioranza dell’umanità che incontro, la coscienza delle categorie fondamentali del pensiero cattolico. Parlo volutamente di coscienza: che lo si riconosca lucidamente oppure no, la natura della radice fondamentale di ogni uomo è sempre in ogni caso e in ogni epoca ordinata al medesimo logos, quindi sempre ordinata alla creazione e, pertanto, coerente con il pensiero cattolico. Ma la coscienza della natura del proprio cuore è, più meno gravemente, offuscata. E cosa forma rettamente la nostra coscienza? Dobbiamo ristudiare Caritas in Veritate, come propone il professore? O forse, ormai giunto il momento “ratzingeriano”, dobbiamo rifugiarci in piccole comunità come suggerisce Don Alberto? Mi permetto di citare Don Nicola Bux: prima dello studio (studium come zelo, passione, ricerca, lavoro) c’è un antefatto, l’amicizia. Si studia, innanzitutto, per una amicizia (la “teologia come amicizia”, nella riflessione di Don Nicola). Per una amicizia, anzitutto con Cristo, che poi è “il” soggetto che studiamo nei rivoli delle varie materie della vita. La piccola o grande comunità in cui cercar rifugio e studiare Caritas in veritate e non solo, è l’amicizia in e con Cristo (con le armi che Lui ci ha consegnato, a partire dai sacramenti). Collaborare con il Suo trionfo è, in primo luogo, gustare la Sua compagnia e la Sua amicizia, con la certezza che questa vince il “mondo, la carne e il maligno”. Lo si chieda al Card. Van Thuan, lo si chieda a padre Kolbe: il nemico non vince neppure quando sembra lo faccia. Sopporto l’idea di un nemico a cui dar battaglia (e del grande sacrificio che una battaglia richiede) solo nella certezza dell’amico, esattamente come uno scienziato inizia una lunga e faticosa opera di ricerca solamente nella convinzione, seppure remota, che esista l’oggetto del proprio cercare. Combatto perché Lui c’è e perché Lui è proprio Lui, quel bambino che tiene nel palmo della mano l’intero universo.  
  9. SEM IPC
    I “nostri vecchi” – tra i quali anche i nostri genitori, se erano come si diceva una volta
    persone “religiose”, che non perdevano mai una Messa alla domenica e magari neanche in
    giorno feriale – avevano una grande fiducia in quella che chiamavano “la Provvidenza”. E
    questa arrivava puntualmente, quasi cronometricamente, sempre al momento giusto, per
    aiutarli a risolvere una situazione delicata, materiale o di coscienza che fosse. Loro non
    avevano la pretesa di pilotarla; semplicemente si fidavano, perché sapevano che il Signore
    c’è e “provvede”; anche quando fa in modo diverso da quello che a noi sembrava dovesse
    fare. Alla fine si vedeva che aveva avuto ragione Lui. Non c’erano dubbi.
    La loro fede, come ogni fede cristiana seria, insegnava loro che non esistiamo solo noi “di
    qua”, come se il mondo fosse solo una faccenda di materia. O di energia cosmica (oggi fin
    troppo di moda), che è una “roba pagana”, che identifica Dio con il cosmo, mentre Dio è
    spirito trascendente, infinitamente superiore all’universo, che è opera della Sua creazione e
    gli è inferiore e sottoposto, non potendo neppure esistere se Dio non lo volesse e non lo
    “tenesse su”.
    Per i “nostri vecchi” era normale tenere sempre presente che noi, qui sulla terra, siamo
    “quattro gatti”, e la maggior parte dell’umanità è quella che vive “al di là”, ed è stata “di qua”
    solo negli anni, nei secoli passati della storia. E poi si ricordavano sempre, in ogni momento,
    e non solo qualche volta (magari quando pregavano), ma sempre che ci sono gli Angeli, che
    per ognuno di noi c’è l’Angelo Custode che ti sta vicino sempre, senza distrarsi, per
    proteggerti. Capita anche a noi di essere acciuffati per i capelli e risparmiati da un incidente
    che stava per succederci, o di venir fuori da una malattia seria che poteva portarci via. O di
    essere stati guidati, diciamo pure illuminati, a prendere la decisione giusta al momento giusto.
    Magari non ci pensiamo e non ce ne accorgiamo e tutto ci sembra essere avvenuto per caso o
    per un ignoto “meccanismo”. Loro, invece, i “nostri vecchi” sapevano bene che dietro tutto
    c’è “la Provvidenza”; e ne ringraziavano il Signore. E poi con gli esseri umani che sono “di
    là” e con gli Angeli, ci sono Dio, Padre, Figlio (Gesù Cristo, il Verbo fatto carne) e lo Spirito
    Santo, e la Madonna, la Madre di Gesù Cristo, la Madre di Dio. Per loro era normale avere
    presente che la “realtà” comprende tutti questi – che ci sono per davvero e ci fanno
    compagnia anche quando siamo soli in casa – e non c’è appena quello che vediamo,
    tocchiamo, ascoltiamo, mangiamo, respiriamo, in quei pochi anni della nostra esistenza
    terrena.
    Quello che c’è qui non è che la punta dell’iceberg; il “grosso” è “di là” ed è su quello che
    occorre imparare a contare.
    Per cui non sarà poi così tragico se un giorno ci andremo anche noi: basta essere ben
    consapevoli e preparati, per non perdere “il treno giusto” che ci porta alla beatitudine eterna.
    Se qui ragioni e vivi come se Dio non ci fosse, dopo un po’ finisci per stare male, perché ti
    manca il Fondamento di tutto, il senso delle cose; e se non te ne accorgi per tempo sarà così
    per l’eternità e ti mangerai per sempre le mani per avere voluto prendere la strada delle sole
    apparenze. Per te sarà per sempre come se Dio non ci fosse, perché saprai che c’è, ma non
    l’hai voluto e hai diritto, anzi l’obbligo, di continuare a non averlo… ma è l’Inferno!
    Allora i “nostri vecchi” avevano ragione e conviene imparare a ragionare e a vivere con la
    stessa visione delle cose che hanno avuto loro, che è più cristiana e più umana. Provare per
    credere!
  10. SEM IPC
    Per un cattolico la fede è il compimento della razionalità e la ragione è il terreno naturale sul quale poggiare le basi della fede. Il cap.IV dell'Enciclica Fides et ratio, promulgata da Giovanni Paolo II nel 1998, non senza l'apporto dell'allora card.Joseph Ratzinger, viene proposto al nostro approfondimento dal reverendo professor Alberto Strumia.  Nella ricorrenza di san Tommaso d'Aquino, dottore della Chiesa (28 gennaio), costituisce una lettura davvero magistrale della storia del rapporto fede/ragione nei secoli della cultura cristiana – che un cattolico non deve ignorare, se non vuole finire per ripetere i luoghi comuni del pensiero dominante – indicando un “metodo” utile anche per il nostro presente “lavoro culturale”. 
     
