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In punta di piedi e sommessamente, come colui che osa sussurrare qualche banalità mentre assiste alla discussione tra due giganti, mi intrometto nel dialogo tra Don Alberto Strumia ed il Prof. Gotti Tedeschi, ringraziandoli sin d’ora per le riflessioni che hanno condiviso. Don Alberto, in prima battuta, indica in modo chiaro la “radice del problema”, evitando che certe letture sociologiche, psicologiche o ecclesiologiche falliscano il bersaglio e non arrivino alla radice della questione. Primo auspicio: che tutti possano aver chiaro chi sia il nemico, come i medici che intendano combattere la malattia e non il sintomo. Trovo, personalmente, decisivo il richiamo nella citazione del Card. Biffi: “Gesù Cristo, per trionfare giustamente e ragionevolmente dell’Anticristo, ha bisogno della nostra collaborazione”. Secondo auspicio: che tutti sentano l’esigenza di collaborare alla battaglia. Il Prof. Gotti Tedeschi, raccogliendo la splendida indicazione, sospinge la riflessione sulla strategia della battaglia, ovvero sul come si possa offrire collaborazione e partecipare al trionfo di Cristo. Senza scordare che tutto ciò accade in tempi abbastanza apocalittici, per non dire escatologici e, secondo Don Alberto (che in parte risponde alla questione posta dal professore sulla direzione dell’operato della Chiesa), e accade quando "può dirsi ormai conclusa l’epoca dei movimenti con la morte dei loro fondatori”. In nulla volendo correggere, mi premono alcune considerazioni che contribuiscano, forse, ad integrare il quadro tracciato. Uno dei protagonisti della -usando la definizione di Don Alberto- “epoca dei movimenti”, ha affermato: “Non solo non ho mai inteso "fondare" niente, ma ritengo che il genio del movimento che ho visto nascere sia di avere sentito l'urgenza di proclamare la necessità di tornare agli aspetti elementari del cristianesimo, vale a dire la passione del fatto cristiano come tale nei suoi elementi originali, e basta”. Un altro fondatore, come sintesi di una immediata e chiara comprensione, intuisce “l’obbligo" di cercare la santità: “Avevo ventisei anni, grazia di Dio e buon umore. Null’altro. E dovevo fare l’opera”. Nella storia, come non ricordare il Crocifisso che si rivolge al giovane assisano: “Su di lui, veramente poverello e contrito di cuore, Dio posò il suo sguardo con grande accondiscendenza e bontà; non soltanto lo sollevò, mendico, dalla polvere della vita mondana, ma lo rese campione, guida e araldo della perfezione evangelica e lo scelse come luce per i credenti…” (Leggenda maior). E prima di lui c’è chi, lasciando disgustato le dissolutezze romane, trascorse il suo tempo vivendo da eremita in una grotta in isolamento spirituale, generando una delle aggregazioni di cristiani più decisive per il nostro continente e per il mondo. Prima o dopo l’ultimo concilio, non credo esista, se non nel commento storico, “un’epoca dei movimenti” (…e cosa sia un movimento, quali formazioni rientrino della definizione, quali mantengano l’ortodossia, quali l’intuizione iniziale, quali l’afflato profetico… a posteri l’arduo giudizio). Esiste invece, dalla risurrezione di Cristo in poi, il tempo dei santi. Santi, ovvero pienamente uomini, che hanno involontariamente in comune, pur in epoche diverse, una strategia: un luogo preciso, una necessità precisa, alcuni volti precisi e una relazione al destino in Cristo. Nella storia del mondo e della Chiesa, il passo è segnato da Cristo attraverso i santi e i beati. Quando il buon Dio ne dona uno, in modo tanto imperscrutabile quanto imprevedibile, appare una luce per i credenti, che allora si aggregano, spiritualmente o fisicamente, intorno a quella grazia. Persino le questioni ecclesiologiche su movimenti, associazioni, opere… appaiono necessarie ma successive, per tempo e gerarchia. E poi fatico ad immaginare Benedetto nella grotta a chiedersi se il gregge debba essere piccolo o grande, o Francesco a La Verna ad arrovellarsi sul numero di possibili followers... Questo anche perché, citando Von Balthasar, “Quale sia l’estensione della fecondità di un santo rimane, almeno sulla terra, un segreto di Dio“. Occorre, quindi, capire cosa ci aiuti nel cammino verso la santità (come riconoscimento attuale della presenza di Cristo), ovvero verso la nostra piena umanità. Ma non vorrei nascondermi dietro al generico richiamo alla santità. Oggi manca, nella stragrande maggioranza dell’umanità che incontro, la coscienza delle categorie fondamentali del pensiero cattolico. Parlo volutamente di coscienza: che lo si riconosca lucidamente oppure no, la natura della radice fondamentale di ogni uomo è sempre in ogni caso e in ogni epoca ordinata al medesimo logos, quindi sempre ordinata alla creazione e, pertanto, coerente con il pensiero cattolico. Ma la coscienza della natura del proprio cuore è, più meno gravemente, offuscata. E cosa forma rettamente la nostra coscienza? Dobbiamo ristudiare Caritas in Veritate, come propone il professore? O forse, ormai giunto il momento “ratzingeriano”, dobbiamo rifugiarci in piccole comunità come suggerisce Don Alberto? Mi permetto di citare Don Nicola Bux: prima dello studio (studium come zelo, passione, ricerca, lavoro) c’è un antefatto, l’amicizia. Si studia, innanzitutto, per una amicizia (la “teologia come amicizia”, nella riflessione di Don Nicola). Per una amicizia, anzitutto con Cristo, che poi è “il” soggetto che studiamo nei rivoli delle varie materie della vita. La piccola o grande comunità in cui cercar rifugio e studiare Caritas in veritate e non solo, è l’amicizia in e con Cristo (con le armi che Lui ci ha consegnato, a partire dai sacramenti). Collaborare con il Suo trionfo è, in primo luogo, gustare la Sua compagnia e la Sua amicizia, con la certezza che questa vince il “mondo, la carne e il maligno”. Lo si chieda al Card. Van Thuan, lo si chieda a padre Kolbe: il nemico non vince neppure quando sembra lo faccia. Sopporto l’idea di un nemico a cui dar battaglia (e del grande sacrificio che una battaglia richiede) solo nella certezza dell’amico, esattamente come uno scienziato inizia una lunga e faticosa opera di ricerca solamente nella convinzione, seppure remota, che esista l’oggetto del proprio cercare. Combatto perché Lui c’è e perché Lui è proprio Lui, quel bambino che tiene nel palmo della mano l’intero universo.
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battaglia finale Don Alberto Strumia: Il “metodo” per condurre la battaglia
SEM IPC posted a blog entry in Scuola Ecclesia Mater
In questo nuovo intervento, don Alberto richiama l'importanza del metodo nel vivere la fede. Lo si trova descritto nella "Forma d'insegnamento della Scuola Ecclesia Mater" Nel precedente contributo del Prof. Gotti Tedeschi che, innanzitutto ringrazio per l’apprezzamento che ha voluto esprimere per il mio intervento dal titolo “Contro chi è la battaglia?”, apparso su Il Pensiero Cattolico, ho riconosciuto l’invito esplicito a precisare qualcosa in più in vista di una risposta alla domanda: «Che fare?». Ma mi fermerò a questa mia sola “aggiunta” al mio intervento precedente, per non correre il rischio di avviare un ping pong tra noi, (magari poco opportuno per i lettori abituali del blog). 1. Mi sembra di poter leggere tra le righe il suo legittimo timore «che ci rifugiamo nella passività di azione, che con la scusa di abbandonarsi nelle mani di Dio, di fatto trasforma la speranza in “pigrizia spirituale”» (cito le sue parole). Non è questo che intendo, ovviamente. Penso piuttosto sia necessario un modo di procedere non velleitario, ma proporzionato alle nostre effettive possibilità, consegnando poi il tutto nelle mani di Dio che provvederà come solo Lui sa fare, e agli spazi che si possono effettivamente creare senza essere schiacciati dai poteri di varia natura, dei quali pure, in questi tempi – abbastanza apocalittici, per non dire escatologici – il demonio sa abilmente servirsi. 2. Quanto al rifiuto in blocco della prospettiva, prevista dall’allora Card. Ratzinger – delle piccole comunità vive che fanno sopravvivere la Chiesa in attesa di una sua risurrezione dopo la passione e la croce, come quella del suo Signore – rifiuto espresso con l’esplicita dichiarazione: «Non credo al rifugio nel “piccolo gregge” (una “setta “ di fatto)», non penso che Ratzinger intendesse una sua realizzazione così negativa. 3. Penso che si possa tentare una risposta alla domanda «che fare?», seguendo una strada simile, pur tenendo conto della differenza della situazione (che non è poi così grande…) a quanto vidi già realizzato, nel 1980 quando andai insieme ad alcuni amici, per una settimana in Ungheria, a Budapest, a trovare persone e gruppi solidamente cristiani, su indicazione di chi, pionieristicamente, era in contatto diretto regolare con loro da anni. 4. Loro avevano adottato questa strategia: a) nelle parrocchie erano permessi dal regime, allora, solo gruppi per formare dei piccoli cori per il canto (liturgico e non solo). Per cui i cori erano numerosi. I parroci erano più o meno pubblicamente ossequienti al potere. Mentre lasciavano fare i giovani preti (cappellani: allora là ce n’erano…) i quali clandestinamente, formavano i giovani (all’epoca incontrai degli universitari davvero in gamba) ad una cultura alternativa a quella ufficiale, ad incominciare dalla dottrina cattolica e dalla rilettura intelligente e cristiana della storia della nazione. Noi non siamo ancora ad un livello così estremo (ma potremmo arrivarci anche presto!), ma per esempio già il condizionamento del “pensiero unico” c’è ed è sottile. Come facevano a non ridurre i loro gruppi in «sette» chiuse in se stesse? Ci pensavano i principalmente predetti cappellani, insieme ad alcuni laici, i quali, di nascosto, tenevano i contatti tra loro, per confrontarsi e avere un “metodo” formativo comune, evitando ogni forma di chiusura e settarismo. Qualcuno ogni tanto veniva scoperto dal regime e pagava di persona! Ma questo modo di procedere, sostanzialmente, funzionava. b) In Polonia un modo di procedere simile riuscì a formare Solidarnosc che, al momento opportuno, emerse pubblicamente come soggetto identitario della nazione intera. c) Per la formazione dei seminaristi (più o meno clandestini) non potevano certo mettere in piedi dei “mega istituti”, ma facevano riferimento ai pochi Vescovi fidati per formare e ordinare i nuovi preti (sappiamo che anche Wojtyla seguì questo tipo di formazione iniziale). Partendo dal “piccolo”, quasi invisibile, riuscirono ad ottenere, infine, anche il “grande”, perché Dio lo volle e loro ebbero fede. 5. Mi sembra di vedere che quello che manca, normalmente, da noi è questa attenzione ad un’unità nel “metodo”, una “visione comune” della Chiesa che vada al di là delle lamentele contro il Papa e o il Concilio Vaticano II. Ma se questa unità nel “metodo” non c’è non possiamo pretenderla e allora dovremo accontentarci almeno di farci compagnia, di qualcuno che proponga contenuti sensati, e non immaginare di creare, per esempio, un movimento con un’unità di impostazione all’origine. Ho l’impressione che l’epoca dei movimenti si sia ormai conclusa, con la morte dei loro fondatori. E adesso, sembra essere giunto proprio il momento “ratzingeriano” delle piccole comunità, le cui guide si raccordano tra loro per garantire una certa unità di “metodo” come facevano i cappellani ungheresi. Occorre imparare a vedersi e sintonizzarsi meglio, nel rispetto delle rispettive storie e situazioni locali, evitando di andare avanti isolatamente. Diversamente si rischia il ripetersi dell’esperienza fallimentare dei discepoli di Gesù che non riuscirono a scacciare il demonio («“Ho detto ai tuoi discepoli di scacciarlo, ma non ci sono riusciti” […] "«Perché noi non abbiamo potuto scacciarlo?". Ed egli disse loro: "Questa specie di demoni non si può scacciare in alcun modo, se non con la preghiera”», Mc 9,18.28-29). Ci riusciranno dopo, con una fede che li sosterrà fino nelle prove più estreme. Ma non saranno tanto loro a riuscirci, quanto il potere di Cristo che volle servirsi di loro. Per quanto mi riguarda, ho avuto, già ormai cinque anni fa, la richiesta di aiuto da un piccolo gruppo di persone da diverse città di fare con loro un’esposizione “dottrinale” ed “esistenziale” (una volta si sarebbe detto “spirituale") del Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, perché si rendevano conto di non conoscere seriamente il cristianesimo, pur essendo fedeli praticanti. Il materiale si trova tutto sul mio sito albertostrumia.it e sul mio canale YouTube . Il lavoro, svolto on line dai tempi del covid, si è dimostrato utile, non solo per evitare di spostarsi continuamente da un posto all’altro, ,ma anche per consentire a chi lavora oltre oceano, di esserci. Quelli che possono e vogliono possono anche ritrovarsi di persona. Anche la Messa domenicale, per coloro che stanno nella stessa città è divenuta possibile (in novus ordo, si può attuare anche una sorta di “riforma della riforma”, celebrando riservatamente, in una piccola chiesa o cappella, per garantire una modalità liturgicamente dignitosa). Può essere ed è sicuramente poco, ma è già qualcosa e, soprattutto, c’è già da subito, e si cerca di farlo crescere con il dovuto «Timor di Dio» (richiamato nell’articolo che mi ha preceduto), che è anche da intendere come il “timore di rovinare” con qualche atto maldestro quanto di bello il Signore ha già fatto, con un rispetto dell’«autorità morale» che sa anche far capire, quando occorre, che «bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5,29). Se questa è una strada percorribile, certamente anche una via più pubblica e ambiziosa si può tentare, ed è bene che chi ne è in grado, senza venire “tarpato” lo faccia. Sarà la storia a valutare gli esiti dei due modi di procedere, quello più accorto e quello più ambizioso, entrambi guidati dal realismo della fede: non siamo noi da soli a sconfiggere il demonio, ma è chi lo ha già vinto perché è Signore! -
