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Daniele Cordedda : "Nota su esperienza e testimonianza della Risurrezione nel Nuovo Testamento"


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In questo breve articolo vogliamo puntare l’attenzione su un punto problematico di una parte purtroppo non minoritaria dell’esegesi neotestamentaria contemporanea: l’interpretazione della storicità della Risurrezione di Cristo e il ruolo della comunità primitiva nell’elaborazione dei racconti della tomba vuota. La Risurrezione va intesa come un fatto storico vero e proprio oppure come una pura esperienza interiore degli apostoli? Se la seconda ipotesi fosse vera, si dovrebbe creare artificiosamente nell’insieme delle testimonianze pasquali del Nuovo Testamento una cesura ingiustificabile: quella tra storia e fede. Ma questa dicotomia non rivestiva nessun interesse per la prima generazione cristiana. 

 

 

               Il programma esegetico del protestantesimo liberale  seguiva, nei confronti del Nuovo Testamento, un precetto che non poteva essere messo in discussione: considerare ogni professione di fede nella Risurrezione di Gesù Cristo e ogni racconto delle visioni del Risorto presenti nei Vangeli e negli Atti degli Apostoli -ma anche in alcuni testi paolini- come il risultato di una lunga e intricata elaborazione letteraria e teologica. La funzione di un tale lavorìo teologico sarebbe stata quella di costruire un racconto capace di restituire in termini narrativi la testimonianza di un’esperienza che non era strettamente storica, ma interiore e mistica. Il fatto che si trattasse di una interpretazione la cui logica rimaneva tutta interna alla testimonianza stessa rendeva impossibile -e in fondo sbagliato- cercare di ricostruire gli eventi storici soggiacenti a quei testi. I racconti pasquali non dovevano essere presi alla lettera. Il loro valore storico doveva considerarsi nullo. Ciò che contava era la loro interpretazione. Nel migliore dei casi, si ipotizzava che a questa elaborazione apostolica e subapostolica si accompagnasse una sostanziale buona fede; nel peggiore, si immaginava di aver a che fare con una dannosa sofisticazione dell’originaria esperienza cristiana. In ambedue i casi, tale elaborazione avrebbe avuto il suo punto di partenza in una intuizione “spirituale”, in un fenomeno puramente interiore. La fede degli apostoli, allo sguardo demistificatorio dell’esegeta, doveva perciò risultare indipendente dai racconti degli incontri sensibili col Risorto, come anche dai racconti della tomba vuota. Occorreva separare quella fede da qualunque concezione esplicitamente e crudamente “fisica” della Risurrezione di Cristo, e questo fin negli strati più arcaici della documentazione evangelica. Il modernismo cattolico (sia nella sua forma originale, tra fine ottocento e primi del novecento, sia nella sua incarnazione “progressista” postbellica) seguì il protestantesimo su questa strada.

 

            Una fede impossibile?

               L’impostazione era essenzialmente ideologica, e rispondeva a un presupposto storico e filosofico preciso, cioè alla postulata impossibilità di credere a una Risurrezione (intesa come rianimazione) reale di Cristo nella cornice della Weltanschauung moderna. Il significato dei racconti evangelici veniva quindi ridotto secondo la misura di una mancanza di fede che doveva essere ormai assunta come un dato inconfutabile ed irreversibile. Gli strumenti di questo programma di lungo corso -che arriva coi suoi più recenti epigoni sino a noi- si sono avvicendati e sovrapposti: lo storicismo romantico con la sua fascinazione per lo spessore poetante e trasfigurante della tradizione biblica, il sociologismo con il suo corollario di eziologie contestuali, l’esistenzialismo con la sua smania di attualizzare l’appello alla conversione -il kérygma - saltando a pie’ pari la concretezza storica dell’evento evangelico. Parlando della Risurrezione come di un «mito», Rudolf Bultmann fu in fondo onesto riguardo al suo programma teologico, e rivelò al di là di ogni ragionevole dubbio quale è l’esito a cui esso conduceva.