    L’enciclica Fides et Ratio di san Giovanni Paolo II – frutto della stretta sintonia di pensiero e di operatività tra san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, recentemente transitato al Cielo – è tra i documenti ecclesiali più censurati e meno conosciuti. Mentre essa offre nel suo quarto capitolo una lettura davvero magistrale della storia del rapporto fede/ragione nei secoli della cultura cristiana – che un cattolico non deve ignorare, se non vuole finire per ripetere i luoghi comuni del pensiero dominante – indicando un “metodo” utile anche per il nostro presente “lavoro culturale”. Per un cattolico la fede è il compimento della razionalità e la ragione è il terreno naturale sul quale poggiare le basi della fede (credo ut intelligam, intelligo ut credam). Ogni contrapposizione è ingannevole: «Voi attaccaste la ragione. Questa è cattiva teologia», rispose il P. Brown di Chesterton al falso prete, il ladro Flambeau, smascherandolo.
    L’enciclica, in quel capitolo, focalizza le tappe fondamentali della storia dell’incontro di fede e ragione.
    – Nella prima parte del capitolo, si indicano i passaggi che sono stati maturati in vista della costituzione dello spazio teorico che ha reso pensabile il cristianesimo, fino all’elaborazione di una disciplina teologica sistematica.
    – Nella seconda parte si individuano le tappe del processo inverso che ha visto la progressiva separazione tra fede e ragione, fino alla disgregazione della stessa razionalità filosofica.
    Questa lettura di un percorso storico ha la funzione
    – di documentare un metodo di elaborazione culturale (nella prima parte) e
    – di indicare i punti nodali problematici che oggi vanno sbloccati (nella seconda parte)
    sia per l’utilità della fede, che per il recupero di una pienezza della razionalità come tale.
    *  *  *
    I) Prima parte - Il cammino comune di fede e ragione
    a) La liberazione della religione dal mito e la sua fondazione filosofica
    Innanzitutto l’enciclica evidenzia come nel corso della storia del pensiero, prima ancora della rivelazione cristiana, sia stato necessario compiere un passo preliminare, fondamentale per costruire la stessa razionalità dimostrativa: si tratta del passaggio dal mito alla filosofia.
    «Uno degli sforzi maggiori che i filosofi del pensiero classico operarono, infatti, fu quello di purificare la concezione che gli uomini avevano di Dio da forme mitologiche. Come sappiamo, anche la religione greca, non diversamente da gran parte delle religioni cosmiche, era politeista, giungendo fino a divinizzare cose e fenomeni della natura. Fu compito dei padri della filosofia far emergere il legame tra la ragione e la religione. Allargando lo sguardo verso i principi universali, essi non si accontentarono più dei miti antichi, ma vollero giungere a dare fondamento razionale alla loro credenza nella divinità. Si intraprese, così, una strada che, uscendo dalle tradizioni antiche particolari, si immetteva in uno sviluppo che corrispondeva alle esigenze della ragione universale. Il fine verso cui tale sviluppo tendeva era la consapevolezza critica di ciò in cui si credeva. La prima a trarre vantaggio da simile cammino fu la concezione della divinità. Le superstizioni vennero riconosciute come tali e la religione fu, almeno in parte, purificata mediante l’analisi razionale. Fu su questa base che i Padri della Chiesa avviarono un dialogo fecondo con i filosofi antichi, aprendo la strada all’annuncio e alla comprensione del Dio di Gesù Cristo» (n. 36).
    b) La costruzione dello spazio teorico per pensare il cristianesimo
    Giunti alle origini del cristianesimo la fede ha cercato di fondare la sua credibilità teoretica innanzitutto utilizzando gli strumenti della logica dimostrativa e della filosofia.
    Il primo lavoro da compiere, per garantire credibilità alla fede, riguardava la necessità di dimostrare la non contraddittorietà logica del contenuto della Rivelazione, la sua non irrazionalità e, anzi, la sua piena razionalità. E questo è stato uno dei compiti fondamentali degli Apologisti a partire dal secondo secolo cristiano. Il contenuto della Rivelazione può oltrepassare – e di fatto in alcuni dei suoi contenuti oltrepassa – le capacità della ragione di raggiungerlo da sola, ma non può essere accusato di essere contro le regole della logica e quindi ridicolizzato e screditato.
    Un secondo compito, più durevole nel tempo e impegnativo, ha richiesto il lungo lavoro di rielaborazione delle stesse categorie filosofiche per ampliarne la capacità di contenere, fino a poter accogliere, senza eccessive limitazioni, la ricchezza concettuale della Rivelazione che andava oltre ciò che il filosofo da solo poteva elaborare.
    «Nella storia di questo sviluppo è possibile, comunque, verificare l’assunzione critica del pensiero filosofico da parte dei pensatori cristiani. Tra i primi esempi che si possono incontrare, quello di Origene è certamente significativo. Contro gli attacchi che venivano mossi dal filosofo Celso, Origene assume la filosofia platonica per argomentare e rispondergli. Riferendosi a non pochi elementi del pensiero platonico, egli inizia a elaborare una prima forma di teologia cristiana. Il nome stesso, infatti, insieme con l’idea di teologia come discorso razionale su Dio, fino a quel momento era ancora legato alla sua origine greca. Nella filosofia aristotelica, ad esempio, il nome designava la parte più nobile e il vero apogeo del discorso filosofico. Alla luce della Rivelazione cristiana, invece, ciò che in precedenza indicava una generica dottrina sulle divinità venne ad assumere un significato del tutto nuovo, in quanto definiva la riflessione che il credente compiva per esprimere la vera dottrina su Dio. Questo nuovo pensiero cristiano che si andava sviluppando si avvaleva della filosofia, ma nello stesso tempo tendeva a distinguersi nettamente da essa. La storia mostra come lo stesso pensiero platonico assunto in teologia abbia subito profonde trasformazioni, in particolare per quanto riguarda concetti quali l’immortalità dell’anima, la divinizzazione dell’uomo e l’origine del male» (n. 39).
    Tutto questo lavoro ha significato la creazione dello spazio teorico per rendere pensabile il cristianesimo nel quadro storico-culturale del tempo. E quindi vivibile, a pieno titolo, nella società di allora. Basti pensare alla straordinaria opera di messa a punto di un linguaggio adatto ad esprimere i contenuti teologici e filosofici della Rivelazione, formulati prima nella lingua greca, poi ripensati e tradotti in quella latina. L’esempio più formidabile di ampliamento di significato è offerto, quasi sicuramente, da una parola come persona, che dal significato pagano originario di maschera teatrale è giunto ad indicare la persona umana, come ancora oggi la intendiamo, e addirittura le persone divine nella Trinità.
    c) I Padri della Chiesa e il confronto tra la filosofia greca e la visione contenuta nella Rivelazione
    Un passo ulteriore fu quello di non limitarsi solamente a mostrare la non contraddittorietà dei contenuti della Rivelazione (primo passo), né di accontentarsi di creare uno spazio teorico per la pensabilità di quei contenuti (secondo passo), ma di mostrare addirittura la superiorità della concezione cristiana della realtà (mondo, uomo, Dio) rispetto alle filosofie, riconoscendo nel contempo quelli che erano gli elementi comuni. Il cristianesimo viene concepito, oltre che come avvenimento storico dell’Incarnazione e della Redenzione, anche come portatore della vera filosofia.
    «Proprio qui si inserisce la novità operata dai Padri. Essi accolsero in pieno la ragione aperta all’assoluto e in essa innestarono la ricchezza proveniente dalla Rivelazione. L’incontro non fu solo a livello di culture, delle quali l’una succube forse del fascino dell’altra. […]
    Oltrepassando il fine stesso verso cui inconsapevolmente tendeva in forza della sua natura, la ragione poté raggiungere il sommo bene e la somma verità nella persona del Verbo incarnato. Dinanzi alle filosofie, i Padri non ebbero tuttavia timore di riconoscere tanto gli elementi comuni quanto le diversità che esse presentavano rispetto alla Rivelazione. La coscienza delle convergenze non offuscava in loro il riconoscimento delle differenze» (n. 41).
    Con sant’Agostino, nel quarto secolo cristiano, questa opera di elaborazione e sistematizzazione teologica, fondata sulla rielaborazione della tradizione platonica, raggiunge un vertice che sarà un punto di riferimento per i teologi successivi.
    d) La Scolastica e la teologia come scienza
    «Con la Scolastica, e in particolare con sant’Alberto Magno e specialmente con san Tommaso, viene addirittura compiuta la fondazione e la messa a punto di una teologia come scienza, dimostrativa e totalmente sistematica, basata sulla rielaborazione della filosofia aristotelica, ma non senza includere alcuni elementi importanti della tradizione platonica (soprattutto quelli provenienti dallo Pseudo-Dionigi e la dottrina della partecipazione).
    Più radicalmente, Tommaso riconosce che la natura, oggetto proprio della filosofia, può contribuire alla comprensione della rivelazione divina. La fede, dunque, non teme la ragione, ma la ricerca e in essa confida. Come la grazia suppone la natura e la porta a compimento, così la fede suppone e perfeziona la ragione. Quest’ultima, illuminata dalla fede, viene liberata dalle fragilità e dai limiti derivanti dalla disobbedienza del peccato e trova la forza necessaria per elevarsi alla conoscenza del mistero di Dio Uno e Trino. Pur sottolineando con forza il carattere soprannaturale della fede, il Dottore Angelico non ha dimenticato il valore della sua ragionevolezza; ha saputo, anzi, scendere in profondità e precisare il senso di tale ragionevolezza. La fede, infatti, è in qualche modo esercizio del pensiero; la ragione dell’uomo non si annulla né si avvilisce dando l’assenso ai contenuti di fede; questi sono in ogni caso raggiunti con scelta libera e consapevole» (n. 43).
    La chiave di volta, dal punto di vista logico-metafisico, di tutto l’impianto sistematico di Tommaso sta nella dottrina dell’analogia-partecipazione che permette alla ragione di compiere due grandi passi:
    i) innanzitutto quello di riconoscere modi e gradi di perfezione differenziati nella realtà (ente), nella sua conoscibilità (vero), nel suo essere desiderabile e amabile (bene), nell’organicità del suo essere un tutto (uno);
    ii) e insieme quello di elevarsi dall’esperienza dei gradi materiali e sensibili dell’essere alla conoscenza, pur limitata, ma vera, dei livelli superiori non immediatamente e adeguatamente conoscibili, ma neppure del tutto inaccessibili.
    E sembrano proprio questi i nodi verso i quali le scienze più avanzate paiono oggi, pur se ancora timidamente, aspirare nella loro ricerca di fondamenti.
    (segue)
  11. SEM IPC
    Proseguiamo qui la sintetica presentazione del tracciato del IV capitolo dell’Enciclica Fides et Ratio, frutto del lavoro, svolto in piena sintonia, di san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.
    II) Seconda parte - La progressiva separazione e contrapposizione tra fede e ragione
    A partire proprio dal tredicesimo secolo, dagli stessi contemporanei di san Tommaso, si comincerà a comprendere sempre meno la lezione dell’analogia dell’ente e del vero e, in nome di un maggior grado di certezza della conoscenza, ci si concentrerà sempre di più sull’univocità, più facile da comprendere, più agevole da controllare. Questo modo di procedere apparirà addirittura, ad alcuni, come un servizio alla verità, anziché una limitazione, un miglioramento della scienza anziché un suo impoverimento qualitativo.
    a) Univocità e nominalismo: il ruolo esclusivo della matematica
    Ma si tratterà di un potenziamento unilaterale di qualche aspetto della razionalità, soprattutto di quella matematica, a scapito degli altri.
    La ricaduta sulla teologia, della perdita dell’analogia, si farà sentire prima nell’univocità del pensiero protestante, poi nell’esasperazione quasi sofistica di certa tarda Scolastica e infine nella riduzione della stessa teologia a pura narrazione.
    «Con il sorgere delle prime università, la teologia veniva a confrontarsi più direttamente con altre forme della ricerca e del sapere scientifico. Sant’Alberto Magno e san Tommaso, pur mantenendo un legame organico tra la teologia e la filosofia, furono i primi a riconoscere la necessaria autonomia di cui la filosofia e le scienze avevano bisogno, per applicarsi efficacemente ai rispettivi campi di ricerca. A partire dal tardo Medio Evo, tuttavia, la legittima distinzione tra i due saperi si trasformò progressivamente in una nefasta separazione. A seguito di un eccessivo spirito razionalista, presente in alcuni pensatori, si radicalizzarono le posizioni, giungendo di fatto a una filosofia separata e assolutamente autonoma nei confronti dei contenuti della fede. Tra le altre conseguenze di tale separazione vi fu anche quella di una diffidenza sempre più forte nei confronti della stessa ragione. Alcuni iniziarono a professare una sfiducia generale, scettica e agnostica, o per riservare più spazio alla fede o per screditarne ogni possibile riferimento razionale.
    Insomma, ciò che il pensiero patristico e medievale aveva concepito e attuato come unità profonda, generatrice di una conoscenza capace di arrivare alle forme più alte della speculazione, venne di fatto distrutto dai sistemi che sposarono la causa di una conoscenza razionale separata dalla fede e alternativa ad essa» (n. 45).
    Gradualmente quegli aspetti della razionalità, che prima era concepita analogicamente, verranno a contrapporsi anziché integrarsi: ciò che prima era riconosciuto come, in certa misura, reale (l’universale) sarà considerato un puro nome (nominalismo). Il sapere passerà, un po’ alla volta, da una struttura organica e analogica ad una struttura univoca e dialettica: contrapposizione in luogo della integrazione dei diversi gradi di perfezione.
    b) Il pensiero moderno e contemporaneo
    L’enciclica continua, poi, la sua lettura della storia del pensiero occidentale riferendosi, allo sviluppo del pensiero filosofico e scientifico moderno e contemporaneo fino ai nostri giorni.
    «Le radicalizzazioni più influenti sono note e ben visibili, soprattutto nella storia dell’Occidente. Non è esagerato affermare che buona parte del pensiero filosofico moderno si è sviluppato allontanandosi progressivamente dalla Rivelazione cristiana, fino a raggiungere contrapposizioni esplicite. Nel secolo scorso, questo movimento ha toccato il suo apogeo. Alcuni rappresentanti dell’idealismo hanno cercato in diversi modi di trasformare la fede e i suoi contenuti, perfino il mistero della morte e risurrezione di Gesù Cristo, in strutture dialettiche razionalmente concepibili. A questo pensiero si sono opposte diverse forme di umanesimo ateo, elaborate filosoficamente, che hanno prospettato la fede come dannosa e alienante per lo sviluppo della piena razionalità. Non hanno avuto timore di presentarsi come nuove religioni formando la base di progetti che, sul piano politico e sociale, sono sfociati in sistemi totalitari traumatici per l’umanità.
    Nell’ambito della ricerca scientifica si è venuta imponendo una mentalità positivista che non soltanto si è allontanata da ogni riferimento alla visione cristiana del mondo, ma ha anche, e soprattutto, lasciato cadere ogni richiamo alla visione metafisica e morale. La conseguenza di ciò è che certi scienziati, privi di ogni riferimento etico, rischiano di non avere più al centro del loro interesse la persona e la globalità della sua vita. Di più: alcuni di essi, consapevoli delle potenzialità insite nel progresso tecnologico, sembrano cedere, oltre che alla logica del mercato, alla tentazione di un potere demiurgico sulla natura e sullo stesso essere umano» (n. 46)
    A questo punto, ormai, il processo ha invertito del tutto il suo senso di marcia. Si cerca:
    i) da un lato di estrapolare alcune categorie teologiche cristiane svincolandole dalla Rivelazione (considerata come un supporto mitologico surrettizio) e trapiantandole in sistemi filosofici sostanzialmente non più cristiani;
    ii) dall’altro di rimuovere anche i fondamenti puramente filosofici che sono serviti all’elaborazione di una teologia come scienza.
    Ma una simile operazione non poteva non finire per demolire anche gli elementi indispensabili alla ragione filosofica come tale. Così quest’ultima si è gradualmente trovata senza un fondamento su cui basarsi per poter procedere.
    «Come conseguenza della crisi del razionalismo ha preso corpo, infine, il nichilismo. Quale filosofia del nulla, esso riesce ad esercitare un suo fascino sui nostri contemporanei. I suoi seguaci teorizzano la ricerca come fine a se stessa, senza speranza né possibilità alcuna di raggiungere la meta della verità. Nell’interpretazione nichilista, l’esistenza è solo un’opportunità per sensazioni ed esperienze in cui l’effimero ha il primato. Il nichilismo è all’origine di quella diffusa mentalità secondo cui non si deve assumere più nessun impegno definitivo, perché tutto è fugace e provvisorio» (n. 46).
    E ancora:
    «Non è da dimenticare, d’altra parte, che nella cultura moderna è venuto a cambiare il ruolo stesso della filosofia. Da saggezza e sapere universale, essa si è ridotta progressivamente a una delle tante province del sapere umano; per alcuni aspetti, anzi, è stata limitata a un ruolo del tutto marginale. Altre forme di razionalità si sono nel frattempo affermate con sempre maggior rilievo, ponendo in evidenza la marginalità del sapere filosofico. Invece che verso la contemplazione della verità e la ricerca del fine ultimo e del senso della vita, queste forme di razionalità sono orientate – o almeno orientabili – come ragione strumentale al servizio di fini utilitaristici, di fruizione o di potere» (n. 47).
    Ai nostri giorni sembra essere ormai completa la parabola discendente, descritta nella seconda parte e si apre, come si è rilevato in precedenza, il problema di una rimessa a punto delle basi della razionalità, resasi urgente sia dal punto di vista esterno (problema delle conseguenze sulla vivibilità della società) che da quello interno (problema dei fondamenti della razionalità). È questo il quadro in cui oggi si viene a collocare il “problema dei fondamenti”: ciò che, a prima vista potrebbe apparire solo una questione per gli specialisti della filosofia delle scienze, si rivela essere, in realtà quello ben più profondo dei fondamenti metafisici della stessa razionalità della realtà e della conoscenza, e la condizione stessa della vivibilità della esistenza personale e sociale dell’essere umano.
    la prima parte disponibile qui
  12. SEM IPC
    Il metodo che possiamo imparare da san Giovanni Paolo II, per convincere a fare il suo stesso percorso anche l’uomo di oggi – che ha distrutto la stessa nozione di verità frammentandola in tante opinioni – è quello di procedere come in una dimostrazione matematica per assurdo. Ti faccio vedere che la negazione della “tesi” cristiana-cattolica porta alle contraddizioni che tu stesso puoi constatare nella realtà della società di oggi. Se la società e la tua vita sono divenute invivibili, la causa non è forse nell’aver rifiutato il cristianesimo e con esso la stessa nozione di “verità oggettiva”?
    Diagnosi. Hai distrutto la Verità, pur di liberarti della fede in Cristo: tocca con mano le conseguenze. La vita è divenuta invivibile, la società, prima viene resa disumana (i regimi), poi anarchica e ingovernabile (fallimento delle democrazie senza una cultura della verità  comune a tutto il popolo). Chiediti perché! Le cause, non sono solo materiali, strutturali, economiche, sociali (analisi marxista), o solo psicologiche (psicologia, psicanalisi), o giuridico-legali (legalismo, giustizialismo). Scava dentro l’uomo lasciandoti guidare dalla Rivelazione. Questo ti dice l’autentico pensiero della Chiesa!
    Terapia. E se avessimo gettato il Bambino con l’acqua sporca, eliminando il cristianesimo e con esso la verità? Se la negazione di Cristo e della verità è stata fallimentare non ha forse senso pensare che sia giusto, al contrario, tornare a prendere in seria considerazione Cristo e la verità? Questa è stata la sfida al mondo lanciata da san Giovanni Paolo II e proseguita da Benedetto XVI. Il mondo l’ha rifiutata, e oggi ne paga le conseguenze! Se la Chiesa non ricomincia a lanciare questa sfida che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno lanciato, finisce per perdere tempo e basta!
    per l'approfondimento: 
     