Nel suo splendido articolo su IPC ( “Contro chi è la battaglia ?” ), don Alberto Strumia ci indica l’avversario contro cui dobbiamo combattere e ci invita a tenerne conto. Molto intelligentemente sintetizza l’ operato del nostro avversario oggi, riferendosi a suor Lucia di Fatima che spiegò che Satana sta costruendo una Anti-Creazione . Esatto, perfetto. Satana sta riscrivendo la Genesi: non più il Creatore li creò uomo e donna, non più disse loro andate e moltiplicatevi, non più li invitò a sottomettere la terra e ogni essere vivente. La nuova genesi blasfema dice esattamente il contrario: Genderismo, neomaltusianesimo, ambientalismo e animalismo. Lo capiamo anche leggendo un paio di notizie oggi sulla decisione del Presidente del Veneto di attuare anche lui una rivoluzione dei diritti civili finanziando una clinica che cambia il sesso ( scelta di civiltà) o leggendo quanto succede nello stesso ambito, nella chiesa tedesca. Vorrei tentare di integrare il pensiero di don Alberto, quando ricorda l’espressione di don Giussani sul fatto che “si deve tener conto della totalità dei fattori (in gioco)", specificando che si deve tener conto anche della totalità degli “attori in gioco”, dei loro obiettivi, dei loro mezzi, ecc. . Cioè noi cattolici di criterio dobbiamo “pensare strategicamente“ e strategicamente agire. Questo, secondo me, intendeva don Giussani con questa considerazione. Don Strumia lo specifica bene quando parla infatti dell’avversario con cui dobbiamo combattere. Ecco, riflettiamo un momento su questo avversario: Il diavolo. Tutta la storia dell’umanità, non solo la storia sacra, ne ha subito l’influenza. Oggi sembra agire con maggior malizia offrendo alla umanità la proposta di migliorare in tutto scientificizzandosi, e pertanto modificandone obiettivi e mezzi, rivoluzionando pertanto la Genesi stessa e le sue indicazioni. Questa è la grande tentazione di questo secolo, Ma noi dovremmo ricordarci che il Signore ci ha dato tutti i mezzi per vincere sempre in ogni tempo e condizione ogni tentazione. Proprio il grande cardinale Caffarra (con altri tre Cardinali ) ce lo ha ricordato con i DUBIA riferiti ad Amoris Laetitia che sembrerebbe proporre qualcosa di diverso, di molto diverso. Ma il Signore non ci ha proprio chiamato alla santità, ad esser perfetti come il Padre Nostro è perfetto ? Ed a esserlo anche oggi e nel nostro stato. Proprio oggi e proprio nel nostro stato, non “nonostante” le tentazioni di oggi e le difficoltà del nostro stato. Conveniamo o no che la crisi di oggi è crisi di santità ? Benedetto XVI conclude Caritas in Veritate spiegando che queste crisi non si risolvono cambiando gli strumenti ,ma il cuore degli uomini. E nella parte da lui scritta di Lumen Fidei spiega che chi ha responsabilità di cambiare il cuore degli uomini è la Chiesa, con tre strumenti: preghiera, magistero e sacramenti. I sacerdoti cattolici ed i laici cattolici dovrebbero riflettere bene su questi due punti. Ma per cominciare è necessario tornare alle raccomandazioni di don Strumia: riconoscere l’avversario e aborrire il peccato, che non è certo conseguenza della la miseria materiale (“l’inequità“, nella ripartizione delle risorse ) a generarlo, bensì la miseria morale genera la miseria materiale (come si sente la mancanza dell’insegnamento del Tomismo nei seminari). Che fare ? certo il Signore non vuole che contiamo troppo sulle nostre capacità e abbiam troppa fiducia nello sforzo umano, ma neppure ( io credo e chiedo conferma a don Strumia ) vuole che ci rifugiamo nella passività di azione, che con la scusa di abbandonarsi nelle mani di Dio, di fatto trasforma la speranza in “pigrizia spirituale“ …Se ricordo bene San Tommaso scrisse nella Summa che la Grazia non sostituisce la Natura e Dio ci ha messo in mano gli strumenti che servono a non tralasciare di fare ciò che si può, aspettando l’aiuto di Dio. Perché, se ho ben capito, ciò equivarrebbe a “tentare Dio “ e pertanto anche la Grazia non agirà . Ma ho una riflessione finale che è una domanda per don Strumia. Fino a ieri noi cattolici ci misuravano con i Misteri della fede. Oggi abbiamo un ”mistero” in più da affrontare, riuscire a capire dove la Chiesa di oggi vuole portare la fede cattolica e perché. Un piccolo nuovo sotto-mistero è anche capire come il Timor di Dio ( che non è terror di Dio…) sia stato trasformato in Timor della autorità morale. Un tempo ci insegnavano a sentirci “figli di Dio” ed agire come tali. Oggi sembrerebbe ci invitino a considerarci cancro della natura ed a vergognarci di non esser giardinieri o ortolani. Se il mondo cattolico oggi non ha pace non può seminare pace e fede con gioia. Non solo non credo al rifugio nel “piccolo gregge” (una “setta “ di fatto) o al passaggio a religioni più ortodosse (che è esattamente quello che il nostro avversario vuole!), credo invece che dobbiamo ristudiare Caritas in Veritate (e Lumen Fidei) di Benedetto XVI. Ci ha spiegato tutto quello che dobbiamo fare. Questo sarà il tema di volta che verrà discusso durante i prossimi appuntamenti della Scuola Ecclesia Mater. Benedetto XVI aveva già spiegato contro chi stiamo combattendo e come combattere oggi.
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Don Alberto Strumia: Contro chi è la battaglia?
SEM IPC posted a blog entry in Scuola Ecclesia Mater
Oggi è frequente, tra coloro – e non sono molti, pur non essendo neppure pochissimi – che si rendono conto della gravità situazione sia ecclesiale-ecclesiastica (sbandamento dottrinale e morale, contrapposizioni tra i cosiddetti “progressisti” e i cosiddetti “tradizionalisti”, divisioni tra i laici e tra gli ecclesiastici, scandali di ogni genere, posizioni eretiche/ereticheggianti, scismatiche/scismaticizzanti, e forme varie di apostasia vera e propria, ecc.), che socio-politica… è frequente e urgente cercare di intervenire per correre ai ripari. Per farlo si vedono all’opera diversi modi di procedere che, alla prova dei fatti – pur potendo essere in sé, almeno in certi casi, anche parzialmente buoni, e animati da ottime intenzioni – risultano insufficienti, ultimamente inadeguati, non abbastanza “realistici”: – o perché non tengono conto della “totalità dei fattori” in gioco (per usare un espressione che era cara a don Giussani); – o perché sono “velleitari”, per l’illusione di poter realizzare in un solo colpo progetti grandiosi con forze insufficienti, in quanto solo troppo umane. Il rischio, in questo caso, è quello di un involontario “delirio di onnipotenza”, che finisce per essere il rovescio della medaglia di quello degli attuali “padroni del mondo”. Sarebbe sempre meglio procedere gradualmente nella realizzazione di ciò che si è progettato! 1. Di certo è inadeguato il limitarsi a cercare di “tamponare le falle”, come sul piano socio-politico tentano di fare i governi, pure quelli “più saggi”, e non conniventi con le ideologie del mondo. Non bastano, anche se sono necessari, gli interventi “dall’esterno” della coscienza dell’essere umano (le leggi, le strutture, i provvedimenti giudiziari, ecc.). 2. Peggio ancora sono i tentativi di entrare mediaticamente (tv, social, articoli, spot pubblicitari, ecc.) nelle coscienze, manipolandole, per convincerle della bontà delle ideologie che dominano il mondo (“pensiero unico”) solo per interessi di potere ed economico-finanziari, di alcuni su tutti gli altri; e non per il bene comune. Si finisce in guerra e nell’autodistruzione, come vediamo accadere proprio in questi ultimi anni. 3. Tutto questo modo di procedere è proprio di un “orizzontalismo” troppo mondano e “umano” per essere risolutivo. Domanda: la battaglia finale si gioca solo a livello umano, o c’è qualcosa d’altro in ballo? 4. Internamente alla Chiesa si può rischiare di riprodurre, anche involontariamente, lo stesso “modello” di giudizio e di comportamento che vediamo al di fuori di essa. – i più convinti “tradizionalisti” tendono a vedere tutto il male a partire dal Concilio Vaticano II e tutto il rimedio nel riportare l’orologio e il calendario a prima del Concilio. Cosa per altro praticamente irrealizzabile e non corrispondente alla realtà. – i più convinti “progressisti” vorrebbero il totale adeguamento dell’insegnamento della Chiesa alle ideologie del mondo (ambientalismo/naturalismo fino al panteismo, pauperismo/migrantismo incontrollato, sovvertimento di tutte le discipline morali, ecc.). – Altri tentano la via intermedia tra le due posizioni: salviamo la Tradizione, senza rifiutare in blocco il buono, che riconosciamo nel Concilio, alla luce della “continuità” (in linea con Benedetto XVI). Una strada che si presenta come la più ragionevole, purché non si faccia conto solo delle nostre forze umane, ma si tenga conto che la battaglia non è solo tra uomini e dottrine umane. Non siamo al livello di chi, come già al tempo di san Paolo, si schierava dicendo: «“Io sono di Paolo”, “Io invece sono di Apollo”, “E io di Cefa”, “E io di Cristo!”» (1Cor 1,12). E oggi, potremmo dire: “Io sono di Francesco”, o “Io di Pio XII”, “Io di nessuno di loro” e “Io passo con gli Ortodossi”, ecc. 5. Contro chi è la battaglia? È solo un’alternativa tra quella che un tempo si era definita come “la scelta religiosa” (oggi si parla di “ritorno nelle catacombe”, di “opzione Benedetto”, ecc.) e il “combattimento pubblico ad oltranza”, per ricostruire una “cristianità in grande”, imbarcandosi in grandi progetti di costruzioni che per ora rimangono a lungo solo sulla carta? Abbiamo a che fare con un avversario di natura umana, o di un’altra natura superiore? 6. Mi hanno molto colpito, già da diversi anni, i “giudizi” sul nostro tempo espressi in diverse occasioni, da alcuni grandi uomini di fede e pastori, che considero come “maestri di vita cristiana”, e che ho avuto la grazia di avere vicini, fino a che erano con noi su questa terra, e ora ci vedono e penso ci proteggano dal Cielo. 6.1. Uno di loro è stato il card. Carlo Caffarra. – In un’intervista rilasciata a Tempi ebbe a dire: «Una legge che impedirà di dire che i maschi sono maschi e le femmine femmine è la fine della civiltà, della adaequatio rei et intellectus (corrispondenza tra realtà e intelletto), della Verità. Dopo questo, basta, potremo dire tutto: tutto sarà vero e falso insieme, perché se io posso dire che mi sento maschio, dunque sono maschio, vale tutto» (Tempi, 14-07-2020). È l’istantanea del relativismo odierno, della situazione attuale. Ma questa è ancora solo la presa d’atto degli “effetti” dell’azione di un nemico (come disse Gesù a proposito della zizzania: «Un nemico ha fatto questo», Mt 13,28). E chi è questo nemico? – In un’altra intervista (del 2017) riferendosi alla lettera con la quale gli rispose suor Lucia di Fatima, Caffarra andò direttamente dall’“effetto” alla “causa”. E non si fermò al livello delle “cause prossime”, come fanno oggi anche i migliori psicologi, sociologi, politologi, non essendo in grado di spingersi più in profondità, perché abituati a ragionare e vivere “come se Dio non esistesse”, e non esistesse neppure il suo primo oppositore (!). Ma andò fino alla radice del problema. Disse: «Qualche anno fa ho cominciato a pensare, dopo quasi trent’anni: “Le parole di Suor Lucia si stanno adempiendo”. […] Satana sta costruendo un’anti-creazione. […] Satana sta tentando di minacciare e distruggere i due pilastri [la “vita” e la “famiglia”], in modo da poter forgiare un’altra creazione. Come se stesse provocando il Signore, dicendo a Lui: “Farò un’altra creazione, e l’uomo e la donna diranno: qui ci piace molto di più”» (intervista al sito aleteia.org in occasione del quarto incontro del Roma life Forum il 19 maggio 2017). La battaglia, secondo Caffarra, è dunque, prima di tutto, contro Satana che è, per natura un angelo e quindi è superiore a noi, più potente di noi. Le nostre sole forze umane e i nostri progetti, per quanto belli e grandiosi, non sono sufficienti per vincerlo. Non possiamo cadere neppure noi nella tentazione di cedere a “deliri di onnipotenza”, come fanno i “padroni del mondo”, pur partendo da posizioni ad essi opposte. Ci vuole l’“umiltà del realismo” che ci fa ricorrere “più esplicitamente a Cristo” nelle valutazioni e nelle decisioni (e non solo quando siamo in chiesa), perché Lui è l’unico definitivo vincitore del demonio, perché è più potente, essendo Dio. 6.2. Questo non è un motivo di sconforto e di senso di impotenza. Al contrario è motivo di certezza di vittoria. A questo proposito mi è venuta in mente, da tempo, l’insistenza con la quale un altro grande maestro di vita, il card. Giacomo Biffi, ricordava regolarmente ai suoi fedeli e ascoltatori che comunque vadano le cose, Cristo ha già vinto! «Il credente sa che Cristo ha già vinto; ma sa anche che la piena manifestazione di questa vittoria sarà un dono escatologico. Questo non lo scoraggia né lo disarma: per essere se stesso e accogliere totalmente nella verità la salvezza di Dio, egli instancabilmente si adopera a dar vita alla nuova società, alla nuova storia, alla nuova cultura» (Per una cultura cristiana. Da una lettera del 1985). E oggi dobbiamo aggiungere: in proporzione a quanto è realisticamente possibile nella condizione storica nella quale ci si trova. Non serve combattere contro i mulini a vento! In un altro testo ebbe a dire: «Solov’ev era anche sicuro che “Tuttavia, dopo una lotta breve e accanita, il partito del male sarà vinto e la minoranza dei veri credenti trionferà completamente” (cfr. Mt 24, 31: “Manderà i suoi angeli… raduneranno tutti i suoi eletti dai quattro venti, da un estremo all’altro dei cieli”). Ma, aggiunge: “La certezza del trionfo definitivo per la minoranza dei credenti non deve condurci a un’attitudine passiva. Questo trionfo non può essere un atto puro e semplice, un atto assoluto dell’onnipotenza di Cristo perché, se così fosse, tutta la storia del cristianesimo sarebbe superflua. È evidente che Gesù Cristo, per trionfare giustamente e ragionevolmente dell’Anticristo, ha bisogno della nostra collaborazione…”» (“L’ammonimento profetico di Vladimir S.~Solov’ev”, esercizi predicati in Vaticano a Benedetto XVI e alla Curia romana, nel 2007). E qual è la nostra parte, oggi? Si deve saper valutare che ci sono momenti, nella storia, nei quali la parte principale tocca a Dio, direttamente, perché noi, ormai ci rendiamo conto di essere divenuti «servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17,10) e ora “il grosso” tocca direttamente al Signore. Penso che anche per noi sarebbe ingenuo e irrealistico non tenere conto di colui contro il quale si combatte la battaglia decisiva e di quali sono i principali soggetti e le forze a noi superiori che sono in campo. Dopo di che ciascuno potrà collocarsi con una vocazione più contemplativa o più attiva, a seconda della sua storia e della sua sensibilità, ma mai con un atteggiamento che dimentichi, nella concretezza, la centralità di Cristo, di Dio Padre Creatore, del Suo Santo Spirito e della “potenza attiva” insita nel pregarlo. Non siamo noi, con le sole nostre forze, a salvare il mondo e la Chiesa («Senza di Me non potete fare nulla», Gv 15,5). La compagnia che cerchiamo di farci, anche nelle occasioni di riunione serva per ricordarcelo sempre e ci sostenga nella fede che illumina e santifica la ragione. -
"La Chiesa dopo Benedetto XVI fra realtà ed utopia" è stato il tema dell’interessante incontro organizzato il 3 marzo 2023 dall’ Università Popolare Molfettese . La serata ha visto un folto pubblico assieparsi nella pur ampia sala “Don Tonino Bello” della parrocchia S. Pio X a Molfetta in provincia di Bari, ha visto protagonisti don Nicola Bux e Aldo Maria Valli, già vaticanista RAI, moderati da Nicola Barile. Non si è trattato di un simposio sul pensiero di papa Benedetto, quanto di una riflessione, a partire dal contributo del suo pensiero, sul bivio in cui si trova la Chiesa attuale, come ricordato dal moderatore: da una parte il realismo, quello metafisico di S. Tommaso d’Aquino, dall’altra la deformazione dell’idea di utopia coniata da S. Tommaso Moro, per giustificare l’imposizione di idee e concetti del mondo contemporaneo. Sia don Nicola, sia il dott. Valli hanno conosciuto Benedetto XVI e ne hanno ricordato entrambi il carattere mite e la profondità del pensiero; la loro interpretazione, tuttavia, diverge circa la valutazione del suo magistero, prima come teologo, poi come papa. Se per Valli Benedetto ha ereditato le tensioni che discendono, secondo lui, dal Concilio Vaticano II, non risolvendole, secondo Bux, invece, Benedetto ha manifestato creatività e originalità, ma sempre sforzandosi di mantenersi nel solco della tradizione cattolica; da qui la sua lettura non traumatica del Concilio, secondo quel principio della vita della Chiesa noto come “ermeneutica della continuità”. Se si pensa ad esempio alla trilogia su Gesù di Nazareth, non sarebbero pertanto il Concilio e le sue interpretazioni il problema della Chiesa attuale, quanto la riduzione della figura di Gesù a maestro di moralità, sostenitore di valori in linea con il mondo contemporaneo, ma inevitabilmente in contrasto con la realtà: si pensi, ad esempio, al mito del pacifismo, smentito dal ricorso, ancora oggi, dell’uomo alla guerra. Entrambi i relatori, tuttavia, hanno concordato in conclusione i rischi dell’attuale fase sinodale, che appiattisce la Chiesa alla sua dimensione burocratica, facendone dimenticare la natura sacramentale. Un dibattito reso breve dai tempi contingentati della serata ha comunque consentito alla partecipata assemblea di evidenziare i dubbi che, evidentemente, questo attuale corso della Chiesa non riesce a fugare.