               Le cause prossime e quelle remote di un simile programma intellettuale (e pastorale: questa impostazione doveva tracimare immediatamente, con un entusiasmo degno di altre imprese, nella predicazione, la quale si imbottì in men che non si dica di richiami al «Sitz im Leben», alla «comunità primitiva pre e postpasquale» e alla «comprensione non mitica della Risurrezione») devono essere cercate nella inamovibile convinzione che sia assolutamente impossibile, all’uomo entzaubert (disincantato) dell’epoca tecnologica, credere ad eventi soprannaturali. Il rifiuto pregiudiziale del miracolo è la tara di questo atteggiamento spirituale. La Risurrezione del Signore è il più clamoroso tra i miracoli, e in quanto tale doveva essere espunta nella sua letteralità, per entrare in quel limbo fumoso e anfibio che è lo spazio interpretativo. A mediare tra l’evento storico concreto, la sua risonanza esperienziale nel mondo interiore degli apostoli e l’espressione linguistico-narrativa di quell’esperienza sarebbe rimasto solo il milieu esegetico di una modernità intellettualmente avara, che legifera tirannicamente sui confini della credibilità spostandone continuamente i paletti, ma senza rendersi mai conto fino in fondo della sua soffocante autoreferenzialità. All’interno di questo spazio cangiante può regnare solo il sospetto, che non a caso è stato coltivato come una virtù cardinale. Non parliamo in questo caso di quel sospetto metodologico che è parte insostituibile della dimensione critica della ricerca esegetica. Parliamo di un sospetto che si insedia nel campo in cui normalmente dovrebbero prosperare l’amore al testo, l’obbedienza alla verità e la serietà nei confronti della rivelazione; parliamo di una diffidenza pervicace e prevenuta verso qualunque affermazione soprannaturale, che smette di essere una precauzione metodologica per farsi -sotto la maschera austera dell’onestà intellettuale- postura teoretica e atteggiamento esistenziale .

 

 

            Due tipi di testimonianza?

               Su di un piano strettamente metodologico, questo genere di esegesi comporta l’introduzione di una rottura, di una disomogeneità nella interpretazione delle testimonianze apostoliche. Avremmo così, secondo questa impostazione, due tipologie di racconti: quelli in cui si riferiscono fatti reali, storici, e quelli in cui si riferisce -sotto una veste narrativa che sarebbe in realtà una protointerpretazione teologica- l’esperienza propriamente indicibile del Gesù vivo nello Spirito. Che uno schema simile sia -come detto- di natura ideologica lo dimostra il fatto, molto chiaro, che non sia affatto questa l’intenzione dei testi neotestamentari. Prendiamo, a titolo di esempio, il discorso di Pietro a Cornelio riportato in At 10, in particolare ai vv.39-41. Gli apostoli sono testimoni tanto delle cose compiute da Gesù nella regione dei giudei e a Gerusalemme quanto della sua Risurrezione. Non c’è soluzione di continuità tra i due generi di testimonianza; non sono riferiti l’uno a fatti esteriori -sensibili- e l’altro ad un’esperienza interiore del Cristo vivente e glorioso, che poi debba essere tradotta nei termini immaginativi di una narrazione. Sono invece le due parti di una testimonianza omogenea, che si riferisce in tutti e due i casi a eventi storici. Non abbiamo a che fare con due esperienze eterogenee, che avrebbero come oggetto l’una il Gesù della storia e l’altra il Cristo della fede. Distinzioni di questo genere rispondono molto bene alla mentalità dell’esegeta moderno, ma di sicuro non si riscontrano nella natura specifica della testimonianza degli apostoli e nell’intenzione autentica dei testi in cui essa si è depositata (cf. At 4,20).

 

Le apparizioni non sono dunque l’esplicitazione immaginativa di una qualche esperienza interiore con cui Cristo si sarebbe rivelato come vivente. Non è questo che intendono i nostri testimoni. Una simile affermazione sarebbe una pura invenzione a posteriori, che rifletterebbe la mentalità dell’esegeta, non quella degli apostoli e dei discepoli. [...] “Risuscitato” non può avere due sensi. O significa che il corpo del Cristo non è rimasto nella tomba, ma è stato vivificato dalla potenza di Dio ed ha così potuto essere visto e toccato, allo stesso modo di prima, dai testimoni, o non significa niente.

(Jean Danielou, La Risurrezione, 1969)

 

Intendere la Risurrezione di Cristo come la pura “interpretazione” di una “esperienza interiore”, prescindendo dalla sua natura di fatto concreto, rende di fatto impossibile comprendere o anche solo giustificare la predicazione apostolica così come ci è trasmessa in testi come quello di At 2,29-31, in cui il discorso sul corpo, sulla «carne» di Cristo, diventa il criterio di verifica della profezia. Di questo parlavano gli apostoli. Questo volevano testimoniare al mondo. Non è la fede della comunità primitiva in quella “esperienza interiore” ad aver generato i racconti evangelici come affabulazione e mitopoiesi; piuttosto, è la testimonianza delle apparizioni sensibili del Risorto offerta dagli apostoli di fronte alla comunità a costituire il senso di quei racconti. Racconti che la Chiesa ha sempre recepito come resoconti di eventi reali. La Risurrezione di Cristo non è il prodotto della fede: è la fede ad essere la conseguenza della Risurrezione.

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