  13. SEM IPC
    Nel celebre discorso tenuto a Colonia il 15 novembre 1980, rivolto a scienziati e studenti, in occasione del settimo anniversario della morte di sant’Alberto Magno, presentando la sua visione della scienza (“epistemologia”), san Giovanni Paolo II, prospettò due strade alternative per il cammino delle nostre scienze.
    – L’una senza riferimento ad una verità oggettiva e metafisica, vedeva la scienza inevitabilmente schiava del potere che finanzia le ricerche e indirizza le sue applicazioni tecnologiche e la divulgazione mediatica.
    – L’altra che vede la scienza “libera”, orientata alla ricerca di una “teoria dei fondamenti”, condotta con il suo linguaggio e i suoi metodi logico-matematici e osservativo/sperimentali («Una scienza libera è asservita unicamente alla verità non si lascia ridurre al modello del funzionalismo o ad altro del genere, che limiti l’ambito conoscitivo della razionalità scientifica», n. 5).
    Questa seconda pista aveva come prospettiva – più o meno consapevole nella mente degli scienziati – la scoperta (o la riscoperta) di verità fondamentali non convenzionali, ma oggettive («proposizioni così fatte devono esistere, altrimenti non esisterebbero nemmeno i teoremi ipotetici», Gödel 1951). La metafisica, così poteva/doveva essere trovata/ritrovata per una esigenza interna, come necessaria “teoria dei fondamenti” delle scienze.
    Queste due vie, però, non rappresentano due alternative equivalenti, che possono essere scelte a piacimento da ciascuno scienziato, a partire dalle sue previe opzioni ideologiche, politiche, religiose, come ancora molti si illudono di poter ritenere. Se il potere del mondo riesce ad imporsi anche per lunghi periodi di tempo, ricattando, di fatto, i ricercatori, sia dal punto di vista economico finanziando solo studi orientati ideologicamente, sia condizionando il loro modo di pensare l’essere umano, la società e la scienza stessa, rimane pur sempre il dato di fatto inevitabile che i risultati sia teorici (i teoremi) che pratici (gli esperimenti) impongono alla logica e all’osservazione, qualcosa di non aggirabile per una mente intelligente abituata a ragionare e ad interpretare i fatti con razionalità.
    Nell’enciclica Fides et ratio, e non solo, Giovanni Paolo II riprende la necessità di indagare sui fondamenti logici e ontologici della scienza  («Una grande sfida che ci aspetta al termine di questo millennio è quella di saper compiere il passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno al fondamento», n. 83). Questa è una necessità per una ricerca scientifica che non voglia finire per bloccarsi, esaurendosi in una sempre più presuntamente “onnipotente” tecnologia, manipolatrice dell’uomo e alla fine, nemica dell’uomo. Oggi l’estremo tentativo di manipolazione dell’uomo lo si vede, ormai, nell’inizio di una sua robotizzazione condizionante. Se non si riesce a produrre un uomo artificiale, con un’intelligenza artificiale che sia veramente intelligente, allora si cerca di assorbire l’uomo “naturale” rendendolo sempre più bionico e elettronicamente integrato e controllabile centralmente  da remoto (come i Borg della famosa serie Star Trek).
    L’esigenza di una “teoria dei fondamenti” emerse già nella matematica della fine del XIX secolo (Hilbert, Cantor) e l’inizio del XX, dall’interno delle teorie scientifiche stesse e non come una sovrapposizione filosofica e teologica ad esse estranea. E il risultato fu che il linguaggio scientifico (logico-matematico) può dire “più cose vere” di quelle che è capace di dimostrare al suo interno (Teoremi di Gödel, 1931). Il fondamento non poteva essere parte della teoria stessa, ma doveva essere di natura diversa da essa, in certo modo trascendendola (è, in fondo, un primo accenno alla riscoperta dell’analogia dell’ente di tomistica memoria, che Russell (1903/1910) chiamò opportunamente ambiguità sistematica).
    Nasceva così l’esigenza di ampliare qualitativamente la scienza, prima da una teoria dei numeri e delle relazioni/funzioni ad una teoria degli insiemi di oggetti, e poi ad una “teoria degli enti” di natura qualunque (ontologia formale). Si veniva così ad aprire la strada verso una riscoperta della metafisica con metodi logici e scientifici.
    Del resto anche la metafisica antica nacque dalla crisi della matematica dei Pitagorici (“crisi degli irrazionali”), imponendo di ampliare l’orizzonte della razionalità verso principi fondamentali della realtà di natura non numerica, quali furono la “materia” e la “forma” aristotelica. Curiosamente, ma non troppo, ai nostri giorni, la “teoria dell’informazione”, sopratutto in ambito biologico e cognitivo sembra avvicinarsi proprio alla nozione di “forma” aristotelica. Oggi ci sono ancora due scuole di pensiero che dibattono su quale principio debba essere primario: per alcuni è la materia e l’informazione emergerebbe da quest’ultima più o meno spontaneamente; altri ritengono che l’informazione debba precedere la materia come principio capace di strutturarla e organizzarla. Non siamo ancora arrivati a concepire la possibilità di una  qualche “forma/informazione” capace di sussistere anche indipendentemente dalla materia (“spirito”) in quanto in grado di compiere attività che sono indipendenti da quest’ultima (quali la formazioni degli universali e la coscienza), come sosteneva san Tommaso d’Aquino, ma la via scientifica verso questo risultato è più aperta oggi che in passato. Occorrerà onestà intellettuale e scientifica per poterci arrivare.
    Ai nostri giorni abbiamo un’ampia e quotidiana documentazione di come la scienza possa essere appetibile presso i poteri del mondo (finanziari, economici, politici, mediatici, globali, massonici, ecc.) per giustificare e rendere plausibili, con la paura, con i vantaggi che può offrire, con le tecniche di manipolazione del consenso, ecc., operazioni di potere che ricattano immobilizzandola la libertà delle persone, fino a sospendere la democrazia, distorcere fino alla distruzione la famiglia e un vivere civile libero che sia degno di questo nome. Ma questa strada è un’operazione di potere che non nasce da esigenze proprie della ricerca scientifica, ma solo dai deliri di potere e onnipotenza di uomini, che possono sedurre anche gli scienziati, quando non si comportano da veri scienziati, lasciandosi dominare da un’ambizione narcisistica. Solo l’assistenza divina, insieme alla sana ragione, potrà illuminare le loro menti e i loro cuori verso una lucida onestà intellettuale e una giusta condotta, degna di veri scienziati.
    (per approfondire; articolo La percezione dei fondamenti nel pensiero logico e matematico; libro: A. Strumia, L’uomo e la scienza nel Magistero di Giovanni Paolo II, Pemme 1987, Amazon 2019)
  14. SEM IPC
    Questo intervento è strettamente collegato al mio precedente su “Il pensiero cattolico”  (Il metodo di san Giovanni Paolo II) essendone come un approfondimento.
    Nelle analisi di vario genere, condotte secondo il taglio proprio dei diversi ambiti (socio-politico, economico, psicologico, ecc.) inevitabilmente – o talvolta anche volutamente – ci si ferma quasi sempre e solo ad una lettura “orizzontale” dei fatti, quando, invece, una “lettura” più profonda delle “cause” dei problemi dell’umanità che popola il mondo di oggi, diciamo pure una “lettura teologica”, aiuterebbe a capire le radici “serie” dei problemi. Credo che la chiave di lettura della nostra attuale epoca storica si debba trovare nella lapidaria affermazione di Benedetto XVI, emersa in una conversazione privata con Francesco e da lui riportata (ai Vescovi polacchi, Cracovia, 27 luglio 2016), che così suona: «Questa è l’epoca del peccato contro Dio Creatore!». In questa frase si sintetizza tutta l’attualità della dottrina del peccato originale che troviamo in san Tommaso d’Aquino che definisce nella sua essenza – non fermandosi al problema del genere letterario dei due soli passi biblici che ne parlano esplicitamente (Gen 3 e Rm i5,12-14) – il peccato originale come «mancanza della giustizia originale (carentia originalis iustitiae)» (De malo, q. 4 a. 2co). L’umanità dei nostri tempi, più che in ogni altra epoca ha infranto, perduto, rifiutato il “modo giusto” di impostare il rapporto tra se stessa e Dio Creatore. In un primo momento rifiutando la stessa esistenza di Dio (ateismo positivo), poi ignorandolo (ateismo pratico, agnosticismo, indifferentismo: Dio se c’è non c’entra con la vita reale degli esseri umani), infine mettendo l’uomo al posto di Dio (idolatria antropocentrica), fino al punto di “addomesticarlo” costruendo caricature di Dio e di Gesù Cristo da usare a proprio piacimento, fino a capovolgerne gli insegnamenti e la dottrina tradizionalmente custodita dalla Chiesa. Così la “giustizia” senza il “modo adeguato” di rapporto con Dio Creatore è diventata, prima, esclusivamente una questione sociale di semplice ripartizione dei beni materiali (socialismo, marxismo), poi un legalismo gestito a scopi politici (giustizialismo), infine un “comandamento” (imperativo categorico) mondiale al quale tutti devono attenersi per avere diritto di esistere socialmente (pensiero unico, culto pagano dell’ambiente, della natura, ecc.). Curiosamente l’uomo, liberatosi di Dio, del “giusto rapporto” con Dio Creatore, del “peccato originale”, oggi si colpevolizza da se stesso con una sorta di sostituto pagano del peccato originale, sentendosi nemico della natura, degli animali, delle piante, dell’ambiente e del pianeta, del cosmo intero. Obbligandosi in tal modo ad auto-eliminarsi limitando le nascite (contraccezione, aborto), accelerando le morti (eutanasia), moltiplicando le guerre, apparentemente locali, ma di portata planetaria. La radice profonda di tutto quanto accade è rinvenibile in un “modo non giusto” (“peccato”) nel rapporto tra l’uomo-umanità e Dio Creatore che segna i singoli esseri umani e l’umanità nella sua totalità. Questa comprensione “culturale” del peccato originale rimuove ogni visione ingenua e favolistica dalla nostra immaginazione e aiuta a riconoscere nei Comandamenti, nella Legge Naturale, il complesso delle leggi universali stabilite dal Creatore affinché gli esseri umani sappiano governare bene se stessi. Essi sono dati come “leggi di natura” così come lo sono le leggi del mondo fisico e biologico. Non rispettarle, rifiutarle, manipolarle o addirittura capovolgerle disumanizza la vita degli esseri umani, singolarmente e comunitariamente. Questo dato di fatto la Chiesa ha il dovere di spiegarlo a tutti, credenti e non credenti, non essendo una questione solo di fede, ma prima di tutto un dato di ragione, un dato che non temerei di definire “scientifico”. Come la legge di gravità governa il moto dei corpi celesti, così i Comandamenti sono le leggi date per regolare la vita degli uomini. Non rispettarli equivale a danneggiarsi con le proprie mani. Siamo liberi di farlo, a differenza dei corpi celesti che non sono liberi di opporsi alla legge di gravità, ma se lo facciamo finiamo per auto-distruggerci. Gli avvenimenti che accadono nel nostro mondo ogni giorno ne sono la documentazione più schiacciante. La Rivelazione, che in Cristo trova la sua pienezza e il suo compimento, aiuta a comprendere quanto tutto questo sia vero e offre all’essere umano la via di riparazione della “giustizia originale” compromessa e perduta. Se gli uomini non arriveranno a comprenderlo in tempo, toccherà a Dio stesso condurli non solo con l’evidenza degli avvenimenti negativi che essi si infliggeranno, ma con una manifestazione positiva diretta della Sua azione provvidenziale sulla creazione. Solo Cristo con la Sua Passione, Morte e Risurrezione è stato in grado di riaprire agli esseri umani l’accesso alla “giustizia originale”, già in questa vita con il Battesimo e la vita cristiana, e in pienezza nella vita eterna. Se la Chiesa non ricomincia a lanciare questa sfida che Benedetto XVI ha lanciato, finirà per continuare a perdere tempo e basta!
    fonte:  http://www.albertostrumia.it/rapporto con Dio Creatore
  15. SEM IPC
    Nelle analisi condotte nei diversi ambiti (socio-politico, economico, psicologico, ecc.) inevitabilmente ci si
    ferma ad una lettura “orizzontale” dei fatti, ma una “lettura” più profonda delle “cause”, aiuterebbe a capire la
    radice dei problemi. Una chiave di lettura “seria” della nostra epoca si trova in un’affermazione di
    Benedetto XVI (riportata da Francesco ai Vescovi polacchi) : questa è l’epoca del peccato contro Dio
    Creatore!». Essa sintetizza l’attualità della dottrina del peccato originale di san Tommaso d’Aquino che
    definisce il peccato originale come «mancanza della giustizia originale (carentia originalis iustitiae)» (De malo,
    q. 4 a. 2co). L’umanità, soprattutto nei nostri tempi, ha rifiutato il “modo giusto” di impostare il rapporto con
    Dio Creatore. Inizialmente rifiutando l’esistenza di Dio (ateismo positivo), poi ignorandolo (ateismo pratico,
    agnosticismo, indifferentismo: “Dio se c’è non c’entra con la vita reale”), infine mettendo l’uomo al posto di
    Dio (idolatria antropocentrica), fino al punto di “addomesticarlo” costruendo caricature di Dio e di Cristo da
    usare a proprio piacimento, capovolgendo gli insegnamenti e la dottrina della Chiesa. La “giustizia” senza il
    “modo adeguato” di rapporto con Dio Creatore è diventata, prima, esclusivamente una questione “sociale”
    (socialismo, marxismo), poi “legale” a scopi politici (giustizialismo), infine un “comandamento” mondiale al
    quale attenersi per avere diritto di cittadinanza (pensiero unico, culto pagano dell’ambiente, ecc.). L’uomo,
    liberatosi del “giusto rapporto” con Dio Creatore, si auto-colpevolizza con una caricatura pagana del peccato
    originale, sentendosi nemico della natura, degli animali, dell’ambiente, del pianeta. Obbligandosi in tal modo ad
    auto-eliminarsi limitando le nascite (contraccezione, aborto), accelerando le morti (eutanasia), moltiplicando le
    guerre. La radice profonda di tutto quanto accade è rinvenibile in un “modo non giusto” nel rapporto tra l’uomo
    e Dio Creatore che segna i singoli come l’umanità intera, rendendo invivibile il mondo. Questa comprensione
    “culturale” rimuove ogni idea favolistica del peccato originale e aiuta a riconoscere nei Comandamenti (Legge
    Naturale) il complesso delle regole universali stabilite dal Creatore affinché gli esseri umani sappiano governare
    bene se stessi. Sono “leggi di natura” come le leggi del mondo fisico. Capovolgerle disumanizza la vita degli
    esseri umani, singolarmente e comunitariamente. Questo dato di fatto la Chiesa ha il dovere di spiegarlo a tutti,
    non essendo una questione solo di fede, ma prima di tutto un dato che non temerei di definire “scientifico”. Pena
    il danneggiarsi con le proprie mani. Solo Cristo con la Sua Passione, Morte e Risurrezione è stato in grado di
    riaprire agli esseri umani l’accesso alla “giustizia originale”, già in questa vita con il Battesimo e la vita
    cristiana, e in pienezza nella vita eterna.
    Per approfondire
     
     
  16. SEM IPC
    Oggi è frequente, tra coloro – e non sono molti, pur non essendo neppure pochissimi – che si rendono conto della gravità situazione sia ecclesiale-ecclesiastica  (sbandamento dottrinale e morale, contrapposizioni tra i cosiddetti “progressisti” e i cosiddetti “tradizionalisti”, divisioni tra i laici e tra gli ecclesiastici, scandali di ogni genere, posizioni eretiche/ereticheggianti, scismatiche/scismaticizzanti, e forme varie di apostasia vera e propria, ecc.), che socio-politica… è frequente e urgente cercare di intervenire per correre ai ripari. Per farlo si vedono all’opera diversi modi di procedere che, alla prova dei fatti – pur potendo essere in sé, almeno in certi casi, anche parzialmente buoni, e animati da ottime intenzioni – risultano insufficienti, ultimamente inadeguati, non abbastanza “realistici”:
     
    – o perché non tengono conto della “totalità dei fattori” in gioco (per usare un espressione che era cara a don Giussani);
     
    – o perché sono “velleitari”, per l’illusione di poter realizzare in un solo colpo progetti grandiosi con forze insufficienti, in quanto solo troppo umane. Il rischio, in questo caso, è quello di un involontario “delirio di onnipotenza”, che finisce per essere il rovescio della medaglia di quello degli attuali “padroni del mondo”.  Sarebbe sempre meglio procedere gradualmente nella realizzazione di ciò che si è progettato!
     