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Una nuova “scelta religiosa” Recentemente alcuni autori hanno pubblicato articoli e libri, diffusi soprattutto in ambiente cattolico conservatore e tradizionalista, che propongono una soluzione capace di favorire la sopravvivenza della Fede cristiana in una società che sta passando dalla indifferenza alla persecuzione della Chiesa. Questa strategia prevede che la comunità ecclesiale attui una strategia di emergenza compiendo una nuova “scelta religiosa”, dopo quella fatta dall’Azione Cattolica Italiana negli anni 1960-1970. La vecchia “scelta religiosa” spinse il laicato cattolico ufficiale a rinunciare a una specifica azione politica cristiana, al fine di contribuire alla costruzione di una “cristianità profana”, o meglio di una laicista “città dell’Uomo”. Quella scelta causò la sudditanza dei cattolici al progetto “progressista”, la loro irrilevanza politica e la consegna della società civile alle forze rivoluzionarie, come avevano vanamente ammonito intellettuali inascoltati del calibro di Del Noce e Baget-Bozzo. Oggi, i fautori della nuova “scelta religiosa”, pur ammettendo il fallimento di quella vecchia, credono che sia ormai irrealizzabile l’incompiuto progetto – sempre raccomandato dalla Chiesa al laicato militante – di riconquistare la società alla Fede e di restaurare una Cristianità. Pertanto, essi esortano i fedeli a rassegnarsi all’apostasia della secolarizzata società moderna, considerata ormai come persa e irrecuperabile, a rinunciare a riconquistarla a Cristo e a ritirarsi dal “pubblico” al “privato”. Essi propongono che la Chiesa non si ostini più a evangelizzare, o anche solo a risanare, la vita sociale, giuridica e politica delle nazioni, ma anzi eviti prudentemente di compromettersi in questo campo pericoloso rischiando di suscitare ripulse e persecuzioni. Bisogna semmai che la Chiesa si limiti a chiedere al potere laicista di tollerare benevolmente la sopravvivenza della presenza “religiosa” (ossia solo spirituale) cristiana nella sua qualità di umile contributo dato per facilitare il progresso dell’umanità e la tutela della natura. Un preteso “ritorno alle origini” In concreto, questa nuova “scelta religiosa” prevede realizzare una sorta di “ritorno alle origini della Chiesa”. Infatti, si pretende che ormai la Chiesa possa sopravvivere al dominio laicista solo ritornando al (supposto) modo di vita dei primi cristiani, rinunciando a “propaganda” e “proselitismo” (ossia all’apostolato e alla conversione) e limitandosi a un’attività di testimonianza spirituale da tentare solo nel campo personale e familiare, o al massimo locale. Poco dopo la chiusura dell’ultimo Concilio Ecumenico, questa strategia di rinuncia e di ritirata fu proposta da alcuni teologi progressisti moderati, spaventati dalla reazione anticristiana del Sessantotto e preoccupati dalla crescente crisi religiosa. Ad esempio, alcuni aspirarono che la Chiesa, rinunciando a privilegi e poteri, si riduca a una “piccola comunità interiorizzata e semplificata”, al fine di “ricominciare tutto daccapo” (J. Ratzinger, Fede e futuro, Queriniana, Brescia 1971, cap. V). Altri elaborarono addirittura una esplicita “teologia del fallimento”, sostenendo che il fallimento storico della Chiesa ne prova la nobile estraneità al mondo. Analoga soluzione viene oggi proposta al mondo cattolico dai fautori della nuova “svolta religiosa”. Essi esortano a disertare dalla fallimentare guerra in difesa della civiltà cristiana e di ripiegare in una “rivoluzione spirituale” che permetta ai cristiani di diventare “testimoni silenziosi e agenti segreti di Dio” e alla Chiesa di “sopravvivere nel privato” (Chantal Del Sol, La fine della cristianità e il ritorno del paganesimo, Cantagalli, Siena 2022, cap. V). Altri invitano i cristiani a “rifugiarsi in catacombe esistenziali” che permettano di “aprire condizioni di nicchia in terra ostile” (Boni Castellane, In terra ostile, La Verità, Milano 2023, pp. 90 e 125). Inevitabili e insuperabili obiezioni Tuttavia, questo programma di rinuncia, ritirata e nascondimento ecclesiale solleva inevitabilmente obiezioni insuperabili, sia storiche che pastorali che dottrinali. Dal punto di vista storico, la prospettiva “catacombalista” si rifà a una “comunità cristiana primitiva” che sembra tratta da certi romanzi, film e telefilm sentimentali del secolo scorso. Infatti, il rifugiarsi nelle catacombe fu solo un ripiego talvolta imposto da situazioni drammatiche, ma non fu mai concepito come vita ordinaria, tantomeno come modello ecclesiale da imitare. Oltretutto, l’attuale situazione della Chiesa non è paragonabile a quella di allora, se non altro perché Essa rimane erede e custode sia di un resistente prestigio culturale, sia di un cospicuo tesoro dottrinale, liturgico, giuridico, sociale e perfino materiale, che non è possibile nascondere e non è lecito liquidare fallimentarmente, tantomeno abbandonare al nemico. Dal punto di vista pastorale, la scelta “catacombalista” abbandonerà la comunità ecclesiale al crescente potere del nemico e annienterà quei movimenti che tutt’oggi perseverano eroicamente nel difendere ciò che resta della civiltà cristiana attaccata dalla Rivoluzione. Sia l’insegnamento che l’impegno politico-sociale verranno prima ostacolati e poi esclusi, nel timore di suscitare le reazioni dei nemici della Chiesa, perdere la (falsa) pace religiosa e peggiorare le meschine condizioni di sopravvivenza. Pertanto, questo “ritorno alle catacombe” non sarà una ritirata strategica, tentata nella speranza di raccogliere le forze rimaste per poi scagliarle contro gli avversari. Al contrario, essa diventerà una resa al nemico, nella illusione di far sopravvivere una Chiesa intimorita e silenziosa destinata a diventare complice di quelle forze tenebrose alle quali non vuole opporsi. Ciò favorirà la lenta e indolore estinzione di quella testimonianza cristiana che si vorrebbe salvare. Dal punto di vista dottrinale, infine, col pretesto di “tornare all’essenziale” per salvarlo dalla crisi, la scelta “catacombalista” elude i diritti di Dio come Creatore e Legislatore della società, quelli di Cristo come Re dei popoli e quelli della Chiesa come Mater, Magistra et Domina gentium, in particolare il suo insegnamento sociale. Per giunta, questa scelta presuppone una concezione di Dio che tende al deismo, riducendolo a un Essere supremo che non governa il mondo, o almeno che è non è capace d’intervenire risolutamente nella storia contemporanea, per cui Egli abbandona la sua Chiesa al destino di essere vinta e sottomessa al Nemico. Tutto ciò ci conferma una regola: ogni proposta che pretende di giustificare la viltà dei cristiani nel loro arrendersi alla Rivoluzione implica una offesa fatta alla divina Provvidenza e un tradimento della consegna affidata dal divin Redentore alla sua Chiesa: ossia quella d’“insegnare la verità a tutti i popoli”, “porre la fiaccola sopra il moggio” e “predicare il Vangelo sui tetti”, al fine d’“innalzarsi come vessillo tra le nazioni”. A questo tradimento bisogna opporre il coraggio e la tenacia di restare fedeli non solo all’astratta dottrina cattolica ma anche al fattivo impegno dell’azione cristiana di riconquista della società. Ad majorem Dei gloriam (etiam socialem).
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Proseguiamo qui la sintetica presentazione del tracciato del IV capitolo dell’Enciclica Fides et Ratio, frutto del lavoro, svolto in piena sintonia, di san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. II) Seconda parte - La progressiva separazione e contrapposizione tra fede e ragione A partire proprio dal tredicesimo secolo, dagli stessi contemporanei di san Tommaso, si comincerà a comprendere sempre meno la lezione dell’analogia dell’ente e del vero e, in nome di un maggior grado di certezza della conoscenza, ci si concentrerà sempre di più sull’univocità, più facile da comprendere, più agevole da controllare. Questo modo di procedere apparirà addirittura, ad alcuni, come un servizio alla verità, anziché una limitazione, un miglioramento della scienza anziché un suo impoverimento qualitativo. a) Univocità e nominalismo: il ruolo esclusivo della matematica Ma si tratterà di un potenziamento unilaterale di qualche aspetto della razionalità, soprattutto di quella matematica, a scapito degli altri. La ricaduta sulla teologia, della perdita dell’analogia, si farà sentire prima nell’univocità del pensiero protestante, poi nell’esasperazione quasi sofistica di certa tarda Scolastica e infine nella riduzione della stessa teologia a pura narrazione. «Con il sorgere delle prime università, la teologia veniva a confrontarsi più direttamente con altre forme della ricerca e del sapere scientifico. Sant’Alberto Magno e san Tommaso, pur mantenendo un legame organico tra la teologia e la filosofia, furono i primi a riconoscere la necessaria autonomia di cui la filosofia e le scienze avevano bisogno, per applicarsi efficacemente ai rispettivi campi di ricerca. A partire dal tardo Medio Evo, tuttavia, la legittima distinzione tra i due saperi si trasformò progressivamente in una nefasta separazione. A seguito di un eccessivo spirito razionalista, presente in alcuni pensatori, si radicalizzarono le posizioni, giungendo di fatto a una filosofia separata e assolutamente autonoma nei confronti dei contenuti della fede. Tra le altre conseguenze di tale separazione vi fu anche quella di una diffidenza sempre più forte nei confronti della stessa ragione. Alcuni iniziarono a professare una sfiducia generale, scettica e agnostica, o per riservare più spazio alla fede o per screditarne ogni possibile riferimento razionale. Insomma, ciò che il pensiero patristico e medievale aveva concepito e attuato come unità profonda, generatrice di una conoscenza capace di arrivare alle forme più alte della speculazione, venne di fatto distrutto dai sistemi che sposarono la causa di una conoscenza razionale separata dalla fede e alternativa ad essa» (n. 45). Gradualmente quegli aspetti della razionalità, che prima era concepita analogicamente, verranno a contrapporsi anziché integrarsi: ciò che prima era riconosciuto come, in certa misura, reale (l’universale) sarà considerato un puro nome (nominalismo). Il sapere passerà, un po’ alla volta, da una struttura organica e analogica ad una struttura univoca e dialettica: contrapposizione in luogo della integrazione dei diversi gradi di perfezione. b) Il pensiero moderno e contemporaneo L’enciclica continua, poi, la sua lettura della storia del pensiero occidentale riferendosi, allo sviluppo del pensiero filosofico e scientifico moderno e contemporaneo fino ai nostri giorni. «Le radicalizzazioni più influenti sono note e ben visibili, soprattutto nella storia dell’Occidente. Non è esagerato affermare che buona parte del pensiero filosofico moderno si è sviluppato allontanandosi progressivamente dalla Rivelazione cristiana, fino a raggiungere contrapposizioni esplicite. Nel secolo scorso, questo movimento ha toccato il suo apogeo. Alcuni rappresentanti dell’idealismo hanno cercato in diversi modi di trasformare la fede e i suoi contenuti, perfino il mistero della morte e risurrezione di Gesù Cristo, in strutture dialettiche razionalmente concepibili. A questo pensiero si sono opposte diverse forme di umanesimo ateo, elaborate filosoficamente, che hanno prospettato la fede come dannosa e alienante per lo sviluppo della piena razionalità. Non hanno avuto timore di presentarsi come nuove religioni formando la base di progetti che, sul piano politico e sociale, sono sfociati in sistemi totalitari traumatici per l’umanità. Nell’ambito della ricerca scientifica si è venuta imponendo una mentalità positivista che non soltanto si è allontanata da ogni riferimento alla visione cristiana del mondo, ma ha anche, e soprattutto, lasciato cadere ogni richiamo alla visione metafisica e morale. La conseguenza di ciò è che certi scienziati, privi di ogni riferimento etico, rischiano di non avere più al centro del loro interesse la persona e la globalità della sua vita. Di più: alcuni di essi, consapevoli delle potenzialità insite nel progresso tecnologico, sembrano cedere, oltre che alla logica del mercato, alla tentazione di un potere demiurgico sulla natura e sullo stesso essere umano» (n. 46) A questo punto, ormai, il processo ha invertito del tutto il suo senso di marcia. Si cerca: i) da un lato di estrapolare alcune categorie teologiche cristiane svincolandole dalla Rivelazione (considerata come un supporto mitologico surrettizio) e trapiantandole in sistemi filosofici sostanzialmente non più cristiani; ii) dall’altro di rimuovere anche i fondamenti puramente filosofici che sono serviti all’elaborazione di una teologia come scienza. Ma una simile operazione non poteva non finire per demolire anche gli elementi indispensabili alla ragione filosofica come tale. Così quest’ultima si è gradualmente trovata senza un fondamento su cui basarsi per poter procedere. «Come conseguenza della crisi del razionalismo ha preso corpo, infine, il nichilismo. Quale filosofia del nulla, esso riesce ad esercitare un suo fascino sui nostri contemporanei. I suoi seguaci teorizzano la ricerca come fine a se stessa, senza speranza né possibilità alcuna di raggiungere la meta della verità. Nell’interpretazione nichilista, l’esistenza è solo un’opportunità per sensazioni ed esperienze in cui l’effimero ha il primato. Il nichilismo è all’origine di quella diffusa mentalità secondo cui non si deve assumere più nessun impegno definitivo, perché tutto è fugace e provvisorio» (n. 46). E ancora: «Non è da dimenticare, d’altra parte, che nella cultura moderna è venuto a cambiare il ruolo stesso della filosofia. Da saggezza e sapere universale, essa si è ridotta progressivamente a una delle tante province del sapere umano; per alcuni aspetti, anzi, è stata limitata a un ruolo del tutto marginale. Altre forme di razionalità si sono nel frattempo affermate con sempre maggior rilievo, ponendo in evidenza la marginalità del sapere filosofico. Invece che verso la contemplazione della verità e la ricerca del fine ultimo e del senso della vita, queste forme di razionalità sono orientate – o almeno orientabili – come ragione strumentale al servizio di fini utilitaristici, di fruizione o di potere» (n. 47). Ai nostri giorni sembra essere ormai completa la parabola discendente, descritta nella seconda parte e si apre, come si è rilevato in precedenza, il problema di una rimessa a punto delle basi della razionalità, resasi urgente sia dal punto di vista esterno (problema delle conseguenze sulla vivibilità della società) che da quello interno (problema dei fondamenti della razionalità). È questo il quadro in cui oggi si viene a collocare il “problema dei fondamenti”: ciò che, a prima vista potrebbe apparire solo una questione per gli specialisti della filosofia delle scienze, si rivela essere, in realtà quello ben più profondo dei fondamenti metafisici della stessa razionalità della realtà e della conoscenza, e la condizione stessa della vivibilità della esistenza personale e sociale dell’essere umano. la prima parte disponibile qui
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In una società ancorata ad un pragmatismo materialistico hanno senso gli ideali nella convivenza umana ispirati a modelli di società o personaggi storici esemplari in termini etici? La cultura attuale afferma l’ideale secondo criteri personalistici di successo e di affermazione sociale con richiami narcisistici ed egocentrici. Svelare l’inganno di una propaganda mediatica è un compito arduo ma doveroso per il riscatto di una umanità in cui l’essere umano possa credere ed esercitare una “Perfetta filantropia”. Il divenire dell’essere umano si manifesta nella storia in un percorso controverso di afflizioni, gioie e dolori, così da rendere significativo il valore della propria esistenza in termini di maturazione e possibilmente di saggezza. Le vicende liete e nefaste si ripercuotono nella persona per forgiare il temperamento quanto possa essere orientato alle mete della realizzazione del propri sogni e ideali. Il tempo assume una importanza innegabile nel compimento della crescita personale per consolidare l’esperienza, risorsa da cui attingere l’insegnamento per giungere ad un adeguata capacità di giudizio di fronte alle scelte da effettuare nella realtà. La realtà nella quale l’uomo ha sempre dovuto confrontarsi è circoscritta dai confini delle proprie ambizioni e possibilità oltre i quali ha sperimentato i propri limiti che hanno da sempre motivato la propria inquietudine proiettata in una dimensione in cui la sublimazione degli ideali scaturisce dall’ingannevole esaltazione dei miti. Resta nei confini dell’immaginario il fascino del mito a cui l’uomo può sentirsi attratto per dedicare particolare attenzione e rappresentare un mondo confacente ai propri bisogni interiori appagabili nell’ambito della propria convivenza sociale sul piano materiale o spirituale. Il mito è concepibile in termini essenziali come un evento esemplarmente idealizzato in corrispondenza di una carica di eccezionale e diffusa partecipazione fantastica o religiosa. L’ideale al quale l’uomo può suscitare particolare interesse è sempre in rapporto col proprio ambiente portatore di opportunità per la propria affermazione. Vale a questo punto citare l’esempio della così detta età classica quando Atene, grazie ad alcuni grandi uomini come Efialte e Pericle, elaborò una costituzione democratica a carattere diretto che rimase modello di perfezione in tutti i tempi: per essa sostanzialmente qualsiasi cittadino, anche il meno abbiente, poteva raggiungere le massime cariche pubbliche e teoricamente, almeno una volta nella sua vita, aspirare alla presidenza dello Stato per la durata di ventiquattro ore. A tal punto resta pertanto l’incognita di una società idonea a recepire gli ideali elevati dell’uomo. Il mito della società perfetta ha ispirato le varie ideologie: impostate alla pretesa di plasmare l’essere umano secondo criteri dogmatici lontani da una concezione naturalistica e umanitaria. Le tragedie del novecento hanno fatto naufragare i miti delle ideologie in utopie. Il confine sul quale la religione contrasta il mito è il richiamo alla sacralità della vita in una visione escatologica, che può influire in modo notevole sulla visione del mondo e la condotta costante dell’essere umano. L’ideale della società perfetta avrà i meriti di una convivenza fondata su valori prettamente spirituali esenti da impostazioni esaltanti di personalismi ed egocentrismi che sottendono ingannevoli ideali. Il vero ideale illumina la dignità umana degno di apprezzamento nella inclinazione disinteressa alla promozione umana quando si presentano ostacoli in una società a misura d’uomo quali la povertà, l’ingiustizia, la discriminazione, la violenza, la prevaricazione. Qual è il nodo cruciale della percezione ideale dell’uomo se non la concezione etica della perfezione. Secondo Parsifal, cavaliere della Tavola rotonda “L’ideale dell’uomo nuovo deve essere: un cuore puro come un cristallo, una mente chiara come il Sole, un’anima ampia come l’Universo, uno spirito come Dio e uno con Dio! » Al di là tali simbolismi l’ideale umano secondo la concezione etica quindi rispecchia la figura della perfezione. Etica Il problema dell’etica della perfezione non consiste nel determinare se l’uomo sia perfetto ma se dovrebbe esserlo e in che modo. Secondo Platone il concetto fondante nel suo pensiero corrisponde alla perfezione: supponeva che avvicinarsi all’idea della perfezione rende perfette le persone. Gli storici attribuirono al concetto di perfezione il significato di armonia a cui tutti gli uomini potevano giungere introducendo una massima filosofica che nella cristianità divenne un valore religioso. La dottrina cristiana della perfezione è riscontrabile nei Vangeli. Il Vangelo di S. Matteo riporta il richiamo: "Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste" (Mt 5,48). Una simile raccomandazione è presente nel Vangelo di S. Luca in cui il termine “perfetti” viene sostituito da “caritatevoli” Una particolare citazione meritano un nutrito numero di scritti cristiani. Diversi scritti di San Paolo presentano richiami alla perfezione. Altri sono contenuti in un discorso di Sant’Agostino De perfectione iustitiae hominis. Essi sono però presenti anche nel Vecchio Testamento: "Tu sarai irreprensibile verso il Signore tuo Dio" (Deuteronomio 18:13). Sant’Agostino afferma che l’uomo perfetto non è l’uomo senza peccato ma una persona decisa a raggiungere la perfezione. In riferimento al concetto di perfezione la Sacra scrittura espone dubbi sulla possibilità dell’uomo a raggiungere la perfezione. In diverse fonti la perfezione è tradotta nei termini di incensurato, immacolato, senza difetti, senza peccato, santo, virtuoso. Se per gli antichi filosofi il valore intrinseco della perfezione riguardava l’armonia, per il Vangelo e i teologi cristiani riguardava l’amore o la carità. Citando quanto affermato da Egidio Romano la perfezione non ha solo fonti personali ma anche sociali. Sapendo che l’individuo si forma nella società, nella condizione sociale risiede quella personale. La perfezione sociale è vincolante per l'uomo, mentre quella personale è per lui solo confacente. Il condensato del messaggio evangelico riporta in sé il valore della sapienza nella quale risiede la lungimirante prospettiva della meta cristiana da realizzare nell’ideale di perfezione della Santità.