    1. Di certo è inadeguato il limitarsi a cercare di “tamponare le falle”, come sul piano socio-politico tentano di fare i governi, pure quelli “più saggi”, e non conniventi con le ideologie del mondo. Non bastano, anche se sono necessari, gli interventi “dall’esterno” della coscienza dell’essere umano (le leggi, le strutture, i provvedimenti giudiziari, ecc.).
     
    2. Peggio ancora sono i tentativi di entrare mediaticamente (tv, social, articoli, spot pubblicitari, ecc.) nelle coscienze, manipolandole, per convincerle della bontà delle ideologie che dominano il mondo (“pensiero unico”) solo per interessi di potere ed economico-finanziari, di alcuni su tutti gli altri; e non per il bene comune. Si finisce in guerra e nell’autodistruzione, come vediamo accadere proprio in questi ultimi anni.
     
    3. Tutto questo modo di procedere è proprio di un “orizzontalismo” troppo mondano e “umano” per essere risolutivo.
    Domanda: la battaglia finale si gioca solo a livello umano, o c’è qualcosa d’altro in ballo?
     
    4. Internamente alla Chiesa si può rischiare di riprodurre, anche involontariamente, lo stesso “modello” di giudizio e di comportamento che vediamo al di fuori di essa.
     
    – i più convinti “tradizionalisti” tendono a vedere tutto il male a partire dal Concilio Vaticano II e tutto il rimedio nel riportare l’orologio e il calendario a prima del Concilio. Cosa per altro praticamente irrealizzabile e non corrispondente alla realtà.
     
    – i più convinti “progressisti” vorrebbero il totale adeguamento dell’insegnamento della Chiesa alle ideologie del mondo (ambientalismo/naturalismo fino al panteismo, pauperismo/migrantismo incontrollato, sovvertimento di tutte le discipline morali, ecc.).
     
    – Altri tentano la via intermedia tra le due posizioni: salviamo la Tradizione, senza rifiutare in blocco il buono, che riconosciamo nel Concilio, alla luce della “continuità” (in linea con Benedetto XVI). Una strada che si presenta come la più ragionevole, purché non si faccia conto solo delle nostre forze umane, ma si tenga conto che la battaglia non è solo tra uomini e dottrine umane. Non siamo al livello di chi, come già al tempo di san Paolo, si schierava dicendo: «“Io sono di Paolo”, “Io invece sono di Apollo”, “E io di Cefa”, “E io di Cristo!”» (1Cor 1,12). E oggi, potremmo dire: “Io sono di Francesco”, o “Io di Pio XII”, “Io di nessuno di loro” e “Io passo con gli Ortodossi”, ecc.
     
    5. Contro chi è la battaglia? È solo un’alternativa tra quella che un tempo si era definita come “la scelta religiosa” (oggi si parla di “ritorno nelle catacombe”, di “opzione Benedetto”, ecc.) e il “combattimento pubblico ad oltranza”, per ricostruire una “cristianità in grande”, imbarcandosi in grandi progetti di costruzioni che per ora rimangono a lungo solo sulla carta?
    Abbiamo a che fare con un avversario di natura umana, o di un’altra natura superiore?
     
    6. Mi hanno molto colpito, già da diversi anni, i “giudizi” sul nostro tempo espressi in diverse occasioni, da alcuni grandi uomini di fede e pastori, che considero come “maestri di vita cristiana”, e che ho avuto la grazia di avere vicini, fino a che erano con noi su questa terra, e ora ci vedono e penso ci proteggano dal Cielo.
     
    6.1. Uno di loro è stato il card. Carlo Caffarra.
     
    – In un’intervista rilasciata a Tempi  ebbe a dire: «Una legge che impedirà di dire che i maschi sono maschi e le femmine femmine è la fine della civiltà, della adaequatio rei et intellectus (corrispondenza tra realtà e intelletto), della Verità. Dopo questo, basta, potremo dire tutto: tutto sarà vero e falso insieme, perché se io posso dire che mi sento maschio, dunque sono maschio, vale tutto» (Tempi, 14-07-2020).
     
    È l’istantanea del relativismo odierno, della situazione attuale. Ma questa è ancora solo la presa d’atto degli “effetti” dell’azione di un nemico (come disse Gesù a proposito della zizzania: «Un nemico ha fatto questo», Mt 13,28). E chi è questo nemico?
     
    – In un’altra intervista (del 2017) riferendosi alla lettera con la quale gli rispose suor Lucia di Fatima, Caffarra andò direttamente dall’“effetto” alla “causa”.
     
    E non si fermò al livello delle “cause prossime”, come fanno oggi anche i migliori psicologi, sociologi, politologi, non essendo in grado di spingersi più in profondità, perché abituati a ragionare e vivere “come se Dio non esistesse”, e non esistesse neppure il suo primo oppositore (!). Ma andò fino alla radice del problema.
     
    Disse: «Qualche anno fa ho cominciato a pensare, dopo quasi trent’anni: “Le parole di Suor Lucia si stanno adempiendo”. […] Satana sta costruendo un’anti-creazione. […] Satana sta tentando di minacciare e distruggere i due pilastri [la “vita” e la “famiglia”], in modo da poter forgiare un’altra creazione. Come se stesse provocando il Signore, dicendo a Lui: “Farò un’altra creazione, e l’uomo e la donna diranno: qui ci piace molto di più”» (intervista al sito aleteia.org in occasione del quarto incontro del Roma life Forum il 19 maggio 2017).
     
    La battaglia, secondo Caffarra, è dunque, prima di tutto, contro Satana che è, per natura un angelo e quindi è superiore a noi, più potente di noi. Le nostre sole forze umane e i nostri progetti, per quanto belli e grandiosi, non sono sufficienti per vincerlo. Non possiamo cadere neppure noi nella tentazione di cedere a “deliri di onnipotenza”, come fanno i “padroni del mondo”, pur partendo da posizioni ad essi opposte. Ci vuole l’“umiltà del realismo” che ci fa ricorrere “più esplicitamente a Cristo” nelle valutazioni e nelle decisioni (e non solo quando siamo in chiesa), perché Lui è l’unico definitivo vincitore del demonio, perché è più potente, essendo Dio.
     
    6.2. Questo non è un motivo di sconforto e di senso di impotenza. Al contrario è motivo di certezza di vittoria. A questo proposito mi è venuta in mente, da tempo, l’insistenza con la quale un altro grande maestro di vita, il card. Giacomo Biffi, ricordava regolarmente ai suoi fedeli e ascoltatori che comunque vadano le cose, Cristo ha già vinto!
     
    «Il credente sa che Cristo ha già vinto; ma sa anche che la piena manifestazione di questa vittoria sarà un dono escatologico. Questo non lo scoraggia né lo disarma: per essere se stesso e accogliere totalmente nella verità la salvezza di Dio, egli instancabilmente si adopera a dar vita alla nuova società, alla nuova storia, alla nuova cultura» (Per una cultura cristiana. Da una lettera del 1985).
    E oggi dobbiamo aggiungere: in proporzione a quanto è realisticamente possibile nella condizione storica nella quale ci si trova. Non serve combattere contro i mulini a vento!
     
    In un altro testo ebbe a dire: «Solov’ev era anche sicuro che “Tuttavia, dopo una lotta breve e accanita, il partito del male sarà vinto e la minoranza dei veri credenti trionferà completamente” (cfr. Mt 24, 31: “Manderà i suoi angeli… raduneranno tutti i suoi eletti dai quattro venti, da un estremo all’altro dei cieli”). Ma, aggiunge: “La certezza del trionfo definitivo per la minoranza dei credenti non deve condurci a un’attitudine passiva. Questo trionfo non può essere un atto puro e semplice, un atto assoluto dell’onnipotenza di Cristo perché, se così fosse, tutta la storia del cristianesimo sarebbe superflua. È evidente che Gesù Cristo, per trionfare giustamente e ragionevolmente dell’Anticristo, ha bisogno della nostra collaborazione…”» (“L’ammonimento profetico di Vladimir S.~Solov’ev”, esercizi predicati in Vaticano a Benedetto XVI e alla Curia romana, nel 2007).
     
    E qual è la nostra parte, oggi?
    Si deve saper  valutare che ci sono momenti, nella storia, nei quali la parte principale tocca a Dio, direttamente, perché noi, ormai ci rendiamo conto di essere divenuti «servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17,10) e ora “il grosso” tocca direttamente al Signore.
     
    Penso che anche per noi sarebbe ingenuo e irrealistico non tenere conto di colui contro il quale si combatte la battaglia decisiva e di quali sono i principali soggetti e le forze a noi superiori che sono in campo. Dopo di che ciascuno potrà collocarsi con una vocazione più contemplativa o più attiva, a seconda della sua storia e della sua sensibilità, ma mai con un atteggiamento che dimentichi, nella concretezza, la centralità di Cristo, di Dio Padre Creatore, del Suo Santo Spirito e della “potenza attiva” insita nel pregarlo. Non siamo noi, con le sole nostre forze, a salvare il mondo e la Chiesa («Senza di Me non potete fare nulla», Gv 15,5). La compagnia che cerchiamo di farci, anche nelle occasioni di riunione serva per ricordarcelo sempre e ci sostenga nella fede che illumina e santifica la ragione.
     
     
  17. SEM IPC
    In questo nuovo intervento, don Alberto richiama l'importanza del metodo nel vivere la fede. Lo si trova descritto nella  "Forma d'insegnamento della Scuola Ecclesia Mater"
     
    Nel precedente contributo del Prof. Gotti Tedeschi che, innanzitutto ringrazio per l’apprezzamento che ha voluto esprimere per il mio intervento dal titolo  “Contro chi è la battaglia?”, apparso su Il Pensiero Cattolico, ho riconosciuto l’invito esplicito a precisare qualcosa in più in vista di una risposta alla domanda: «Che fare?».
     
    Ma mi fermerò a questa mia sola “aggiunta” al mio intervento precedente, per non  correre il rischio di avviare un ping pong tra noi, (magari poco opportuno per i lettori abituali del blog).
     
    1. Mi sembra di poter leggere tra le righe il suo legittimo timore «che ci rifugiamo nella passività di azione, che con la scusa di abbandonarsi  nelle mani di Dio, di fatto trasforma la speranza in  “pigrizia spirituale”» (cito le sue parole). Non è questo che intendo, ovviamente. Penso piuttosto sia necessario un modo di procedere non velleitario, ma proporzionato alle nostre effettive possibilità, consegnando poi il tutto nelle mani di Dio che provvederà come solo Lui sa fare, e agli spazi che si possono effettivamente creare senza essere schiacciati dai poteri di varia natura, dei quali pure, in questi tempi – abbastanza apocalittici, per non dire escatologici – il demonio sa abilmente servirsi.
     
    2. Quanto al rifiuto in blocco della prospettiva, prevista dall’allora Card. Ratzinger – delle piccole comunità vive che fanno sopravvivere la Chiesa in attesa di una sua risurrezione dopo la passione e la croce, come quella del suo Signore – rifiuto espresso con l’esplicita dichiarazione: «Non credo al rifugio nel  “piccolo gregge”  (una “setta “ di fatto)», non penso che Ratzinger intendesse una sua realizzazione così negativa.
     
    3. Penso che si possa tentare una risposta alla domanda «che fare?», seguendo una strada simile, pur tenendo conto della  differenza della situazione (che non è poi così grande…) a quanto vidi già realizzato, nel 1980 quando andai insieme ad alcuni amici, per una settimana in Ungheria, a Budapest, a trovare persone e gruppi solidamente cristiani, su indicazione di chi, pionieristicamente, era in contatto diretto regolare con loro da anni.
     
    4. Loro avevano adottato questa strategia:
     
    a) nelle parrocchie erano permessi dal regime, allora, solo gruppi per formare dei piccoli cori per il canto (liturgico e non solo). Per cui i cori erano numerosi. I parroci erano più o meno pubblicamente ossequienti al potere. Mentre lasciavano fare i giovani preti (cappellani: allora là ce n’erano…) i quali clandestinamente, formavano i giovani (all’epoca incontrai degli universitari davvero in gamba) ad una cultura alternativa a quella ufficiale, ad incominciare dalla dottrina cattolica e dalla rilettura intelligente e cristiana della storia della nazione.
     
    Noi non siamo ancora ad un livello così estremo (ma potremmo arrivarci anche presto!), ma per esempio già il condizionamento del “pensiero unico” c’è ed è sottile.
     