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Son passati 75 anni dalla Mediator Dei, pubblicata il 20 novembre 1947, dal Venerabile Pio XII: il documento dottrinale più importante sulla liturgia prima del concilio Vaticano II, senza del quale la Costituzione sulla sacra liturgia, emanata solo sedici anni dopo, il 4 dicembre 1963, non si comprende appieno. Ne è la fonte principale, quanto ad impostazione classica e a contenuti dottrinali, e un termine di paragone con le istanze antiche e nuove della liturgia[…]. La riforma liturgica, secondo Pio XII, risulta dunque dalla necessità delle cose, perché la liturgia stessa è una forma che continuamente tende a ri-formarsi nel senso dello sviluppo organico. Gli abusi non possono metterla in dubbio; perciò egli rammenta che “per tutelare la santità del culto contro gli abusi” esiste la Congregazione dei Riti. La liturgia è manifestazione della Chiesa corpo e Capo, organismo che produce energie sempre nuove pur conservando la sua forma fondamentale. Tutto questo sarà ribadito dalla Costituzione liturgica (cfr n 21)[…]. Va tenuto presente quanto il cardinal Robert Sarah, prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, ha affermato in proposito: “Lungi dal riguardare solamente la questione giuridica dello statuto dell'antico Messale Romano, il Motu proprio pone la questione dell'essenza stessa della liturgia e del suo posto nella Chiesa. Ciò che è in causa è il posto di Dio, il primato di Dio. Come sottolinea il "papa della liturgia"(ndr Benedetto XVI): "Il vero rinnovamento della liturgia è la condizione fondamentale per il rinnovamento della Chiesa"[…] Ecco la vera e profonda ragione sottesa al Summorum Pontificum: rispondere in maniera più adatta ed efficace all’esigenza spirituale e pastorale di quanti, pur tributando il giusto ossequio e la giusta obbedienza a quanto stabilito dal Concilio Ecumenico Vaticano II, scossi e perplessi a causa delle “deformazioni” liturgiche che si verificarono nell’immediato post-Concilio - ed a cui ancora oggi siamo costretti in molti casi ad assistere - trovavano e trovano nella forma liturgica precedente il modo più adeguato e fruttuoso per coltivare il loro rapporto con Dio[…]. Mediator Dei e Summorum Pontificum costituiscono il rimedio ad una concezione della liturgia privata della Presenza Divina, perché dinanzi all’archeologismo, alle deformazioni e agli abusi, riaffermano il diritto liturgico, quale tutela dei diritti di Dio nel culto[…]. Lo studio e il dibattito sul primato dello ius divinum mi sembra essenziale per favorire la riforma della liturgia secondo la Costituzione conciliare compresa nel contesto della tradizione cattolica e porre fine al relativismo liturgico[…]. Si deve constatare che nella liturgia nuova, non di rado sembra come se in essa Dio non c’è: è venuta meno la riverenza e il sacro, in una parola l'adorazione, perché non si è più consapevoli di stare alla presenza divina. Non si glorifica primariamente Dio, di conseguenza l'uomo non è santificato e il mondo non è “consacrato”. Basilio ricorda: “Tutto ciò che ha un carattere sacro è da lui – lo Spirito – che lo deriva”. Ecco che la riforma deve cominciare dalla rinascita del sacro nei cuori e parallelamente del timore di Dio[…] Di qui deve cominciare la riforma della riforma: “dalla presenza del sacro nei cuori, la realtà della liturgia e il suo mistero”. Un mistero che ha bisogno di spazio interiore ed esteriore. Joseph Ratzinger scriveva: «Questa, credo, è la prima cosa: sconfiggere la tentazione di un fare dispotico, che concepisce la liturgia come oggetto di proprietà dell'uomo, e risvegliare il senso interiore del sacro. Il secondo passo consisterà nel valutare dove sono stati apportati tagli troppo drastici, per ripristinare in modo chiaro e organico le connessioni con la storia passata. Io stesso ho parlato in questo senso di “riforma della riforma”. Ma, a mio avviso, tutto ciò deve essere preceduto da un processo educativo che argini la tendenza a mortificare la liturgia con invenzioni personali».[…] Nella comprensione del concilio Vaticano II e della riforma liturgica, è dunque fallita “l’ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto Chiesa”, che egli argomentò con spirito critico ma costruttivo, con i discorsi alla Curia Romana (22 dicembre 2005) e ai sacerdoti romani nel febbraio 2013? No, a mio modesto avviso, se non porremo ostacoli ai rimedi fin qui accennati, che stanno emergendo dal basso e dall’Alto: assecondiamoli con devozione e carità! San Carlo Borromeo, grande riformatore, era convinto che la Chiesa ha al suo interno le energie per rigenerarsi. Se taluni che la criticano, ritengono che la Chiesa troverà proprio da questa profonda crisi di fede uno sprone per rinnovarsi e purificarsi, allora non sostengano “l’ermeneutica della discontinuità e della rottura”, con la delegittimazione del concilio e del Novus Ordo, abbandonino posizioni pregiudiziali e oltranziste, quel radicalismo deleterio che finisce per dare ragione a quanti contrappongono due ecclesiologie, mettendo così in difficoltà tanti vescovi, sacerdoti e fedeli che, dopo gli ultimi documenti pontifici, non hanno cambiato il loro atteggiamento. Uno degli effetti, se non il più pernicioso, della negazione dell’ermeneutica della continuità e che certe posizioni estreme, radicali, finiscano poi per darsi idealmente la mano. Persistiamo invece con realismo, nel pensiero cattolico. E’ in movimento una nuova generazione: è un fiume sotterraneo che, con la pazienza dell’amore (cfr 1 Cor 13) sta riaffiorando, e vincerà. Il video e il testo completo della relazione disponibili qui e qui N.Bux - Dalla Mediator Dei 16 settembre 2022.docx
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Saper percepire cosa potrà succedere nella nostra santa Chiesa credo sia prerogativa dei Santi. Ma i rischi che si corrono ( certamente discutibili…) son percepibili anche da osservatori sensibili. 1°punto -Un rischio per un cattolico in questo XXI secolo è di sentirsi …“ poco coraggioso” e anziché impegnarsi a “fecondare “il mondo anche, o meglio, proprio oggi, in queste condizioni, secondo le aspettative di Gesù Cristo, accetti a scatola chiusa la profezia di prevedere di ridursi a “piccolo gregge” (molto molto creativo però …) 2°punto- Certo non è facile vivere la propria fede esemplarmente in modo di contagiare e fare apostolato, quando ci si sente obiettare che ciò che si propone, per evangelizzare, non è “esattamente” quello che dicono e scrivono i massimi responsabili della Chiesa ( la Gerarchia), facendo perdere credibilità apostolica e crescendo persino i dubbi a chi pretende di aver capito meglio dei Capi ( la Gerarchia) ciò che voleva il Fondatore della Chiesa. Ma chi avrà ragione ? 3°punto- Altro rischio conseguente sta nei contrasti comportamentali, tra cattolici più ortodossi ( più rigidi ? ) e più progressisti ( più permissivi ? ) verso il concetto di peccato. Ciò grazie al divario tra ideali spirituali e reali ( ci son tentazioni cui non si può resistere ?). In economia c’è una legge , la Legge di Gresham , che dice che la moneta cattiva scaccia quella buona. Vuoi vedere che la legge di Gresham si può applicare anche in materia religiosa sospettando che la morale cattiva scacci quella buona? Risultato potrebbe essere eccessiva relativizzazione della morale. Conclusione: prospettive poco ottimistiche, contrasti nella evangelizzazione, relativizzazione della morale. Si deve riflettere come avrebbe fatto S.Tommaso ( se ci ricordiamo ancora chi è e cosa ha scritto). Cartesio, dopo quattro secoli, sarebbe soddisfatto (certo non solo lui …), di come si sta finalmente riorganizzando la dottrina cattolica spirituale, in dottrina pratica di etica sociale. Il pontefice del Positivismo, Augusto Comte , dopo poco meno di due secoli, sarebbe altrettanto, o più, soddisfatto di aver ben profetizzato chi sarebbero stati i grandi riformatori di detta dottrina . Ogni cultura ha vissuto negli ultimi cinque secoli il processo di laicizzazione del sacro , ma in modo diverso , sapendo conservarlo, ridurlo o perderlo. Dopo l’illuminismo in Francia si assistette ad un rapido processo di "decristianizzazione". Nel Regno Unito, invece, di secolarizzazione della cultura. In Italia, dove la Chiesa cattolica apostolica romana è nata, vissuta e espansa nel mondo tutto, in più fasi e tempi, si è assistito ad un processo molto diverso, più lento e progressivo, poi accelerato, di destrutturazione . Questo processo si è realizzata in modo assolutamente originale e specifico, che solo poteva esser concepito per la Chiesa di Cristo, essendo la Chiesa l’unica autorità morale al mondo strutturata secondo un modello di gestione assoluto e accentrato in una sola persona. Vorrei sottolineare questo punto: solo il Papa può essere infallibile ( in materia di fede e morale ) , è un Dogma ( Concilio Vaticano I -18luglio 1870) . Conseguenza ? L’effetto specifico oggi, nel mondo cattolico, sembra essere di “confusionalizzazione” su cosa sta accadendo e perché , con conseguente confusione sulla obbedienza, a chi e su cosa. I cattolici sembrerebbero oggi trovarsi su una linea di confine ( borderline ), cercando di capire se e come adeguarsi al nuovo ordine dottrinale percependo la fine del vecchio ordine . In molti son convinti che la civiltà cristiana sia morta e sepolta e si debba pertanto spegnere la luce, altri son già disposti e pronti alla riconversione a funzionari di una onlus che si occupa di sociale, altri ancora stanno pensando al ritorno nelle catacombe. Ma il pensare di doversi rassegnare a ridursi a “piccolo gregge”, più o meno creativo, e pertanto rifiutarsi di pensare che Dio si sia incarnato, sia stato crocefisso e risorto, e 2000 anni dopo debba congratularsi per questa scelta coraggiosa di diventare piccolo gregge creativo, dovrebbe pretendere una riflessione attenta ( appunto tomistica). Non solo perché questo piccolo gregge non inciderebbe in quasi nulla e in nessun posto e per chissà quanti secoli, ma considerando anche che questo piccolo gregge, in questi tempi transumanisti, potrebbe anche esser identificato come una “setta” pericolosa da tener sotto osservazione , se non peggio… . Il Grande Joseph Ratzinger lo spiegò profetizzandolo, è vero, ma nel lontano 1969, a fine Vaticano II, quando non era ancora Arcivescovo. Forse aveva ragione e le ragioni che adduceva sulla crisi in atto sono condivisibili, certo potrà risorgere una chiesa della fede, ma nel frattempo ? Alla umanità chi racconterà la buona novella ? E qui vorrei proporre una riflessione . Anche la Chiesa, alla fine, è un mezzo, sacro perché voluto da GesùCristo, sacro perché è il mezzo di Redenzione, ma non è la Chiesa il Fine . Ma se la Chiesa è un mezzo, anziché cambiarlo, o attendere che cambi , non è più logico riferire la proprie attenzioni a chi lo utilizza e potrà utilizzarlo? Questa riflessione vale per ogni considerazione su mezzi, fini e utilizzo dei mezzi per raggiungere un fine. Ma qui stiamo parlando di un fine ultimo :la salvezza. Negli ultimi tempi gli errori fatti all’interno della Chiesa non son stati pochi . Il rifiuto della scolastica e del tomismo probabilmente è stato uno dei più importanti . Se non si capisce cosa conta e non si difende ciò cui si crede si è destinati a perderlo e pertanto vivere di riserve spirituali accumulate in precedenza e poi di scuse e giustificazioni. Senza le sue fondamenta continuamente rinforzate la civiltà decade ,si corrompe inevitabilmente , perde la visione d’insieme naturale e soprannaturale, immanente e trascendente, perde la certezza del valore del libero arbitrio accettando un determinismo scientista, perde il valore delle opere legate alla fede e permette a utopie di affermarsi, nella dichiarata capacità di valorizzare e persino salvare l’uomo. Perdendo anche la speranza e confondendo pertanto la certezza di “che fare “ . Per decidere ciò che è opportuno fare, si rifletta secondo san Tommaso - Aristotelico .
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Per un cattolico la fede è il compimento della razionalità e la ragione è il terreno naturale sul quale poggiare le basi della fede. Il cap.IV dell'Enciclica Fides et ratio, promulgata da Giovanni Paolo II nel 1998, non senza l'apporto dell'allora card.Joseph Ratzinger, viene proposto al nostro approfondimento dal reverendo professor Alberto Strumia. Nella ricorrenza di san Tommaso d'Aquino, dottore della Chiesa (28 gennaio), costituisce una lettura davvero magistrale della storia del rapporto fede/ragione nei secoli della cultura cristiana – che un cattolico non deve ignorare, se non vuole finire per ripetere i luoghi comuni del pensiero dominante – indicando un “metodo” utile anche per il nostro presente “lavoro culturale”. L’enciclica Fides et Ratio di san Giovanni Paolo II – frutto della stretta sintonia di pensiero e di operatività tra san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, recentemente transitato al Cielo – è tra i documenti ecclesiali più censurati e meno conosciuti. Mentre essa offre nel suo quarto capitolo una lettura davvero magistrale della storia del rapporto fede/ragione nei secoli della cultura cristiana – che un cattolico non deve ignorare, se non vuole finire per ripetere i luoghi comuni del pensiero dominante – indicando un “metodo” utile anche per il nostro presente “lavoro culturale”. Per un cattolico la fede è il compimento della razionalità e la ragione è il terreno naturale sul quale poggiare le basi della fede (credo ut intelligam, intelligo ut credam). Ogni contrapposizione è ingannevole: «Voi attaccaste la ragione. Questa è cattiva teologia», rispose il P. Brown di Chesterton al falso prete, il ladro Flambeau, smascherandolo. L’enciclica, in quel capitolo, focalizza le tappe fondamentali della storia dell’incontro di fede e ragione. – Nella prima parte del capitolo, si indicano i passaggi che sono stati maturati in vista della costituzione dello spazio teorico che ha reso pensabile il cristianesimo, fino all’elaborazione di una disciplina teologica sistematica. – Nella seconda parte si individuano le tappe del processo inverso che ha visto la progressiva separazione tra fede e ragione, fino alla disgregazione della stessa razionalità filosofica. Questa lettura di un percorso storico ha la funzione – di documentare un metodo di elaborazione culturale (nella prima parte) e – di indicare i punti nodali problematici che oggi vanno sbloccati (nella seconda parte) sia per l’utilità della fede, che per il recupero di una pienezza della razionalità come tale. * * * I) Prima parte - Il cammino comune di fede e ragione a) La liberazione della religione dal mito e la sua fondazione filosofica Innanzitutto l’enciclica evidenzia come nel corso della storia del pensiero, prima ancora della rivelazione cristiana, sia stato necessario compiere un passo preliminare, fondamentale per costruire la stessa razionalità dimostrativa: si tratta del passaggio dal mito alla filosofia. «Uno degli sforzi maggiori che i filosofi del pensiero classico operarono, infatti, fu quello di purificare la concezione che gli uomini avevano di Dio da forme mitologiche. Come sappiamo, anche la religione greca, non diversamente da gran parte delle religioni cosmiche, era politeista, giungendo fino a divinizzare cose e fenomeni della natura. Fu compito dei padri della filosofia far emergere il legame tra la ragione e la religione. Allargando lo sguardo verso i principi universali, essi non si accontentarono più dei miti antichi, ma vollero giungere a dare fondamento razionale alla loro credenza nella divinità. Si intraprese, così, una strada che, uscendo dalle tradizioni antiche particolari, si immetteva in uno sviluppo che corrispondeva alle esigenze della ragione universale. Il fine verso cui tale sviluppo tendeva era la consapevolezza critica di ciò in cui si credeva. La prima a trarre vantaggio da simile cammino fu la concezione della divinità. Le superstizioni vennero riconosciute come tali e la religione fu, almeno in parte, purificata mediante l’analisi razionale. Fu su questa base che i Padri della Chiesa avviarono un dialogo fecondo con i filosofi antichi, aprendo la strada all’annuncio e alla comprensione del Dio di Gesù Cristo» (n. 36). b) La costruzione dello spazio teorico per pensare il cristianesimo Giunti alle origini del cristianesimo la fede ha cercato di fondare la sua credibilità teoretica innanzitutto utilizzando gli strumenti della logica dimostrativa e della filosofia. Il primo lavoro da compiere, per garantire credibilità alla fede, riguardava la necessità di dimostrare la non contraddittorietà logica del contenuto della Rivelazione, la sua non irrazionalità e, anzi, la sua piena razionalità. E questo è stato uno dei compiti fondamentali degli Apologisti a partire dal secondo secolo cristiano. Il contenuto della Rivelazione può oltrepassare – e di fatto in alcuni dei suoi contenuti oltrepassa – le capacità della ragione di raggiungerlo da sola, ma non può essere accusato di essere contro le regole della logica e quindi ridicolizzato e screditato. Un secondo compito, più durevole nel tempo e impegnativo, ha richiesto il lungo lavoro di rielaborazione delle stesse categorie filosofiche