    Come facevano a non ridurre i loro gruppi in «sette» chiuse in se stesse? Ci pensavano i principalmente predetti cappellani, insieme ad alcuni laici, i quali, di nascosto, tenevano i contatti tra loro, per confrontarsi e avere un “metodo” formativo comune, evitando ogni forma di chiusura e settarismo. Qualcuno ogni tanto veniva scoperto dal regime e pagava di persona! Ma questo modo di procedere, sostanzialmente, funzionava.
     
    b) In Polonia un modo di procedere simile riuscì a formare Solidarnosc che, al momento opportuno, emerse pubblicamente come soggetto identitario della nazione intera.
     
    c) Per la formazione dei seminaristi (più o meno clandestini) non potevano certo mettere in piedi dei “mega istituti”, ma facevano riferimento ai pochi Vescovi fidati per formare e ordinare i nuovi preti (sappiamo che anche Wojtyla seguì questo tipo di formazione iniziale). Partendo dal “piccolo”, quasi invisibile, riuscirono ad ottenere, infine, anche il “grande”, perché Dio lo volle e loro ebbero fede.
     
    5. Mi sembra di vedere che quello che manca, normalmente, da noi è questa attenzione ad un’unità nel “metodo”, una “visione comune” della Chiesa che vada al di là delle lamentele contro il Papa e o il Concilio Vaticano II.
     
    Ma se questa unità nel “metodo” non c’è non possiamo pretenderla e allora dovremo accontentarci almeno di farci compagnia, di qualcuno che proponga contenuti sensati, e non immaginare di creare, per esempio, un movimento con un’unità di impostazione all’origine. Ho l’impressione che l’epoca dei movimenti si sia ormai conclusa, con la morte dei loro fondatori.
     
    E adesso, sembra essere giunto proprio il momento “ratzingeriano” delle piccole comunità, le cui guide si raccordano tra loro per garantire una certa unità di “metodo” come facevano i cappellani ungheresi. Occorre imparare a vedersi e sintonizzarsi meglio, nel rispetto delle rispettive storie e situazioni locali, evitando di andare avanti isolatamente.
     
    Diversamente si rischia il ripetersi dell’esperienza fallimentare dei discepoli di Gesù  che non riuscirono a scacciare il demonio («“Ho detto ai tuoi discepoli di scacciarlo, ma non ci sono riusciti” […] "«Perché noi non abbiamo potuto scacciarlo?". Ed egli disse loro: "Questa specie di demoni non si può scacciare in alcun modo, se non con la preghiera”», Mc 9,18.28-29). Ci riusciranno dopo, con una fede che li sosterrà fino nelle prove più estreme. Ma non saranno tanto loro a riuscirci, quanto il potere di Cristo che volle servirsi di loro.
     
    Per quanto mi riguarda, ho avuto, già ormai cinque anni fa, la richiesta di aiuto da un piccolo gruppo di persone da diverse città di fare con loro un’esposizione “dottrinale” ed “esistenziale” (una volta si sarebbe detto “spirituale") del Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, perché si rendevano conto di non conoscere seriamente il cristianesimo, pur essendo fedeli praticanti. Il materiale si trova tutto sul mio sito albertostrumia.it e sul mio canale YouTube . Il lavoro, svolto on line dai tempi del covid, si è dimostrato utile, non solo per evitare di spostarsi continuamente da un posto all’altro, ,ma anche per consentire a chi lavora oltre oceano, di esserci. Quelli che possono e vogliono possono anche ritrovarsi di persona.
     
    Anche la Messa domenicale, per coloro che stanno nella stessa città è divenuta possibile (in novus ordo, si può attuare anche una sorta di “riforma della riforma”, celebrando riservatamente, in una piccola chiesa o cappella, per garantire una modalità liturgicamente dignitosa).
     
    Può essere ed è sicuramente poco, ma è già qualcosa e, soprattutto, c’è già da subito, e si cerca di farlo crescere con il dovuto «Timor di Dio» (richiamato nell’articolo che mi ha preceduto), che è anche da intendere come il “timore di rovinare” con qualche atto maldestro quanto di bello il Signore ha già fatto, con un rispetto dell’«autorità morale» che sa anche far capire, quando occorre, che «bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5,29).
     
    Se questa è una strada percorribile, certamente anche una via più pubblica e ambiziosa si può tentare, ed è bene che chi ne è in grado, senza venire “tarpato” lo faccia. Sarà la storia a valutare gli esiti dei due modi di procedere, quello più accorto e quello più ambizioso, entrambi guidati dal realismo della fede: non siamo noi da soli a sconfiggere il demonio, ma è chi lo ha già vinto perché è Signore!
     
  18. SEM IPC
    Ma chi lavora scientificamente su questi sistemi complessi sa che le cose non stanno così…
    Sorprendente è il confronto tra gli scritti sul tema dell’autocoscienza di due autori italiani che sono vissuti a
    distanza di più di sette secoli l’uno dall’altro: il primo, dottore della Chiesa, vissuto quando non si poteva
    neppure immaginare l’odierna tecnologia; il secondo, oggi abbastanza affascinato dall’Oriente, ideatore e
    costruttore di quell’odierna tecnologia, che tutti noi utilizziamo quotidianamente, il soft touch che permette di
    comandare il telefonino con il tocco di un dito; e di molto altro.
    Il primo testo (1255-59). «Bisogna tenere conto che si possono avere due modi di conoscenza della mente da
    parte di un soggetto conoscente, come dice Agostino nel IX libro del De Trinitate.
    – Il primo è quello per cui la mente di ciascuno viene conosciuta solamente per le sue proprietà individuali.
    – Il secondo è quello che conosce la mente in ciò che essa ha in comune con tutte le altre menti. […]
    La conoscenza della mente che uno ha della propria mente, è la conoscenza che ne ha ciascuno individualmente.
    [auto-coscienza] […]
    Per percepire l’esistenza della mente, e per accorgersi che essa agisce in se stessa, non occorre alcuna
    competenza: è sufficiente lo sola essenza dell’anima, che è presente alla mente. Da questa, infatti, emergono
    quegli atti nei quali essa si percepisce in azione. È secondo questo modo che si sa di avere una mente, mentre
    nell’altro modo si viene a conoscere che cosa è la mente in se stessa, e quali siano i suoi caratteri propri. Come
    dice Aristotele nel IX libro dell’Etica, “noi sentiamo di sentire, capiamo di capire, e dal fatto di sentire capiamo
    che esistiamo”. [San Tommaso d’Aquino, De Veritate, q. 10, a. 8co]
    Secondo testo (2019). «Il mio pensiero è che la vera intelligenza richiede coscienza, e che la coscienza è
    qualcosa che le nostre macchine digitali non hanno, e non avranno mai. La maggior parte degli scienziati crede
    che siamo solo macchine: sofisticati sistemi di elaborazione delle informazioni basati su software. Ecco perché
    pensano che sarà possibile realizzare macchine che supereranno gli esseri umani. Credono che la coscienza
    emerga solo dal cervello, che sia prodotta da qualcosa di simile al software che funziona nei nostri computer.
    Pertanto, con un software più sofisticato, i nostri robot finiranno per essere consapevoli. Ma ciò è davvero
    possibile? Bene, cominciamo con il definire cosa intendiamo per coscienza. Io so, dentro di me, di esistere. Ma
    come faccio a saperlo? Sono sicuro che esisto perché lo sento dentro di me».
    Ciò vale non solo per la conoscenza immediata che la mente ha di sé (auto-coscienza), ma anche per la
    percezione che la mente ha dei segnali provenienti dai sensi.
    «Quindi, è il sentire il portatore della conoscenza. La capacità di sentire è la proprietà essenziale della coscienza.
    Quando annuso una rosa, sento l’odore. Ma attenzione! La sensazione non è l’insieme dei segnali elettrici
    prodotti dai recettori olfattivi all’interno del mio naso. Questi segnali elettrici portano informazioni oggettive,
    ma tali informazioni sono tradotte nella mia coscienza in una sensazione soggettiva: cioè il profumo che quella
    rosa mi fa sentire. Dove mai si nasconde il profumo nei segnali biochimici ed elettrici? […] Ma il robot si ferma
    ai segnali elettrici […]
    Noi facciamo molto di più perché sentiamo l’odore della rosa, e attraverso quella sensazione ci colleghiamo in
    modo speciale a quella rosa, e al significato che le rose hanno nella nostra vita≫ (F. Faggin, Silicio, Milano
    2019).
    (per approfondire rinvio al mio video Autoreferenza e autocoscienza
     
     
  19. SEM IPC
    Qual è stato il metodo di San Giovanni Paolo II per stare pienamente di fronte alla Verità?
     
    «Io sono la Via, la Verità e la Vita» (Gv 14,6). Gesù dice di sé di essere “La Verità”. La sfida che lancia è tra coloro che intendono prendere sul serio, letteralmente, questa affermazione e coloro che non intendono farlo, attribuendole un valore sfumato o nullo. Giovanni Paolo II si è collocato, da credente, addirittura da santo, tra quelli della prima categoria, ed è stato chiamato ad essere maestro di quelli della prima categoria, e sfida per gli altri, perché prendano atto dell’inadeguatezza della loro posizione e la cambino.
    Per giungere a farlo (questo è il metodo) si è confrontato con tutto il pensiero e tutta la storia, cristiana e non cristiana, che lo ha preceduto; con il patrimonio culturale (filosofia, scienza, arte) della tradizione cristiana e precristiana. E ha attuato una sorta di “metodo scientifico”, per realizzare una sorta di “verifica sperimentale” del cristianesimo nella sua personale esperienza di vita. Se Cristo è vero, com’è, Egli “spiega” e fa “vivere” l’uomo, la famiglia, il lavoro, la società, la storia, insuperabilmente meglio di tuti gli altri. Questa è la “verifica del cristianesimo”, che è divenuta, di conseguenza, anche una “sfida” lanciata a quel mondo (esterno ed interno alla stessa Chiesa) che ha “liquidato la verità”, pur di addomesticare Cristo. È il mondo di oggi, dominato dal “relativismo”.
    Nel suo insegnamento e nella sua testimonianza è come se Giovanni Paolo II avesse detto: “Se le ideologie del mondo hanno fallito, allora solo Cristo resiste e io vi sfido a fare la prova”.
    È molto utile riprendere in mano il cap. IV della sua enciclica Fides e ratio (1998), a questo proposito, per vedere come egli ha compreso il “percorso”, il “lavoro culturale” elaborato nei secoli dal pensiero cristiano e come questo è stato progressivamente demolito da una sorta di “peccato originale” di orgoglio intellettuale degli uomini, compreso anche quello di alcuni pensatori credenti.
    Per Giovanni Paolo II, Cristo, con tutto ciò che da Lui deriva, è stato il “criterio di giudizio”, il “criterio culturale”, la “chiave ermeneutica” per comprendere e valutare se stesso, la condizione umana, la storia, l’uomo nelle sue caratteristiche (“antropologia”), la famiglia (si possono riprendere in mano le sue udienze generali del mercoledì su “Amore, matrimonio e famiglia” per rendersene conto).
    Questo “metodo” è diventato il suo metodo di “annuncio cristiano”, un metodo che aveva portato la Chiesa ad essere “in anticipo” sui tempi (con una funzione “profetica”) nella storia, rispetto alle ideologie del mondo, che si sono dimostrate prima o poi insufficienti, anzi dannose, per l’uomo.
    Il vero umanesimo è cristiano: non può essere marxista (illusione della teologia della liberazione), non individualistico-materialista-edonista (illusione del mondo occidentale), non gnostico-pagano (illusione di oggi dell’ecologismo panteista), ecc. Con lui la Chiesa si è dimostrata “in anticipo sui tempi” e non in ritardo come molti, anche tra i credenti, la ritenevano fino a poco prima.
    Lui aveva fatto l’esperienza di due “dis-umanesimi” totalitari e ne aveva vissuto il fallimento sociale e antropologico nell’Est europeo, prima di noi in Occidente. Anche grazie a questo è stato “più avanti”, e per questo è stato in larga misura non capito in Occidente. Adesso, poi, è stato censurato, dimenticato e quando se ne parla viene manipolato.
     
    Ho conosciuto un’altra persona che aveva avuto la stessa intuizione e lanciato lo stesso metodo per essere cristiani, riscoprendo quelle dimensioni del cristianesimo che chiamava “cultura”, “carità” e “missione”, e insegnava a prendere Cristo come “criterio di giudizio” su se stessi e sulla storia. Ed era don Luigi Giussani, al quale Giovanni Paolo II disse (cito a memoria): «Il mio metodo è molto simile al suo; anzi è lo stesso» (cfr. Tempi,  26 aprile 2014).
    Come poté Giovanni Paolo II fare tutto questo, prima da semplice sacerdote, da docente universitario, da Vescovo e Cardinale in Polonia, e poi da Papa nel mondo intero?
    Egli seppe fare due cose. E qui entro più direttamente nel suo metodo.
    La prima cosa. Seppe imparare a “leggere l’esperienza” degli uomini (in senso profondo e non appena psicologistico o modernista; non dobbiamo farci rubare una parola come “esperienza”, solo perché è stata deformata dal modernismo; mentre era stata impiegata correttamente già da Aristotele e poi da san Tommaso d’Aquino, ma dobbiamo riappropriacene). Giovanni Paolo II seppe leggere la sua esperienza umana e quella degli altri, andando in profondità, e non limitandosi agli aspetti superficiali, puramente esteriori, psicologici e sociologici, che non vanno di certo trascurati, ma piuttosto unificati sapendo ripercorrere quella catena di effetti e di cause che hanno un fondamento via via più essenziale per l’uomo.
    Per questo gli fu certamente utile anche lo studio della filosofia, dell’antropologia, della fenomenologia (Max Scheler fu uno dei suoi autori di riferimento, a questo scopo). Ma non si accontentò di fermarsi alle spiegazioni dell’uomo che i fenomenologi, davano, che rimanevano ad un livello per lui insoddisfacente, e finivano per rimettere in gioco come fondamenti quegli stessi principi che inizialmente avevano cercato di criticare come inadeguati (come, ad esempio, in Husserl la visione cartesiana, criticata prima [penso alla Crisi delle scienze europee], ma rimessa in gioco poi per mancanza di alternative).
    La seconda cosa è consistita nell’individuazione del Fondamento più solido del pensiero moderno, ritrovato come “più avanti” della stessa modernità. Giovanni Paolo II, invece, andò a pescare i fondamenti razionali, filosofici, antropologici nel pensiero cristiano, per comprendere fino in fondo l’esperienza dell’uomo. San Tommaso d’Aquino, soprattutto, attingendo alla metafisica (che oggi si poteva, e doveva rimettere in gioco, riscoprendola come una “teoria dei fondamenti” delle scienze perché iscritta nella realtà). E alimentandosi spiritualmente dei mistici (come San Giovanni della Croce), oltre che dei poeti della sua Polonia (come Norwid), divenendo lui stesso poeta, e interprete come attore nelle piccole rappresentazioni teatrali che realizzava, da giovane, con i suoi amici.
    La sua grande opera filosofica Persona e atto sintetizza il suo percorso filosofico:
    i) Si trattava di leggere e comprendere l’esperienza dell’uomo;
    ii) trovando la “spiegazione” di chi è l’uomo e di come funziona (“antropologia”), attraverso i principi fondamentali e irrinunciabili che regolano l’Essere di tutte le cose (metafisica). Ed è in queste che egli ha trovato e proposto le “ragioni” che stanno alla base della “morale” naturale e di quella cattolica, così che queste si dimostrino indispensabilmente necessarie agli uomini e non come imperativi moralistici. Come dicevano i medievali: praeceptum quia bonum e non, kantianamente, bonum quia praeceptum.
     