per ampliarne la capacità di contenere, fino a poter accogliere, senza eccessive limitazioni, la ricchezza concettuale della Rivelazione che andava oltre ciò che il filosofo da solo poteva elaborare. «Nella storia di questo sviluppo è possibile, comunque, verificare l’assunzione critica del pensiero filosofico da parte dei pensatori cristiani. Tra i primi esempi che si possono incontrare, quello di Origene è certamente significativo. Contro gli attacchi che venivano mossi dal filosofo Celso, Origene assume la filosofia platonica per argomentare e rispondergli. Riferendosi a non pochi elementi del pensiero platonico, egli inizia a elaborare una prima forma di teologia cristiana. Il nome stesso, infatti, insieme con l’idea di teologia come discorso razionale su Dio, fino a quel momento era ancora legato alla sua origine greca. Nella filosofia aristotelica, ad esempio, il nome designava la parte più nobile e il vero apogeo del discorso filosofico. Alla luce della Rivelazione cristiana, invece, ciò che in precedenza indicava una generica dottrina sulle divinità venne ad assumere un significato del tutto nuovo, in quanto definiva la riflessione che il credente compiva per esprimere la vera dottrina su Dio. Questo nuovo pensiero cristiano che si andava sviluppando si avvaleva della filosofia, ma nello stesso tempo tendeva a distinguersi nettamente da essa. La storia mostra come lo stesso pensiero platonico assunto in teologia abbia subito profonde trasformazioni, in particolare per quanto riguarda concetti quali l’immortalità dell’anima, la divinizzazione dell’uomo e l’origine del male» (n. 39). Tutto questo lavoro ha significato la creazione dello spazio teorico per rendere pensabile il cristianesimo nel quadro storico-culturale del tempo. E quindi vivibile, a pieno titolo, nella società di allora. Basti pensare alla straordinaria opera di messa a punto di un linguaggio adatto ad esprimere i contenuti teologici e filosofici della Rivelazione, formulati prima nella lingua greca, poi ripensati e tradotti in quella latina. L’esempio più formidabile di ampliamento di significato è offerto, quasi sicuramente, da una parola come persona, che dal significato pagano originario di maschera teatrale è giunto ad indicare la persona umana, come ancora oggi la intendiamo, e addirittura le persone divine nella Trinità. c) I Padri della Chiesa e il confronto tra la filosofia greca e la visione contenuta nella Rivelazione Un passo ulteriore fu quello di non limitarsi solamente a mostrare la non contraddittorietà dei contenuti della Rivelazione (primo passo), né di accontentarsi di creare uno spazio teorico per la pensabilità di quei contenuti (secondo passo), ma di mostrare addirittura la superiorità della concezione cristiana della realtà (mondo, uomo, Dio) rispetto alle filosofie, riconoscendo nel contempo quelli che erano gli elementi comuni. Il cristianesimo viene concepito, oltre che come avvenimento storico dell’Incarnazione e della Redenzione, anche come portatore della vera filosofia. «Proprio qui si inserisce la novità operata dai Padri. Essi accolsero in pieno la ragione aperta all’assoluto e in essa innestarono la ricchezza proveniente dalla Rivelazione. L’incontro non fu solo a livello di culture, delle quali l’una succube forse del fascino dell’altra. […] Oltrepassando il fine stesso verso cui inconsapevolmente tendeva in forza della sua natura, la ragione poté raggiungere il sommo bene e la somma verità nella persona del Verbo incarnato. Dinanzi alle filosofie, i Padri non ebbero tuttavia timore di riconoscere tanto gli elementi comuni quanto le diversità che esse presentavano rispetto alla Rivelazione. La coscienza delle convergenze non offuscava in loro il riconoscimento delle differenze» (n. 41). Con sant’Agostino, nel quarto secolo cristiano, questa opera di elaborazione e sistematizzazione teologica, fondata sulla rielaborazione della tradizione platonica, raggiunge un vertice che sarà un punto di riferimento per i teologi successivi. d) La Scolastica e la teologia come scienza «Con la Scolastica, e in particolare con sant’Alberto Magno e specialmente con san Tommaso, viene addirittura compiuta la fondazione e la messa a punto di una teologia come scienza, dimostrativa e totalmente sistematica, basata sulla rielaborazione della filosofia aristotelica, ma non senza includere alcuni elementi importanti della tradizione platonica (soprattutto quelli provenienti dallo Pseudo-Dionigi e la dottrina della partecipazione). Più radicalmente, Tommaso riconosce che la natura, oggetto proprio della filosofia, può contribuire alla comprensione della rivelazione divina. La fede, dunque, non teme la ragione, ma la ricerca e in essa confida. Come la grazia suppone la natura e la porta a compimento, così la fede suppone e perfeziona la ragione. Quest’ultima, illuminata dalla fede, viene liberata dalle fragilità e dai limiti derivanti dalla disobbedienza del peccato e trova la forza necessaria per elevarsi alla conoscenza del mistero di Dio Uno e Trino. Pur sottolineando con forza il carattere soprannaturale della fede, il Dottore Angelico non ha dimenticato il valore della sua ragionevolezza; ha saputo, anzi, scendere in profondità e precisare il senso di tale ragionevolezza. La fede, infatti, è in qualche modo esercizio del pensiero; la ragione dell’uomo non si annulla né si avvilisce dando l’assenso ai contenuti di fede; questi sono in ogni caso raggiunti con scelta libera e consapevole» (n. 43). La chiave di volta, dal punto di vista logico-metafisico, di tutto l’impianto sistematico di Tommaso sta nella dottrina dell’analogia-partecipazione che permette alla ragione di compiere due grandi passi: i) innanzitutto quello di riconoscere modi e gradi di perfezione differenziati nella realtà (ente), nella sua conoscibilità (vero), nel suo essere desiderabile e amabile (bene), nell’organicità del suo essere un tutto (uno); ii) e insieme quello di elevarsi dall’esperienza dei gradi materiali e sensibili dell’essere alla conoscenza, pur limitata, ma vera, dei livelli superiori non immediatamente e adeguatamente conoscibili, ma neppure del tutto inaccessibili. E sembrano proprio questi i nodi verso i quali le scienze più avanzate paiono oggi, pur se ancora timidamente, aspirare nella loro ricerca di fondamenti. (segue)
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È un testo molto bello su Benedetto XVI, utile anche per i lettori italiani. Gabriele Kuby è cattolica. Tra tutto quello che abbiamo letto, sembra il più bello, più sincero e chiaro. Traduzione automatica (deepl.com) di seguito. Per me è sempre stato chiaro che sarei andata a Roma per i funerali di Papa Benedetto XVI. Volevo dare l'ultimo saluto al più grande spirito del nostro tempo, esprimere la mia gratitudine e dire addio nella mia anima partecipando ai rituali di morte. Joseph Ratzinger aveva sempre tenuto la mano su di me. "Grazie a Dio, lei parla e scrive", mi aveva detto quando mi era stato permesso di mettere nelle sue mani il mio libro La rivoluzione sessuale globale, la distruzione della libertà in nome della libertà, in Piazza San Pietro nel 2012 - che grande dono in un momento in cui tutti coloro che si battono per ciò che è vero e buono sono sotto tiro, nessuno più di Joseph Ratzinger/Papa Benedetto XVI. Ero anche a Roma quando Giovanni Paolo II fu sepolto sotto l'egida del suo fedele servitore Joseph Ratzinger, allora decano del Collegio cardinalizio. Che giorni luminosi per la Chiesa, quando due milioni di persone hanno dato l'addio al Papa polacco e il mondo ha ascoltato i grandi sermoni del cardinale Ratzinger e, undici giorni dopo, lo ha accolto come nuovo Papa sulla loggia della Basilica di San Pietro. Qui c'era una persona che aveva dato tutta la sua vita, i suoi doni spirituali insuperabili, il suo cuore di fede infantile al servizio di Dio e della sua Chiesa. Più volte ha rinunciato a seguire il proprio progetto di vita e a contribuire alla storia intellettuale come studioso di teologia e filosofia. Non volle diventare vescovo di Monaco Frisinga (1977), né prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede (1981 - 2005). Per tre volte aveva presentato le sue dimissioni, per tre volte gli erano state rifiutate da Papa Giovanni Paolo II. Era sicuro, ci ha detto in questi giorni a Roma il cardinale Koch, che il Papa appena eletto non avrebbe potuto rifiutare la sua richiesta, non sospettando che lui stesso sarebbe stato quel Papa. Joseph Ratzinger desiderava tutt’altro che diventare Papa. Quando il cardinale Meisner gli chiarì che l'elezione sarebbe toccata a lui e che avrebbe dovuto accettare l'elezione, divenne quasi categorico. Desiderava finalmente scrivere libri nella sua modesta casa di Pentling, vicino a Ratisbona, un desiderio così forte che lo realizzò anche quando era ancora Papa con la sua opera in tre volumi su Gesù Cristo. Quando il 19 aprile è salito sulla loggia e ha salutato il popolo acclamante, ha chiesto alla folla di pregare per lui affinché non scappi dai lupi. I branchi di lupi provengono principalmente dal suo paese d'origine, la Germania. Hanno mostrato i denti al "Panzerkardinal" e al "Rottweiler di Dio", qualunque cosa potesse fare. Il fatto che sia stato Joseph Ratzinger a dare un giro di vite agli abusi sessuali nella Chiesa come nessun altro, non li ha placati, il che dimostra che non era questo il loro scopo. Ratzinger è odiato perché non "appartiene al mondo" (cfr. Gv 15, 15-19) e ha predicato alla Chiesa la necessità di de-mondanizzarsi, già nel 1958 nella sua profetica conferenza sul "nuovo paganesimo che cresce inesorabilmente nel cuore della Chiesa" e di nuovo nel suo discorso nella sala da concerto di Friburgo nel 2011. Nemmeno nei giorni del suo ultimo addio sono state fermate le odiose vituperazioni della televisione di Stato. È come se un branco di pinscher assatanati attaccasse un gigante perché la sua luce non illumini il mondo, ma brillerà tanto più intensamente quanto più ne avremo bisogno dopo la sua morte. La Germania avrebbe potuto guardare a Benedetto XVI, che gode del massimo rispetto nella Chiesa universale e tra i leader delle altre religioni, ma non ha voluto farlo. "[Gerusalemme, Gerusalemme], quante volte avrei voluto raccogliere i tuoi figli intorno a me, come una gallina raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, ma tu non hai voluto" (Mt 23,37), lamenta Gesù poco prima della sua crocifissione. La Germania preferisce rimanere bloccata nel pantano della colpa e arrendersi a un libertinismo totalitario con un occhio solo. Alla Messa di Requiem in Piazza San Pietro del 5 gennaio 2023, c'erano bandiere bavaresi ma solo una tedesca. A differenza dei polacchi, a noi tedeschi non è permesso amare il nostro Paese, né il nostro Papa. Ciò che è sconvolgente è che non è amato nemmeno nel cuore della Chiesa cattolica. Alla sua morte, avvenuta il 31 dicembre 2022, le campane suonarono nella città di Roma e in molti Paesi, ma non in Vaticano. Le bandiere erano a mezz'asta - non così in Vaticano. I funerali sono stati fissati al quinto giorno dopo la sua morte, sebbene il protocollo per il Papa preveda nove giorni. La salma del Papa è stata trasferita in un furgone bianco dal monastero Mater Eccelsiae fino alla Basilica di San Pietro. Come faceva freddo in Piazza San Pietro al Requiem, così faceva freddo alla cerimonia. Gli uccelli sopra le nostre teste urlavano il dolore delle 50.000 persone riunite lì mentre noi recitavamo il Rosario. È stato impressionante vedere quanti giovani e quanti giovani sacerdoti, provenienti da tutto il mondo, siano accorsi in Piazza San Pietro. Papa Francesco, legato a una sedia a rotelle e vestito con un mantello fumante, non ha celebrato se stesso. Nel suo sermone di sette minuti, non si sapeva bene di chi stesse parlando, di Gesù, di Benedetto, di se stesso, perché ha citato il nome del suo predecessore solo nell'ultima frase. Un dotto teologo ha detto che Papa Francesco ha usato quattro citazioni di Ratzinger, ma non le ha indicate. Lo splendor veritatis, il fulgore della verità che irradia l'intera opera del "cooperator veritatis" non è stato lasciato brillare. Ma i segni parlano. Papa Benedetto XVI è morto il 31 dicembre 2022, ultimo giorno dell'anno, ultimo giorno dell'ottava di Natale, giorno della memoria di Catherine Labouré. Le letture e il Vangelo di quel giorno sembrano essere stati scelti per lui. La lettura dice: "Figlioli, è l'ultima ora. Avete sentito dire che l'Anticristo sta arrivando, e ora sono arrivati molti Anticristi. Da questo sappiamo che è l'ultima ora. Sono venuti da noi, ma non ci appartengono; perché se ci fossero appartenuti, sarebbero rimasti con noi. Ma dovrebbe risultare evidente che non appartengono tutti a noi" (1 Giovanni 2:18-21). Sullo sfondo del cosiddetto "Cammino sinodale" dei vescovi tedeschi in solidarietà con il Comitato centrale dei cattolici tedeschi, un organismo laico non rappresentativo, queste parole colpiscono nel segno, perché la maggioranza dei vescovi in Germania è in apostasia - si è allontanata dalla fede - secondo il giudizio del pubblicista statunitense George Weigel. In occasione di un incontro dell'"Initiative Neuer Anfang" tedesca, un movimento di raccolta di fedeli cattolici, con il cardinale Gerhard Müller in occasione del Requiem, gli chiesi se riteneva possibile che il cammino sinodale tedesco fosse l'avanguardia del cammino sinodale di tutta la Chiesa. Non ha risposto alla domanda. Presto sarà chiaro. Papa Benedetto non è fuggito dai lupi, ma questi gli hanno procurato le più grandi sofferenze con la loro "ostilità pronta a balzare" e durante la sua vita hanno ostacolato i suoi sforzi per riportare la Chiesa alla sua vera missione: la proclamazione del messaggio immutabile di Gesù Cristo e l’approntamento dei mezzi di salvezza per i fedeli al fine di raggiungere la vita eterna nella gloria di Dio. Il Vangelo del giorno della morte era il Prologo di Giovanni, il più grande condensato della rivelazione di Dio attraverso il suo Figlio Gesù Cristo. "Venne tra i suoi, ma i suoi non lo accolsero" (Giovanni 1:11). Joseph Ratzinger ha dispiegato instancabilmente il Prologo con la sua predicazione e con la sua vita. Ora è ricevuto dai suoi in cielo, di cui ha parlato così bene nella sua lunga vita. Il 31 dicembre è anche il giorno della memoria di Caterina Labouré, che fu incaricata da un'apparizione della Madonna di far coniare una medaglia che si diffuse nel mondo a milioni come "medaglia miracolosa" con la preghiera: "O Maria, concepita senza peccato, prega per noi che ci rifugiamo in te" - anche questo è un testamento. Ora è morto il KATECHON, che ha dovuto perseverare per dieci lunghi anni dopo le sue dimissioni e forse ha ancora impedito "all'avversario di sedersi nel tempio di Dio e di pretendere di essere Dio" (2 Ts 2,4). Ora saprà se le sue dimissioni sono state volute da Dio, come Benedetto sicuramente credeva. Joseph Ratzinger ha amato Gesù Cristo e lo ha servito con sacrificio e disponibilità con tutte le fibre della sua grande vita. Amava anche le persone e faceva di tutto perché la strada della Chiesa verso la salvezza rimanesse percorribile. Signore, ti amo, furono le sue ultime parole. Nella tribolazione che ci attende, possiamo attingere alla sua eredità, così come anche noi possiamo crescere e morire in questo amore. Fonte: kath.net
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È stato pubblicato, qualche giorno fa, il video dell’intervista fatta da Guido Horst (caporedattore del settimanale cattolico tedesco Die Tagespost) a mons. Gänswein, segretario privato di Ratzinger da prima che fosse eletto al Soglio petrino. Lo scambio, che ripercorre i gangli fondamentali della vita, dell’opera e del pensiero del teologo e Papa bavarese alla luce dell’esperienza di mons. Gänswein, è capace di illustrare le preoccupazioni e le angosce che hanno abitato il cuore e la mente del Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede prima e del Sommo Pontefice poi: la decadenza della fede e della società occidentale, il rapporto tra fede e ragione, le proteiformi problematiche specifiche delle chiese locali e via dicendo. Un punto particolarmente rilevante dell’intervista, che sta già facendo ampiamente discutere diverse anime all’interno della Santa Chiesa e che è destinato a rimanere fulcro di dibattito anche nel tempo a venire, è quello in cui l’ormai ex segretario privato di Benedetto XVI afferma che il motu proprio di Papa Francesco Traditionis Custodes, che impone diverse limitazioni alla celebrazione della santa Messa more antiquo, sia stato recepito negativamente dal Papa emerito. In particolare, mons. Gänswein ha dichiarato: «[il motu proprio Traditionis Custodes] è stato un punto di svolta. Io credo che leggere il nuovo motu proprio abbia addolorato il cuore di Papa Benedetto, perché la sua intenzione è stata quella di aiutare coloro che semplicemente hanno trovato una casa nella Messa antica per trovare pace interiore, trovare pace liturgica, col fine di portarli lontano da Lefebvre» Il prelato ha continuato, dicendo: «E se pensate per quanti secoli la Messa antica è stata fonte di vita spirituale e nutrimento per tante persone, compresi molti santi, è impossibile immaginare che essa non abbia più nulla da offrire. E non dimentichiamo che molti giovani – nati ben dopo il Vaticano II e che non comprendono davvero tutto il dramma che ha circondato il Concilio – che questi giovani, che conoscevano la Messa nuova, hanno nondimeno trovato una casa spirituale, un tesoro spirituale anche nella Messa antica». Mons. Gänswein ha concluso dicendo «Togliere questo tesoro alle persone… Bene, non posso dire di essere a mio agio con ciò». Per quanto la dichiarazione sulla reazione di Benedetto XVI al motu proprio Traditionis Custodes sia un’interpretazione personale del fatto (formulata iniziando con “io credo”), è chiara a tutti la sua attendibilità, a meno di voler mettere in dubbio la parola di chi ha potuto conoscere il pensiero e l’approccio di Benedetto XVI meglio di chiunque altro. Senza contare che il motu proprio Summorum Pontificum, che tolse tanti vincoli per la celebrazione della santa Messa in vetus Ordo, vede la paternità dello stesso Papa Ratzinger (il che pare scontato, ma forse è bene ricordarlo). Con don Nicola Bux, cerchiamo di fare il punto della situazione. Don Nicola, cosa dice al cattolico d’oggi, dal punto di vista ecclesiale, questa pesante dichiarazione di mons. Gänswein a riguardo della reazione di Benedetto XVI al motu proprio Traditionis Custodes? Quale portata e quali possibili conseguenze può avere? Non mi sorprende. Qualcuno si chiederà: perché non l’ha fatto prima. Forse per non accrescere la tensione o forse perché Benedetto non aveva più la forza di intervenire, come invece aveva fatto sul celibato, durante il sinodo dell’Amazzonia. La reazione però va meditata da parte di papa Francesco e dei fautori della rottura: a chi giova rompere la pace liturgica, come egli disse a Parigi? Per non dire dell’affermazione, priva di fondamento storico che una è la lex orandi della Chiesa. Se così fosse, si dovrebbero annullare le forme liturgiche orientali e occidentali. Chi non sa, che esiste diversità tra le chiese orientali fra loro e all’interno di ciascuna? La liturgia bizantina non ha tre forme: quella di S.Giovanni Crisostomo, quella di san Basilio e quella dei Presantificati? E la latina non può avere due forme: quella di Damaso-Gregorio Magno-Pio V e quella di Paolo VI? Mi auguro un ripensamento al Dicastero del Culto Divino e quindi nel papa. Ma, col tempo, siccome l’affermarsi della liturgia tradizionale è inarrestabile, si apriranno dei varchi. Bisogna pazientare, persistendo. È certamente situazione inedita quella in cui, vivente un Papa dimissionario, il Papa regnante emana un documento che contraddice un atto del predecessore, e questo brano di intervista ci fa scorgere un retroscena impressionante di ciò. In particolare, la questione si impernia sul tema della liturgia. È cosa nota che, nel tempo, si è tentato in ogni modo di comporre o contrapporre i due pontificati di Papa Benedetto XVI e di Papa Francesco. Parlando specificamente della visione liturgica, come sarà possibile parlare di continuità, tenendo conto di Traditionis Custodes e delle dichiarazioni di mons. Gänswein? Il magistero di un papa può modificare quello del predecessore, nel senso però di un approfondimento e non di una rottura. Effettivamente Benedetto XVI ha fatto un discorso alla Curia Romana, il 22 dicembre 2005, che rimane una pietra miliare: l’innovazione non può andare in discontinuità con la tradizione, sia quanto al modo di intendere il Vaticano II, sia alla liturgia. Altrimenti, chi assicura che un domani la Chiesa non finisca per negare quanto oggi afferma? Ciò renderebbe insicuro l’atto di fede. Quel che era sacro, perciò, come egli ha scritto nel Motu Proprio Summorum Pontificum, resta sacro e non può essere all’improvviso proibito o ritenuto dannoso. Del resto, un’affermazione analoga si trova nella Costituzione Apostolica Missale Romanum, con cui Paolo VI lo promulgò: esso voleva essere una “renovatio”, un nuovo libro liturgico, che esprime e alimenta la fede della Chiesa, che si poggiava su ciò che l’ha preceduto. Se si leva l’“appoggio”, il fondamento del Messale damasiano-gregoriano-tridentino, non sta in piedi nemmeno quello paolino. La sensazione che serpeggia nella Chiesa è quella di una rottura sempre più profonda tra (semplificando) due visioni liturgiche, ecclesiologiche, teologiche. L’ermeneutica della continuità propugnata da Benedetto XVI pare sfumare nella temperie ecclesiale odierna. Al contrario, i sostenitori dell’ermeneutica della rottura stanno uscendo allo scoperto con sempre maggior vigore. Quest’intervista e altre esternazioni di questi giorni sembrano far trasparire questa situazione. È così, o bisogna prendere in considerazione un’altra lettura? Nel 1999, Pietro Prini scrisse Lo scisma sommerso. L’anno scorso, Antonioli e Verrani Lo scisma emerso.Conflitti, lacerazioni e silenzi nella Chiesa del Terzo Millennio. La storia della Chiesa, sin dal tempo apostolico, ha visto eresie, scismi e para-sinagoghe, per dirla con san Basilio, eppure la Cattolica è qui ancora oggi. Il segreto? Nemmeno troppo: è fondata, anzi unita a Cristo, come il corpo al capo. Quando le membra si ammalano, bisogna prendersene cura tutti, a cominciare dai pastori. Cosi, ha fatto papa Benedetto col suo pensiero e la sua azione, in specie verso i sacerdoti e i seminaristi. La prima cura è la dottrina ovvero l’insegnamento della fede trasmessa dagli apostoli, via via arricchitasi e non depauperata. La seconda cura è la liturgia sacra: altrimenti, come egli ha scritto, dal crollo della liturgia dipende la crisi della Chiesa. Ora, anche grazie a lui, da tanti segni che emergono, il sacro sta rinascendo e il futuro della fede è assicurato. Alcuni pensano che la morte di Benedetto XVI porterà ad un inasprimento e ad un’accelerazione di una determinata “agenda” all’interno della Chiesa, che avrebbe visto come tappa importante proprio l’abolizione del motu proprio Summorum Pontificum e la messa al bando della liturgia in vetus Ordo. È una preoccupazione fondata? Come si prospetta il futuro prossimo in questo senso? Dipende. Ma i pensieri di Dio non sono quelli degli uomini: questi non possono nulla, se un’opera viene da Dio. Sta avvenendo che molti sacerdoti, in tutto il mondo, nonostante le restrizioni, celebrando la Messa in Vetus Ordo, imparano a celebrare con devozione e ordine la Messa ordinaria. Dunque, è già in atto la “riforma della riforma”, auspicata da Joseph Ratzinger. Se nulla accade per caso, tantomeno la morte di papa Benedetto. Gesù, non ha detto che il chicco di grano se muore porta molto frutto? Dobbiamo pregare e procedere con la pazienza dell’amore. In allegato il video con sottotitoli in italiano Il_motu_proprio_Traditionis_Custodes_“ha_spezzato_il_cuore_a_Papa.mp4
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Riprendiamo una pungente ma quanto mai verace riflessione di Eusebio Episcopo, tratta da "Lo Spiffero", il quale mette in fila date, circostanze e nomi di chi oggi versa lacrime di coccodrillo. Nel 1998 alla conferenza che tenne al Regio era assente tutta la nomenclatura della Chiesa locale, quella che oggi è al potere. In seminario i suoi saggi erano semiclandestini. Lo stringato messaggio dell'arcivescovo Repole. Benedetto XVI se ne è andato l’ultimo giorno dell’anno così come ha sempre vissuto, con il suo inconfondibile stile, fatto di umiltà, dolcezza e innata eleganza. Avremo modo di parlare a lungo di lui e del suo magistero che ne fanno un moderno Padre della Chiesa. Il suo pensiero può essere considerato l’ultimo grande tentativo di fare incontrare tradizione e modernità. Joseph Ratzinger è stato il teologo, il prefetto della fede e il papa che si è posto in piedi di fronte alla modernità e ai suoi miti. Oggi la Chiesa è tornata ad essere, come scrisse Jacques Maritain nel 1966, «in ginocchio di fronte al mondo». Da quella prostrazione – frutto non del Concilio dei Padri ma del concilio dei media – la trassero Giovanni Paolo II e Ratzinger non per sfidare il mondo ma per mostrargli semplicemente Gesù Cristo. E per capire quanto Ratzinger fosse avversato bisogna leggere le rabbiose reazioni seguite alla pubblicazione della dichiarazione Dominus Jesus o al motu proprio Summorum Pontificum o il continuo tentativo dei vescovi tedeschi di infangarlo. Perché i suoi veri nemici erano tutti interni alla Chiesa, numerosissimi e adesso al comando. Pensiamo alla mafia di S. Gallo che per anni tramò alle sue spalle fino a farlo dimettere – Vatileaks rispetto agli scandali odierni non è niente – o ai teologi più in vista (molti di loro sono vescovi), uno dei quali, Peter Hünermann, arrivò a fondare un istituto teologico per contrastare il suo pensiero. Oggi i più ipocriti lo piangono, i più sinceri dicono che era un personaggio “complesso e contradditorio” e nei prossimi giorni ne sentiremo di tutti i colori. Ma perché Benedetto era tanto osteggiato? Per capirlo basta rileggere, ma è solo un esempio fra i tanti, il magistrale discorso di Ratisbona, centrato sulla de-ellenizzazione del cristianesimo o la proposizione dei “principi non negoziabili” che i vescovi boicottarono in tutti i modi, così come avvenne per la liberalizzazione del rito antico che il suo successore ha abrogato. Nell’avversione a Ratzinger/Benedetto XVI, la Torino progressista fu in prima fila. E poiché lo Spiffero ha la pretesa di dire quello che gli altri non dicono, ricordiamo a chi adesso ne tesse le lodi solo alcuni episodi, ma se ne potrebbe raccogliere una antologia. Nel 1998 il cardinale Ratzinger venne a Torino, invitato dall’arcivescovo Giovanni Saldarini. Visitò e parlò ai seminaristi e la sera tenne una conferenza al teatro Regio ove, platealmente e fragorosamente, era assente tutta la notevole porzione della Chiesa locale progressista, quella che oggi è al potere. I seminaristi del tempo presero a leggere i suoi libri, ma clandestinamente in quanto il rettore – che per la verità ne capiva poco – era contrario. Addirittura, il testo di una conferenza sulla liturgia tenuta da Ratzinger presso l’abbazia di Fontgombault– che oggi è nell’Opera Omnia – fu tradotta e poi stampata a spese di un privato e letta e diffusa quasi di nascosto. Da ricordare che, all’epoca, padre Eugenio Costa S.J. affermava che Ratzinger era l’esponente di un «pensiero nazista» e un vescovo da lui nominato, ora emerito liturgista “grillino”, non risparmiava critiche a Summorum Pontificum scagliando la sua bolla di nomina in latino addosso ai fedeli che gli chiedevano di fare ciò che Benedetto ordinava di fare. Enzo Bianchi, che però oggi – come sembrerebbe – si è addolcito, non lesinava critiche su tutti fronti. Alla proposta di invitare Ratzinger a parlare alla facoltà teologica, l’arcivescovo Severino Poletto si oppose preferendogli il cardinal Walter Kasper. Quando nel 2010 Benedetto XVI venne in visita a Torino, l’ufficio liturgico si oppose al canone romano in latino per la Messa in piazza S. Carlo, per fortuna invano. Uno dei più autorevoli esponenti del “cerchio magico” di S. Lorenzo disse che con l’elezione di Francesco la Chiesa «si era liberata di un peso». Per capire il mainstream basta entrare nel santuario di S. Giuseppe di via Santa Teresa retto dai Padri Camilliani dove troverà, sulla sua sinistra, una nicchia in cui attorno al Volto della Sindone, sono esposte le icone del cattolicesimo progressista: Lutero, Giovanni XXIII, Bonhoeffer, Che Guevara, Kennedy, Martin Luther King, il cardinale Martini, i martiri del razzismo e nessuna vittima del comunismo salvo, un po’ nascosto, Florenskij. In simile pantheon Benedetto XVI non troverà mai posto e questo, per chi non si è arreso alla «dittatura del relativismo», non è l’ultima delle sue glorie. Stringatissimo e di circostanza, il messaggio dell’arcivescovo Roberto Repole in occasione della morte di Benedetto XVI e forse è meglio così. Nessuno più lo ricorda, ma Benedetto XVI nel 2008 fu oggetto di una delle pagine più vergognose dell’accademia italiana quando, dopo averlo invitato, gli fu impedito di parlare alla Sapienza, avendo l’università accettato il diktat di un gruppo di professori tra cui – sembra incredibile – il premio Nobel per la fisica 2021 Giorgio Parisi e con il plauso del paladino di ogni libertà, Eugenio Scalfari, il quale scrisse che, secondo amici gesuiti, Joseph Ratzinger era «un modesto teologo». Invitiamo tutti a rileggere l’intervento che il papa avrebbe dovuto pronunciare e che è un inno alla libertà di ricerca. Ma come vedeva sé stesso Joseph Ratzinger? Qual era la funzione e l’immagine del vero teologo e, più in generale, del cristiano oggi? Lo scrive egli stesso all’inizio del primo capitolo del suo capolavoro, Introduzione al Cristianesimo, pubblicato la prima volta nel 1969 riferendosi al noto apologo del clown e del villaggio in fiamme narrato da Kierkegaard dove si racconta di un circo viaggiante in Danimarca, colpito da un incendio. Il direttore mandò subito il clown, già abbigliato per la recita, a chiedere aiuto al villaggio vicino, oltretutto perché c’era il pericolo che il fuoco, propagandosi attraverso i campi da poco mietuti e quindi secchi, s’appiccasse al villaggio. Il clown corse affannato al villaggio, supplicando gli abitanti ad accorrere al circo per dare una mano a spegnere l’incendio. Ma essi presero le grida del pagliaccio unicamente per un astutissimo trucco del mestiere, tendente ad attirare il maggior numero possibile di persone alla rappresentazione; per cui lo applaudivano, ridendo sino alle lacrime. Il povero clownaveva voglia di piangere e tentava inutilmente di scongiurare gli uomini ad andare, spiegando loro che non si trattava affatto d’una finzione, d’un trucco, bensì di una amara realtà, giacché il circo stava bruciando per davvero. Il suo pianto non faceva altro che intensificare le risate: tutti trovarono che egli recitasse la sua parte in maniera stupenda… La commedia continuò così finché il fuoco s’appiccò realmente al villaggio e ogni aiuto giunse troppo tardi: villaggio e circo finirono entrambi distrutti dalle fiamme. Benedetto XVI può apparire come quel clown, paludato in quegli abiti tramandati dal passato, e nella Chiesa di oggi di lui è rimasto poco. Ma la storia è lunga e soprattutto la Provvidenza è grande e il suo pensiero porterà i frutti domani.