    È curioso che da un secolo a questa parte chi si occupa del problema dei fondamenti, in ambito seriamente scientifico, si trovi a fare i conti con la necessità di compiere, in fondo, lo stesso tipo di percorso. A questo proposito, proprio lui ebbe a scrivere e a dire: «Una grande sfida ci aspetta […] quella di saper compiere il passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno al fondamento. Non è possibile fermarsi alla sola esperienza; […] è necessario che la riflessione speculativa raggiunga la sostanza spirituale e il fondamento che la sorregge» (Fides et ratio, n. 81, 14-9-1998; al Giubileo degli scienziati, 25-5-2000).
     
    È il percorso dei pensatori cristiani, cattolici, dai Padri della Chiesa a sant’Agostino e san Tommaso. Il cristianesimo ha guidato la ragione a completare, ripulire approfondire ciò che c’era di vero e di meglio nel pensiero pre-cristiano. Come ebbe a dire il Card. J. Ratzinger poco prima di divenire Benedetto XVI: «Una delle funzioni della fede, e non tra le più irrilevanti, è quella di offrire un risanamento alla ragione come ragione» (Fede, Verità, Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2003, p. 142).
     
    Come possiamo, recuperando gli aspetti attuali del suo metodo, vivere bene il presente in questa detronizzazione della Verità?
    Rispondo. Cercando di fare allo stesso modo, di seguire lo stesso metodo. Studiando, pregando, facendoci aiutare da chi ne ha seguito la strada. Oggi fare questo significa marciare controcorrente (anche negli ambienti di Chiesa!), ed è urgente farlo… Esemplifichiamo: partiamo da questa domanda ineludibile: Che cos’è la verità?
    Che cosa aveva detto il pensiero filosofico (e teologico) cristiano e pre-cristiano lungo i secoli, in risposta alla domanda: Che cos’è la verità?
    Aveva colto due aspetti:
    1) Quello della Verità come “svelamento”. Per i Greci la Verità veniva rappresentata come una splendida figura femminile, mentre è svelata, resa senza veli. Il concetto di Verità che si svela da se stessa, poi, è la base della nozione cristiana di Rivelazione. La Rivelazione “svela” agli occhi della fede e al tempo stesso “vela di nuovo” per chi rifiuta la fede (ri-velata, svelata prima, e velata di nuovo poi). E svela solo in parte, anche per chi ha fede, lasciando ancora “il più” alla visione finale eterna.
    2) E poi quello della Verità come “corrispondenza” alla realtà. Oggi con la verità si è liquidata anche la “realtà” oggettiva delle cose. E tutto sta smettendo di funzionare. La verità veniva intesa come “corrispondenza” della conoscenza (la nostra, ma prima di tutto quella creatrice che è di Dio) alla realtà.
     
    Partiamo dall’Alto, da Dio. Dio è la Verità. Dio è tutto, la pienezza dell’Essere: Dio è l’“Essere perfettissimo” (Catechismo san di Pio X). Cristo dicendo «Io sono la Verità» dichiara di essere Dio.
    Il Vero, nella sua pienezza è Dio che si offre alla nostra conoscenza (la quale si ottiene con l’esperienza e l’intelligenza: quaerere, chiedere per sapere);
    Come il Bene, nella sua pienezza è Dio che si offre, alla nostra volontà/affettività, come ciò che è “desiderabile” (appetitum, san Tommaso; petere, chiedere per ottenere), Colui del quale non si può non avere “nostalgia” fino a che non si appartiene liberamente a Lui (Sant’Agostino, Confessioni, «Il nostro cuore non ha posa finché non riposa in te», L. I, 1.4).
    La conoscenza “porta dentro di noi” (immaterialmente) le cose che sono fuori di noi.
    La volontà/affettività, in modo complementare ci “fa muovere verso le cose”, verso le persone, per averle e per essere sempre con loro (Aristotele, Tommaso).
    Così l’Uno, nella sua pienezza è Dio che si dimostra come “principio unificante” che origina, governa e compie tutto ciò che esiste. L’“unità della persona” si sperimenta solo riconoscendo di appartenere a Dio. Sono i famosi “trascendentali”: ente, vero, bene, uno.
     
    = E il Bello (Gloria di Dio) è tutto questo insieme, che si manifesta a tutto il nostro essere. Il Bello è il Bene che si fa vedere dagli occhi, e per analogia è il Vero che si offre all’intelligenza, all’anima.
     
    Siamo partiti da Dio. Scendiamo verso il basso, alle creature
    La “verità”, in ogni cosa creata particolare, è la “corrispondenza” tra la cosa creata e il “come” Dio Creatore pensa e vuole che essa sia. E qui c’è di mezzo la nostra limitata intelligenza e la nostra libertà. La nostra conoscenza è vera se “corrisponde” a come la pensa, la vuole Dio Creatore.
    Prima di tutto c’è la Verità come “autenticità” (verità ontologica): l’essere creato è autentico quando è come Dio lo vuole. Se noi lo manipoliamo contro la sua natura lo snaturiamo, lo priviamo della verità, dell’autenticità, abbruttendolo di conseguenza.
    Poi c’è la Verità “nella conoscenza” (nel giudizio): la conoscenza è vera (verità logica) se c’è “corrispondenza” tra essa e le cose come stanno, in se stesse, davanti a Dio Creatore. Una “corrispondenza” tra la conoscenza nella nostra mentee la conoscenza in Dio.
    Se pretendiamo di servirci della nostra libertà per imporre alla realtà un giudizio discorde dalla mente del Creatore, il giudizio è falso, è menzogna, è ideologia.
    Un uomo che pretende, in nome della sua libertà, di pensarsi e di vivere solo come corpo, come materia, non corrisponde a come lo vuole Dio Creatore e prima o poi la sua vita non funzionerà, perché la sua concezione della vita cozza contro la realtà dei fatti («Non giudicate secondo le apparenze, ma giudicate con giusto giudizio!», Gv 7,24). È quanto succede nel mondo di oggi.
    Per questo, nella morale occorre riscoprire la “legge morale naturale” (I Dieci Comandamenti), e nel diritto occorre ritrovare come base l’autentico “diritto naturale”. Diversamente la legge diviene impostura del potere di turno, diviene una corruptio legis. È la questione dei “principi non negoziabili”, che sono irrinunciabili perché una società funzioni, sia umanamente vivibile.
    Infine c’è la Verità come “consapevolezza” di “conoscere la verità”, di essere nella verità (verità formale). Una consapevolezza che è offerta alla nostra ragione, non tanto per merito nostro, ma perché è “svelata” nella Rivelazione in Cristo, pienezza della Rivelazione. In terra, questa, è “accessibile” mediante la fede in Cristo, nella Chiesa. Oltre questa condizione terrena è “manifesta” nella visione diretta di Dio.
    Ma anche la “ragione umana” può (anche se non tutti ci riescono facilmente) raggiungere questo grado di consapevolezza certa, almeno in merito a quei principi che si mostrano come “irrinunciabili”, non negoziabili. Gli antichi dicevano addirittura “evidenti”. Su tutto il resto abbiamo delle teorie ipotetiche, o delle opinioni. Per questo è indispensabile l’aiuto della Rivelazione.
    Lo diceva già Platone: «Non c’è altro da fare: […] varcare a proprio rischio il gran mare del’esistenza, a meno che uno non abbia la possibilità di far la traversata con più sicurezza e con minor rischio su una barca più solida, cioè con l’aiuto di una rivelazione divina» (Fedone, XXV).
     
    Riassumendo
    Il metodo di Giovanni Paolo II che possiamo imparare da lui, per “costringere” a fare questo percorso anche l’uomo di oggi – che ha distrutto la stessa nozione di verità frammentandola in tante opinioni – è quello di procedere come in una dimostrazione matematica per assurdo. Ti faccio vedere che la negazione della “tesi” cristiana-cattolica porta alle contraddizioni che tu stesso puoi constatare nella realtà della società di oggi. Se la società e la tua vita sono divenute invivibili, la causa non è forse l’aver rifiutato il cristianesimo e con esso la stessa nozione di “verità oggettiva”?
    Diagnosi. Hai distrutto la Verità, pur di liberarti della fede in Cristo: tocca con mano le conseguenze. La vita è divenuta invivibile, la società, prima è stata resa disumana (i regimi), poi anarchica e ingovernabile (fallimento delle democrazie senza una cultura della verità  comune a tutto il popolo). Chiediti perché! Le cause, non sono solo materiali, strutturali, economiche, sociali (analisi marxista), o solo psicologiche (psicologia, psicanalisi), o giuridico-legali (legalismo, giustizialismo). Scava dentro l’uomo lasciandoti guidare dalla Rivelazione. Questo ti dice l’autentico pensiero della Chiesa!
    Terapia. E se avessimo gettato il Bambino con l’acqua sporca, eliminando il cristianesimo e con esso la verità? Se la negazione di Cristo e della verità è stata fallimentare non ha forse senso pensare che sia giusto, al contrario, tornare a prendere in seria considerazione Cristo e la verità? Questa è stata la sfida al mondo lanciata da san Giovanni Paolo II e proseguita da Benedetto XVI. Il mondo l’ha rifiutata, e oggi ne paga le conseguenze!
     
     
     
    Testo 1
    «In questo sembra consistere l’atto principale del dramma dell’esistenza umana contemporanea, nella sua più larga ed universale dimensione. L’uomo, pertanto, vive sempre più nella paura. Egli teme che i suoi prodotti, naturalmente non tutti e non nella maggior parte, ma alcuni e proprio quelli che contengono una speciale porzione della sua genialità e della sua iniziativa, possano essere rivolti in modo radicale contro lui stesso; teme che possano diventare mezzi e strumenti di una inimmaginabile autodistruzione, di fronte alla quale tutti i cataclismi e le catastrofi della storia, che noi conosciamo, sembrano impallidire. Deve nascere, quindi, un interrogativo: per quale ragione questo potere, dato sin dall'inizio all'uomo, potere per il quale egli doveva dominare la terra, si rivolge contro lui stesso, provocando un comprensibile stato d’inquietudine, di cosciente o incosciente paura, di minaccia, che in vari modi si comunica a tutta la famiglia umana contemporanea e si manifesta sotto vari aspetti?» (Redemptor Hominis, n. 15, 4-3-1979).
     
    Testo 2
    «Oggi così spesso l’uomo non sa cosa si porta dentro, nel profondo del suo animo, del suo cuore. Così spesso è incerto del senso della sua vita su questa terra. È invaso dal dubbio che si tramuta in disperazione» (Discorso di inizio del pontificato, 22 ottobre 1978, n. 5).
     
    Testo 3
    «Permettete, quindi – vi prego, vi imploro con umiltà e con fiducia – permettete a Cristo di parlare all’uomo. Solo lui ha parole di vita, sì! di vita eterna» (Discorso di inizio del pontificato, 22 ottobre 1978, n. 5).
     
    • Proviamo a costruire la vita «come se Dio esistesse» (Benedetto XVI, ai giornalisti, 7-10-2010), dopo averla costruita come se non esistesse o fosse irrilevante, o come se ognuno potesse farselo in casa come un idolo.
     
    • Oggi la famiglia viene disgregata e deformata, deformando l’amore. Proviamo ad impostarla come prevede il piano del Creatore e come Cristo ha insegnato a fare. (Familiairis consortio).
    «Rispose loro Gesù: “Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così”» (Mt 19,8).
     
    • Oggi il lavoro è in crisi o manca del tutto, perché lo si è concepito solo in funzione del profitto, o lo si è statalizzato penalizzando il merito nell’impegno dei singoli. Proviamo a viverlo tenendo conto di Dio Creatore del quale l’uomo che lavora è collaboratore (Laborem exercens).
     
    La catena delle cause
    Giovanni Paolo II, a nome della Chiesa, giuda un passo dopo l’altro a percorrere la catena delle cause delle contraddizioni. C’è una perdita del “modo giusto” di concepire e di vivere. Bisogna ritrovarlo.
     
    Testo 4
    «In seguito a quel misterioso peccato d’origine, commesso per istigazione di Satana, che è “menzognero e padre della menzogna” (Gv 8,44), l’uomo è permanentemente tentato di distogliere il suo sguardo dal Dio vivo e vero per volgerlo agli idoli (cf 1 Ts 1,9), cambiando “la verità di Dio con la menzogna” (Rm 1,25); viene allora offuscata anche la sua capacità di conoscere la verità e indebolita la sua volontà di sottomettersi ad essa. E così, abbandonandosi al relativismo e allo scetticismo (cf. Gv 18, 38), egli va alla ricerca di una illusoria libertà al di fuori della stessa verità». (VS, 1).
     
    Che cos’è il «misterioso peccato d'origine?». È la “perdita della giustizia”, del giusto rapporto con se stessi, con gli altri, con tutte le cose, derivante dal rifiuto del giusto modo di rapportarsi con Dio Creatore.
     
    Occorre liberare la morale dal moralismo (praeceptum quia bonum, non bonum quia praeceptum)
    Con la sua impostazione che fonda la morale sull’antropologia, l’antropologia sulla metafisica Giovanni Paolo II libera la morale dal moralismo, dal formalismo kantiano. La morale, per non essere moralismo, va fondata su un’antropologia; l’antropologia per non essere narcisistica (l’uomo che adora se stesso) va fondata su una concezione di tutto, dell’essere, una metafisica, una metafisica della verità e del bene.
    Una ragione onesta se ne rende conto. La Rivelazione (che in Cristo ha la sua pienezza) guida la ragione a capire l’uomo, la storia, la realtà
     
    Allora questi non sono solo astratti principi filosofici e teologici, ma sono criteri esistenziali necessari per una vita che sia degna di essere vissuta.
     
    Terza domanda: Nella ricerca della Verità ci si scopre non da soli ma in compagnia: amicizia e Verità, la comunione dei Santi
    «Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, Io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20). Siamo importanti gli uni per gli altri, al di là delle simpatie personali che, comunque sono un aiuto, perché gli altri sono, per analogia, come il pane dell’Eucaristia che è indispensabile perché Cristo si renda realmente presente nel Sacramento. In questo senso è detto, nella Costituzione dogmatica Lumen gentium del Vaticano II: «La Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento (veluti sacramentum), ossia il segno e lo strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano» (n. 1).
    Fonte:  http://www.albertostrumia.it/Metodo-Giovanni-Paolo-II
  20. SEM IPC
    Domenica XXVIII del Tempo Ordinario (Anno C)
    (2 Re 5,14-17; Sal 97; 2 Tm 2,8-13; Lc 17.11-19)
     
        Le letture di questa domenica parlano di alcuni personaggi “stranieri”, Naaman il siro e il samaritano, uno dei dieci lebbrosi guariti da Gesù.
        All’epoca del profeta Eliseo (prima lettura) come al tempo di Gesù (Vangelo) questo appellativo – “stranieri”  – indicava coloro che non appartenevano al popolo di Israele.
        Oggi, da parecchi anni, con questo termine ci si riferisce, ormai abitualmente ed esclusivamente ai cosiddetti “migranti”, provenienti da diverse etnie, culture e religioni, aree geografiche. E per ragioni che, solo in pochi casi, sono l’effettiva necessità di fuggire da situazioni di guerra oggettivamente pericolose. Ma non è questo il momento né il luogo per addentrarsi in questo aspetto del problema.
        Qui, quanto è importante sottolineare – in riferimento alle letture della liturgia di questa domenica – è il fatto che, a differenza di quanto si fa strumentalmente oggi, non è il titolo di “stranieri” a rendere automaticamente meritevoli di lode e di apprezzamento Naaman, il siro, da parte del profeta Eliseo (nella prima lettura) o il lebbroso samaritano che ritorna per ringraziare, da parte del Signore (nel Vangelo), ma è la fede in Dio dimostrata dal primo e la fede in Gesù dimostrata dal secondo.
        Non dovrebbe, allora, anche il popolo cristiano dei nostri giorni, con i suoi pastori per primi, adottare lo stesso criterio? Perché, allora, si usano criteri ben diversi?
        Ti apprezzo non tanto perché il titolo di “straniero” ti dà una sorta di “patente di innocenza”, in quanto membro di uno strano, immaginario nuovo “popolo eletto”, o nuovo “proletariato” che sia, facendo di te un privilegiato, quasi tu fossi esente dal peccato originale. E questo semplicemente perché non lo sei, esattamente come non lo sono io!
        È certamente doverosa l’accoglienza, in proporzione alle disponibilità di chi accoglie, ed è altrettanto doveroso, però, procedere razionalmente.
        La Scrittura dice, in proposito: «Se, mietendo il tuo campo, vi avrai dimenticato qualche covone, non tornerai indietro a prenderlo; sarà per lo straniero, per l’orfano e per la vedova» (Deut 24,19). Non sarà però, per il solo “straniero”, a spese di chi è bisognoso in casa tua (l’orfano, la vedova, il disabile con chi lo assiste, e altri ancora!).
        Attenzione all’ideologia dell’accoglienza forzata dello “straniero”, internazionalemente imposta!
        Anche perché, chi si comporta con lo “straniero” in questo modo, ben di rado lo fa senza secondi fini, politici, culturali, ideologici, anticristiani ed economici…
        Il Signore ha mostrato grande apprezzamento per coloro che hanno avuto fede in Lui, a qualunque popolo ed etnia appartenessero, al suo popolo come ad altri popoli. Ed ha dimostrato umana meraviglia di fronte a coloro i quali, davanti alla straordinarietà del Suo insegnamento e di ciò che Egli faceva, si sono convertiti a Lui, abbandonando le loro religioni di appartenenza, ormai dimostratesi del tutto inadeguate e per molti aspetti addirittura false.
        La dichiarazione di Naaman, il siro, che troviamo nella prima lettura, lo documenta: «Il tuo servo non intende compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore». Una chiara testimonianza di “conversione”.
        Nel Vangelo, il lebbroso Samaritano, guarito, diede un’altrettanto esplicita testimonianza di conversione: «Si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo».
        Mentre gli altri nove, pur appartenenti al popolo di Israele, come si può desumere dalle parole stesse di Gesù («Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?»), si sono comportati come titolari del diritto alla guarigione, senza dare un minimo di segno di fede in Dio che miracolosamente li ha guariti per le parole del Signore. Tornare a Cristo serve a tutti: stranieri convertiti e cristiani distratti dall’impegno sociologico!
        Nella seconda lettura, san Paolo rivolge a Timoteo una raccomandazione che vale ancor più per noi oggi, per chi deve istruire e guidare come per chi deve imparare ad essere cristiano: «Ricordati di Gesù Cristo, risorto dai morti, […] come io annuncio nel mio vangelo». Quasi ingiungesse di non azzardarsi a sostituire il culto verso di Lui, unico e vero Dio, con il mito pagano dello “straniero”, o dell’ambiente, o della natura adorati al posto Suo.
         Perché non funzionerà, né per ingraziarsi lo “straniero”, se non si converte alla vera religione, né per l’ambiente e la natura se non si riconosce Dio che li ha creati. Ma per condurre anche lo “straniero” alla fede, si deve parlargli di Cristo, insegnargli chi è veramente e non ritirarsi in un relativismo pseudoreligioso, come è divenuto di moda fare, oggi, anche nelle chiese che dovrebbero essere cristiane.
        I santi hanno annunciato e testimoniato Cristo con la loro parola e la loro vita, e non si sono mai accontentati di un sincretismo pagano in cui si mescolano elementi presi da tutte le parti confondendo le idee, già poco chiare, di coloro che ancora vorrebbero essere cristiani.
        In una situazione tanto confusa e pasticciata occorre, più di sempre, chiedere soccorso alla Madre di Dio, Maria Santissima, soprattutto in questo mese di ottobre a lei particolarmente dedicato, perché mostri a tutti gli uomini della terra il suo Figlio, l’unico Salvatore, in grado di guarire l’umanità di oggi dalla quella lebbra dello spirito, di origine satanica, che è peggiore di qualsiasi pandemia del corpo.
        Con le parole dell’antica preghiera dalla Salve Regina, anche ora la invochiamo: «Mostraci, dopo questo esilio, Gesù, il frutto benedetto del tuo Seno, o clemente, o pia, o dolce Vergine Maria!».
  21. SEM IPC
    La nostra rivista Liturgia culmen et fons ha trattato di una questione grave e di sempre più urgente considerazione: la disciplina liturgica.
    Infatti sembra che il dettato conciliare, che nella Costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium si esprime con queste precise parole:
    … Di conseguenza assolutamente nessun altro, anche se sacerdote, osi, di sua iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica (SC 22).
    sia largamente sconosciuto e quindi disatteso, anzi pare che da alcuni sia ormai ritenuto inadeguato e del tutto superato in nome di una creatività libera, relativa ai mutevolissimi contesti ‘pastorali’ in cui si celebra. Da ciò la confusione liturgica in cui versa una larga parte delle comunità cristiane, ma soprattutto il danno di una mentalità libertaria ormai pervasiva nel tessuto ecclesiale.
    L’articolo di fondo della suddetta Rivista, corredato dalle successive integrazioni nelle risposte al lettore, richiede alcune considerazioni previe, che qui esponiamo.
    1.         Per ritus et preces (SC 48)
    Con la breve locuzione per ritus et preces la Chiesa riconosce la necessità intrinseca della disciplina liturgica per l’identità stessa del culto cattolico, che non può realizzarsi in una libera creatività soggettiva, ma deve sottostare al rigore di preci precise e riti ben definiti.
    Se ben si pensa l’espressione per ritus et preces non fa che ricondurre ad altre analoghe e ben note locuzioni: gli eventi e le parole che costituiscono la storia della salvezza (DV 2); la materia e la forma dei Sacramenti; le rubriche e i testi dei libri liturgici, ma ancor più in radice il gesto e la parola del linguaggio umano.
    Come non è possibile prescindere da queste leggi della comunicazione, basate sull’indissolubile legame tra il gesto e la parola, che lo definisce ed interpreta, così non è concesso di poter celebrare un culto liturgico vero e pieno, senza l’apporto congiunto dei riti e delle preci.
    A questa legge si sottopose il Signore che, mediante l’Incarnazione, assunse il linguaggio umano con gesti e parole intimamente connessi. La liturgia infatti attualizza continuamente quei gesti salvifici e quelle parole di grazia, che il Kyrios, ora nel suo corpo glorificato, pone e pronunzia nell’‘Oggi’ del nostro tempo.
     
    2.         Il Soggetto della liturgia
    Qual è il soggetto agente nelle azioni liturgiche? Dalla risposta a questa domanda dipende la promozione o la dissoluzione dell’intero complesso liturgico.
    La risposta è inequivocabile: la liturgia ha come Soggetto Cristo Gesù, indissolubilmente unito alla Chiesa, sua sposa. Ogni atto liturgico è perciò un atto di Cristo e della Chiesa. Questo distinto ed inscindibile Soggetto stabilisce i riti e le preci. Nessun altro potrà creare o mutare quei riti e quelle preci che ha stabilito direttamente il Signore o che nel suo nome avrà stabilito la Chiesa.
    Se si accetta questa verità, si libera la mente da ogni tentazione di voler creare un culto soggettivo conforme alle sensibilità effimere delle persone e delle contingenze. La Chiesa sa che soltanto il culto del Figlio unigenito e della Chiesa sua sposa gode dell’accesso alla maestà divina ed ottiene il balsamo della santificazione. Il fedele ben formato sa che la sua preghiera individuale ha un unico accesso a Dio, quello di fondersi umilmente nell’unico culto valido ed efficace, quello di Cristo e della Chiesa. Qui sta il segreto profondo della actuosa participatio (SC 11) alla liturgia.
    In tal senso emerge il carattere teocentrico della liturgia e decade la sua mistificazione nell’antropocentrismo imperante.
    Coloro che hanno compreso questa verità accettano di buon grado la disciplina liturgica, perché sanno che in tal modo ricevono il pensiero di Cristo e offrono un culto autentico in mistica unione con la preghiera del sommo nostro Sacerdote, che officia perennemente sull’altare celeste.
     
    3.         La Tradizione liturgica
    Allo stesso modo che noi veniamo a contatto col depositum fidei, consegnato una volta e per sempre agli Apostoli e trasmesso di generazione in generazione nella perenne Tradizione apostolica, riceviamo pure dalla medesima Tradizione il depositum gratiae, ossia quel culto immacolato che il Signore ha consegnato alla sua Chiesa perché glorifichi la Trinità divina con il medesimo culto, puro e santo, che fu il Suo qui sulla terra ed ora arde perenne sull’altare d’oro del Cielo.         
    La Tradizione è dunque intrinseca alla liturgia cattolica, al punto che, fuori di questa, si esce dal contatto vivo col flusso soprannaturale della Grazia, che pervade unicamente il culto del Figlio di Dio, incarnato e glorificato.
    Come non è possibile aggiungere alcunché alla divina Rivelazione dopo la sua chiusura con la morte dell’ultimo Apostolo, così non è possibile ricreare o modificare oggi la liturgia su basi umane ed effimere. Il dogma della fede e la sostanza della liturgia sono perenni e si attingono unicamente con la recezione fedele della loro forma nella continuità della Tradizione apostolica.
    Il rigetto della Tradizione è dunque il rigetto di Cristo, che dalla Tradizione ci è consegnato e nella Tradizione opera nel tempo la sua azione santificante. Lo Spirito Santo stesso interviene soltanto lì dove è annunziato ed opera il Logos ed agisce sempre in conformità a quel depositum fidei et gratiae, che il Signore Gesù Cristo ci ha consegnato una volta e per sempre nella pienezza del tempo della sua vita sulla terra.
    In tale senso si deve intendere il carattere tradizionale della liturgia.
    Ogni sviluppo liturgico è legittimo se nella fedeltà al depositum apostolico e ogni apporto nei secoli deve esibire la sua conformità ad esso. Effettivamente grande fu lo sviluppo della liturgia cattolica, ma soltanto nella linea di quella verità più piena e di quella esplicitazione coerente suscitate dallo Spirito Santo nel cammino della Chiesa verso il compimento definitivo.
    Tali apporti, vagliati dal Magistero autentico della Chiesa, rappresentano tappe imprescindibili nell’organismo vivo della liturgia e, nella loro più intima sostanza (SC 21), non possono regredire, ma solo ricevere una maggior purificazione in vista di una più splendida maturazione.
    Ed ecco che il monumentum secolare della disciplina liturgica, nella complessità e nell’ordine dei suoi ingredienti, definisce con rigore, conserva con cura e difende con ardore la presenza, il pensiero e il culto del Kyrios, immolato e glorioso.
     