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L’evangelista Luca, nel prologo del suo vangelo (1,1-4), dichiara: “Poiché molti si sono accinti a comporre una narrazione degli avvenimenti compiuti in mezzo a noi, come ci hanno trasmesso coloro che fin da principio ne sono stati i testimoni oculari, e sono divenuti ministri della parola, è parso bene anche a me, dopo aver fatto diligenti ricerche su tutte queste cose, fin dalle loro origini, narrartele per iscritto, con ordine, o nobile Teofilo, affinché tu riconosca la verità degli insegnamenti che hai ricevuto”. Egli, quindi, intende inquadrare storicamente Gesù e la sua nascita, pertanto fornisce subito la prima coordinata: “Al tempo di re Erode, re della Giudea, c’era un sacerdote chiamato Zaccaria, della classe di Abia…Mentre Zaccaria officiava davanti al Signore nel turno della sua classe, secondo l’usanza del servizio sacerdotale…Compiuti i giorni del suo servizio, tornò a casa. Dopo quei giorni Elisabetta concepì e si tenne nascosta per cinque mesi” (1,5-25). Luca, così, comincia il suo vangelo riportando una tradizione giudeo-cristiana di Gerusalemme, antecedente alla distruzione della città nel 70 d.C. E’ un fatto apparentemente marginale ma storicamente verificabile dai suoi contemporanei: l’angelo Gabriele aveva annunziato al sacerdote Zaccaria, – mentre «esercitava le sue funzioni davanti a Dio, nel turno (in greco taxis) della sua classe (in greco ephemeria)», quella di Abia (Lc 1,5) – che la sua sposa Elisabetta avrebbe concepito un figlio. L’evangelista, rimanda pertanto ad una rotazione disposta da David (cfr.1Cr 24,1-7.19): le ventiquattro classi sacerdotali si avvicendavano in ordine immutabile nel servizio al Tempio da sabato a sabato, due volte l’anno. Questo era noto tra i giudei e quindi nell’ambito dei giudei convertiti al cristianesimo: i giudeo-cristiani. Il turno di Abia a cui accenna Luca, cadeva quell’anno nella seconda settimana del primo mese, Tishri , tra il 22 e il 30 settembre (il mese lunare non coincide con quello solare, perciò le altre due settimane in questo caso occupano la prima parte di ottobre). Si veda l’apocrifo Libro dei Giubilei, nel saggio del professor Shemaryahu Talmon, studioso dei rotoli di Qumran che conobbi a Gerusalemme alla fine degli anni ’90. Il calendario ebraico è suddiviso in dodici mesi lunari, che hanno nomi e durata diversi rispetto a quelli solari; pertanto, ogni due o tre anni, viene aggiunto un altro mese, ridotto quanto a numero di giorni, affinché l’anno abbia la stessa lunghezza di quello solare; esso ha inizio col mese di Tishri, corrispondente appunto al nostro settembre. Ma, in quale dei due turni Zaccaria riceve l’annuncio? Ecco che l’evangelista fornisce la seconda coordinata: “Nel sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria…” L’annuncio dell’angelo a Maria avviene nel “sesto mese” del calendario ebraico, Adàr, corrispondente a marzo, verso la fine (Lc 1,28), il 25, nei calendari bizantino e romano. Perché? Perché quel sesto mese è pure il “sesto mese” dalla concezione di Elisabetta. Dunque, quale ultima conseguenza, è attendibile la data del 25 di Kislèw (dicembre), nove mesi dopo il 25 di Adàr (marzo). Ma, ecco la terza coordinata di Luca: “Vedi: anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia, ha concepito un figlio e questo è il sesto mese per lei…”(1,26-38).Ora, abbiamo detto che il primo mese del calendario ebraico è Tishri, e che l’annuncio a Zaccaria era avvenuto nell’ultima decade, durante il secondo turno di Zaccaria al Tempio: al 23 settembre lo fisseranno i calendari bizantino e romano. In tal modo si dimostra storica anche la data della nascita di Giovanni Battista nove mesi dopo, corrispondente al 24 di Sivàn (giugno) : “Per Elisabetta intanto si compiva il tempo di partorire e partorì un figlio” (1,57-66). La quarta coordinata di Luca, riguarda la visitazione di Maria ad Elisabetta, appena dopo l’Annunciazione: “In quei medesimi giorni, Maria si mise in viaggio, in tutta fretta, per la montagna, verso una città di Giuda; ed entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta…Maria rimase con lei circa tre mesi, poi se ne ritornò a casa sua” (1, 39-56). Probabilmente dopo aver assistito alla nascita di Giovanni. La quinta coordinata che ci offre l’evangelista Luca per stabilire l’anno della nascita di Gesù è l’editto di Cesare Augusto: “In quel tempo fu emanato un editto da Cesare Augusto per il censimento di tutto l’impero…E mentre si trovavano là, si compirono i giorni in cui ella doveva avere il bambino, e diede alla luce il suo figlio primogenito…” (2,1-7). Quando è avvenuto il censimento? Ovvero, in quale anno del calendario romano? Il censimento è solo parte della questione della storicità della data del Natale. Non possiamo, ovviamente qui addentrarci nei dettagli su questa vicenda…Ma, anche in questo caso, si deve notare che con troppa facilità si è parlato di errore di calcolo del monaco Dionigi (fine V- inizi VI secolo): egli era stato incaricato dalla Chiesa di Roma di proseguire la compilazione della tavola cronologica della data di Pasqua preparata a suo tempo in Egitto dal vescovo Cirillo Alessandrino. Dionigi però non partì dalla data d’inizio dell’impero di Diocleziano (285 del nostro calendario cristiano) – data che ancora oggi la Chiesa Copta adopera per il computo del suo calendario, cioè l’inizio dell’era dei martiri – ma dall’incarnazione di Gesù Cristo. Sebbene non si conosca esattamente il metodo da lui seguito, come appena detto, da molti è data per assodata la tesi che si sarebbe sbagliato, ponendo la nascita di Gesù “dopo la morte di Erode”, ovvero quattro o sei anni dopo la data in cui sarebbe avvenuta, e che corrisponderebbe al 748 di Roma. Si può dimostrare che invece non è così, perché le obiezioni mosse ai suoi calcoli non tengono conto, per esempio, che Giuseppe Flavio, al quale normalmente ci si riferisce per questa ed altre datazioni, si è sbagliato, e proprio sulla morte di Erode il Grande, in base ad un’eclissi lunare da lui ricordata. Inoltre, gli si imputa di non aver usato lo zero nel computo, cifra che a quel tempo non era stata ancora inventata (Cfr. G.Fedalto, Quando festeggiare il 2000? Problemi di cronologia cristiana, Torino,1998). Dunque la cronologia deve essere ricostruita comparando tavole cronologiche differenti. Dionigi, in ogni caso, recepì la data del 25 dicembre che non era stata introdotta arbitrariamente dalle Chiese cristiane. Secondo Tertulliano, Gesù sarebbe nato nel 752 di Roma, 41° anno dell’impero di Augusto. Da quanto detto fin qui, ci domandiamo: la data della nascita di Gesù è veramente il 25 dicembre? Che cosa ci permettono di accertare le scienze storiche? Che Gesù sia nato il 25 dicembre, lo afferma con chiarezza per primo il sacerdote Ippolito di Roma nel suo Commento al libro del profeta Daniele, scritto verso il 204 d.C.: lo ha ricordato a tutti Benedetto XVI, nell’Udienza generale del 23 dicembre 2009. Si aggiunga un’omelia di Giovanni Crisostomo sul Natale, nel 386, in cui sostiene che la Chiesa di Roma conosceva il vero giorno (25), perché gli atti del censimento eseguito per ordine di Augusto in Giudea, si conservavano negli archivi pubblici di Roma. Ma, soprattutto nella prima metà del secolo scorso, si divulgò, da parte di liturgisti, come Duchesne e Botte, l’idea che il 25 dicembre fosse una data convenzionale, scelta dai cristiani di Roma per sostituire il Dies Natalis Solis Invicti: la nascita del Sole invincibile, perché col solstizio d’inverno, la giornata riprende ad allungarsi. In realtà, soprattutto dopo l’editto di Costantino(313), la Chiesa avrebbe pure potuto essere mossa dal desiderio di valorizzare qualche festa del paganesimo decadente, ma non inventare di sana pianta una data così centrale. Semmai avesse voluto cercare un nesso, sarebbe andata in direzione del 25 di Kislèw, il nostro dicembre, in cui si celebra la ri-dedicazione del Tempio, istituita da Giuda Maccabeo nel 164 a.C. (cfr 1Mac 4,59). Una coincidenza? Se Ippolito romano attesta nel 204, che Gesù è nato il 25 dicembre, e la festa del Sol invictus – forse il dio Mitra o l’imperatore – intorno al solstizio invernale, fu introdotta da Eliogabalo nel 218 e poi istituita da Aureliano nel 274, entrambe quindi successivamente, vuol dire che furono i pagani a tentare di oscurare la data del Natale cristiano. I cristiani subirono la celebrazione della festa del Sole invincibile, perché erano perseguitati. Dopo la libertà concessa da Costantino, i cristiani d'Occidente, poterono celebrare il Natale apertamente. Poi, la crisi del paganesimo fece sì che la festa del 'Sole invitto', fosse oscurata da quella del vero “Sole invincibile”, Gesù Cristo. In Oriente i cristiani continuarono a celebrarla il 6 gennaio, perché ritenuta più vicina al loro solstizio. Nel Medioevo si produsse lo scambio: il 25 dicembre fu accolto nel calendario bizantino, come festa di Natale, e il 6 gennaio dal calendario romano, come festa dell’Epifania. Tornando all’annuncio a Zaccaria, nel calendario liturgico siriaco v’è il Subara, il tempo dell’annuncio, costituito da sei domeniche (v. Avvento ambrosiano) la prima dedicata all’annuncio della nascita di Giovanni al padre Zaccaria, celebrato al 23 settembre dal calendario bizantino e dal calendario di Gerusalemme, seguito dalla chiesa latina di Terrasanta. Così i bizantini e i latini conservano al 23 settembre una data storica quasi precisa. Altrettanto dicasi per la data delle feste della natività del Battista, dell’annunciazione a Maria e della natività di Gesù. Si pensi che nel rito bizantino la data dell’Annunciazione prende il posto della domenica e del giovedì santo, e se coincide con la Pasqua si canta metà canone – la composizione poetica propria della festa – dell’una e dell’altra. Dunque, la liturgia della Chiesa, ha fissato e commemorato queste date innanzitutto storicamente (v. la Circoncisione all’ottavo giorno dopo la nascita, la Presentazione al quarantesimo), in special modo il Natale del Signore al 25 dicembre. Che la data del Natale sia stata a volte assimilata a quella del 6 gennaio, è dovuto al fatto che il calendario bizantino ricordava un insieme di eventi epifanici (l’arrivo dei Magi, il battesimo al Giordano, le nozze di Cana), ma anche al fatto che le Chiese si comunicavano le date delle celebrazioni e avevano possibilità di verificarne l’attendibilità storica. Luca, infatti, osserva che Gesù al momento del battesimo «stava cominciando quasi i trent’anni» (Lc 3,23): dunque un compleanno di Gesù, il trentesimo. Se Gesù è stato battezzato il 6 gennaio, in quella data trent’anni prima è nato. In origine, come ancora attestano l’oriente bizantino e il breviario romano, il 6 gennaio era la Teofania del Signore alle acque del Giordano. Una tradizione trattenuta dai Padri, ad esempio san Massimo di Torino: «La ragione esige che questa festa segua quella del Natale del Signore, perché i due eventi si verificarono nel medesimo tempo anche se a distanza di anni» (Discorso 100 sull’Epifania, 1; CCL 23,398). Dunque, la memoria ininterrotta fu consacrata dalla liturgia, ma il vangelo di Luca, con i suoi accenni a luoghi, date e persone, vi ha contribuito in modo fondamentale. I moderni strumenti di indagine permettono di collegare i dati con gli elementi astronomici che ne garantiscono la precisione; si superano così i contrasti tra mondo ebraico e cultura cristiana che possono aver condizionato gli storici, anche per il fatto che gli ebrei non avevano un calendario fisso, ma lo formulavano in base all’osservazione diretta dei vari fenomeni astrali, in specie il novilunio che determinava le feste, per far corrispondere l’anno lunare a quello solare. Ma non di rado tale calendario differiva dalla realtà astronomica (cfr G. Ricciotti, Vita di Gesù (1941), Milano 2006, p. 178ss. Per altri approfondimenti; N. Bux, Gesù il Salvatore. Luoghi e tempi della sua venuta nella storia, Cantagalli, Siena 2009).