    Fatte queste tre considerazioni previe vi invitiamo alla lettura e alla riflessione sul tema della disciplina liturgica, offerto nella rivista Liturgia culmen et fons (n. 3 del 2022 qui in allegato).
    La disciplina liturgica.docx
  22. SEM IPC

    cattolicesimo e arte
    Sebbene da parte di molti teologi e liturgisti si richiami di frequente il celebre principio lex orandi-lex credendi, a ricordare che tra la fede e la preghiera, tra la dottrina e la liturgia che hanno prodotto la musica e l'arte sacre cristiane, vi sia un nesso indissolubile, assistiamo da decenni alla rottura e discontinuità tra essi. L'innovazione ha cancellato la tradizione, invece di mantenersi in equilibrio con essa, la riforma è diventata rivoluzione, in quanto non è stata condotta in base a criteri di scelta dell'antico. La Chiesa cattolica è a un bivio: o conservare innovando, cioè riproponendo mutatis mutandis, la tradizione delle immagini nel luogo di culto, o replicare malamente l'iconografia orientale oppure l'aniconicità protestante. Ad evitare tale rischio e riparare i guasti ove già consumati, urge la comprensione dell'unità sussistente tra simbolismo liturgico dei riti, loro interpretazione mistagogica e disposizione iconografica. Ne dipende la comprensione della verità cattolica. L'icona è la presenza divina, una finestra sul Mistero, dice l'Oriente slavo: serve per indicare all'uomo: qui c'è Dio. E se c'è Dio, cosa si fa: si deve coltivare il rapporto (colere) con lui: ecco il culto.
      Il card. Thomas Spidlik, uno dei noti teologi cattolici della spiritualità orientale, era contrario alle icone orientali nelle chiese occidentali, perché esse si possono comprendere perfettamente solo nella liturgia orientale; senza questa, le icone sono oggetti certamente belli, straordinari, ma, staccati dal contesto per il quale vengono creati, perdono il loro significato. Si capisce subito che da noi le icone sono estranee al contesto, ma inserite per esotismo. Certamente le icone non riempiono il vuoto creato dalla iconoclastia postconciliare e dalla confusione vigente nella liturgia, anzi, paradossalmente le aggravano; anche perché il popolo non le capisce e non le venera, e noi sappiamo che le icone esistono per essere venerate. Infatti una immagine sacra non è fatta per il gusto dell'artista, ma per la venerazione di colui che rappresenta: il Signore, la Vergine, i Santi. Simbolismo e raffigurazione non sono la stessa cosa, nell'arte come nella liturgia. Così si andarono definendo tre tipologie di immagini cristiane: simbolica, allusiva ai sacramenti e parabole; narrativa, di episodi biblici, evangelici o di santi; iconica, cioè immagini per il culto. Proprio su quest'ultimo tipo si aprì la discussione nell'VIII secolo, sfociato nell'iconoclasmo, con conseguenze drammatiche sulla tenuta della Chiesa d'Oriente; ma fu gradualmente confutato riaffermando il dogma dell'incarnazione, col concilio Niceno II(787), che tra i suoi principali attuatori ebbe san Giovanni Damasceno.  Il padre Rupnik, non so se si sia posto il quesito: dai miei mosaici, il fedele è indotto a venerare i prototipi che rappresentano, o si ferma solo all'ammirazione estetica? Se poi dinanzi ad essi si svolge la liturgia, questa non diventa una "danza vuota intorno al vitello d'oro che siamo noi stessi"(J.Ratzinger)? Si pensi ai mosaici della cripta dove è esposto san Pio da Pietrelcina, che hanno portato ad etichettarla come "tomba di Tutankhamon". C'è un modo, invece, di fare arte sacra, che Dio stesso ha rivelato, che mantiene in unità il rito, l'arte e l'interpretazione della liturgia, per non scadere in "un imparaticcio di usi umani"(Is 29,13), cioè nell'idolatria. L'incarnazione del Verbo - non quella dell'artista - è la condizione senza la quale non ci può essere liturgia e nemmeno iconografia. Ecco delineato lo spirito della liturgia, non solo orientale, collegato al concetto di culto e di liturgia celeste e terrena, al mondo visibile come segno dell'invisibile. Ecco il mistero della presenza sacra nell'icona come, seppur ad altro livello, nell'Eucaristia. Così la presenza divina guarisce l'uomo e lo trasforma in santo, lo santifica. La teologia orientale sostiene la deificazione dell'uomo in Cristo. Se si prescinde da questo e dall'incarnazione del Verbo, la liturgia e l'iconografia scadono nella mitologia. Lo sviluppo in essa dell'allegoria, vuol rendere presente il mistero di Cristo, dal suo ingresso nel mondo al suo ritorno per giudicare il mondo. La liturgia è capace di velare e svelare, di celare e di far capire, perché non è possibile comprendere tutto nello stesso tempo; molte cose si capiranno solo successivamente, dice Gesù agli apostoli. La liturgia e le immagini servono a sentire il "Dio vicino", che è il cuore del cristianesimo, a differenza dell'ebraismo che lo attende ancora o dell'islamismo che lo considera irraggiungibile. Gesù è il Dio vicino, che entra nella vita dell'uomo. Quindi la liturgia e l'iconografia cristiana non possono essere mitologiche o tendenti all'astrazione. Si guardino gli occhi nelle figure di Rupnik: sono indefiniti come quelli dei personaggi disneyani; ciò condiziona le figure, facendo scadere la scena quasi a raffigurazione gnostica.  L'iconofilia che ha preso i latini sa di patologia. Avendo abbandonato o addirittura distrutto la tradizione figurativa occidentale, si cerca di riempire il vuoto, prendendo le icone orientali e mettendole nel nostro contesto culturale: una de-culturazione. L'icona orientale nella liturgia romana è un pesce fuor d'acqua! Eccezion fatta per quelle icone arrivate a noi nel Medioevo quando la liturgia romana era più simile alla bizantina e che hanno avuto la fortuna di godere della venerazione dei fedeli. Si dirà che non favoriamo lo scambio tra l'oriente e l'occidente. Non è così: deve svilupparsi la conoscenza delle rispettive tradizioni, ma rimanendo nella loro differente ricchezza; proprio questo e non il bricolage favorisce lo scambio.
  23. SEM IPC
    Da alcuni studiosi è stato fatto notare che il n.5 della Lettera Desiderio desideravi , affermi che per accostarsi alla S. Comunione sia sufficiente la fede nell'Eucaristia. Senonché, l'enciclica Ecclesia de Eucharistia di Giovanni Paolo II precisa che L'Eucaristia deve essere celebrata nella comunione ecclesiale e nell'integrità dei Suoi vincoli: "Non basta la fede, ma occorre perseverare nella grazia santificante e nella carità, rimanendo in seno alla Chiesa col "corpo" e col "cuore"; occorre cioè, per dirla con le parole di San Paolo," La fede che opera per mezzo della carità"(36). "Chi è consapevole di aver commesso un peccato grave, deve ricevere il sacramento della Riconciliazione prima di accedere alla comunione"(CCC 1385). Per dirla con la teologia classica, la necessità della grazia è dovuta al fatto che L'Eucaristia è un sacramento che ricevono i "vivi", cioè coloro che con il sacramento del battesimo o della penitenza, da "morti" per il peccato, sono rinati appunto alla grazia. Dunque, non basta la fede per accostarsi alla  Comunione. Si pone quindi un dubium: chi ha redatto il testo ignora tutto questo o ha voluto modificare la dottrina cattolica? Il papa se n'è accorto?
  24. SEM IPC
    La Chiesa fa l'Eucaristia e l'Eucaristia fa la Chiesa: un assioma medievale rilanciato da Henri De Lubac. Che dire dell'altro slogan ripetuto nei documenti liturgici che invoca la coerenza tra liturgia e vita? Non devono valere per chi favorisce in vari modi l'aborto, specialmente attraverso la politica?
    Molti sono gli errori sulla natura dell'Eucaristia, sull'appartenenza alla Chiesa e sulla interconnessione tra le due. 
    Va detto chiaro, che l'Eucaristia non è un cibo comune, ma un farmaco speciale che produce l'immortalità, la risurrezione finale del nostro essere; ma, come ogni farmaco, se non si conoscono le controindicazioni, diventa un veleno che fa ammalare e porta alla "morte seconda", la dannazione eterna(cfr 1 Cor,11,30).Qualcuno altrimenti deve spiegare perché i padri della Chiesa fossero così severi col peccato d'aborto: vent'anni di penitenza imponeva Basilio, prima di riammettere alla Comunione che è inscindibilmente ecclesiale e sacramentale. Questo perché il Signore non gradisce un culto in contrasto con la vita, come attestano Antico e Nuovo Testamento.
    Oggi però tra i laici e i pastori, non si conosce o si hanno idee confuse sulla dottrina eucaristica cattolica, nonostante Giovanni Paolo II abbia promulgato l'enciclica Ecclesia de Eucharistia(2003), dove riafferma che la Comunione eucaristica presuppone come esistente la comunione ecclesiale, per consolidarla e portarla a perfezione(35). San Tommaso annotava che l'Eucaristia è il cantiere in cui si costruisce la Chiesa.
    Uno dei vincoli visibili della comunione ecclesiale è quello che unisce il fedele al proprio vescovo.
    Nancy Pelosi, speaker della Camera statunitense, è stata interdetta dall'arcivescovo della sua diocesi, Salvatore J.Cordileone, d'accostarsi alla Comunione, perché pubblica sostenitrice dell'aborto, ma non ha riconosciuto quel vincolo e, infrangendolo pubblicamente in san Pietro il 29 giugno scorso, ha ricevuto indegnamente il Sacramento, quindi "la propria condanna"(1Cor 11,29).  
    S.Tommaso lo ricorda nella sequenza del Corpus Domini: Vanno i buoni, vanno gli empi; ma diversa ne è la sorte: vita o morte provoca. "L’Eucaristia non deve essere profanata ricevendola indegnamente, - mi ricorda d.Alberto Strumia - perché in questo modo, oltre ad offendere il Signore, si fa del male a se stessi e al mondo intero. Non è per moralismo e arretratezza che si prendono decisioni censorie, ma in forza di una concezione dell’uomo e della realtà che agisce come se Dio non esistesse, tenendo conto che partendo dalla negazione di Dio e dal rifiuto della vera dottrina di Cristo si è costruito un mondo invivibile". 
    Se qualcuno privatamente ha incoraggiata la speaker a farlo, o l'omelia di papa Francesco pubblicamente le ha fatto intendere che tutti vanno accolti nella Chiesa senza bisogno di convertirsi da tale condotta, è stato contraddetto il Signore Gesù e ci si è fatti complici di tale peccato. Il Signore sedeva a mensa con i peccatori, ma per portarli a conversione; all'Eucaristia invece ammise i riconciliati, i puri e richiamò nell'Ultima Cena chi non lo era, Giuda in primis (cfr Gv 13,10 e 17,12).
    Il papa nell'intervista a Reuters osserva che la Chiesa, un vescovo, quando perde la sua natura pastorale causa un problema politico. Cosa vuol dire? E' sant'Ambrogio che ha causato un problema politico, non ammettendo l'imperatore Teodosio in chiesa, chiedendogli di fare prima penitenza, o piuttosto è l'imperatore che ha costretto il vescovo di Milano a usare il "senso pastorale" perché con la strage di Tessalonica aveva provocato un "problema politico"? L'arcivescovo di San Francisco si è mosso con vero "senso pastorale".
    Nessun vescovo, che non sia quello diocesano, può cancellare un interdetto, in specie concernente la dottrina eucaristica cattolica, senza venir meno al vincolo collegiale che unisce i vescovi tra loro e implica la comunione nella dottrina degli Apostoli che è costitutiva della Chiesa come sacramento di salvezza. Non si pensi che ciò sia "giuridismo" che ostacola la misericordia. Ammettendo alla Comunione una persona pubblica come la Pelosi, si reca scandalo ai piccoli e ai semplici nella Chiesa. Lo può consentire il "senso pastorale"? Non ha affermato più volte papa Francesco che bisogna riconoscere la carne di Cristo nei poveri? Ebbene, i primi poveri sono i cristiani, membra della Chiesa corpo di Cristo. L'arcivescovo Cordileone ha rivelato grande senso pastorale innanzitutto verso l'anima della Pelosi, avvertendola del rischio di dannazione eterna, quindi verso le anime a lui affidate, preservandole dalla profanazione della Comunione. Di questo ogni pastore dovrà rendere conto davanti al Rex tremendae maiestatis.
    Se esiste il diritto nella Chiesa affinché essa sia giusta, la grave frattura che si è prodotta tra un vescovo che interdice e uno che accoglie, il vescovo di Roma - il papa privilegia questo suo titolo - favorisce l'allontanamento di pastori e fedeli dall'insegnamento cattolico(apostasia) e fomenta la divisione(scisma), contraddicendo peraltro il "cammino sinodale". Molti fedeli nel mondo si augurano non sia vero quanto egli avrebbe dichiarato il giorno del suo compleanno nel 2017: "non è escluso che io passerò alla storia come colui che ha diviso la Chiesa ..."
    Se è vero che Cordileone ha dichiarato di seguire il Catechismo della Chiesa cattolica che anche il papa dovrebbe seguire, vuol dire che ha fatto come Paolo quando affrontò Pietro: il papa aveva timidamente alluso a lui ma l'arcivescovo gli si è rivolto direttamente. Salvatore Joseph Cordileone - nomen est omen - ha testimoniato non solo il senso pastorale ma il carattere sacrale del Sacramento, secondo l'insegnamento di Benedetto XVI: sacramento da credere, da celebrare, da vivere (Sacramentum Caritatis, 70).
     
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