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  1. SEM IPC
    È stato pubblicato, qualche giorno fa, il video dell’intervista fatta da Guido Horst (caporedattore del settimanale cattolico tedesco Die Tagespost) a mons. Gänswein, segretario privato di Ratzinger da prima che fosse eletto al Soglio petrino.
     
    Lo scambio, che ripercorre i gangli fondamentali della vita, dell’opera e del pensiero del teologo e Papa bavarese alla luce dell’esperienza di mons. Gänswein, è capace di illustrare le preoccupazioni e le angosce che hanno abitato il cuore e la mente del Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede prima e del Sommo Pontefice poi: la decadenza della fede e della società occidentale, il rapporto tra fede e ragione, le proteiformi problematiche specifiche delle chiese locali e via dicendo.
     
    Un punto particolarmente rilevante dell’intervista, che sta già facendo ampiamente discutere diverse anime all’interno della Santa Chiesa e che è destinato a rimanere fulcro di dibattito anche nel tempo a venire, è quello in cui l’ormai ex segretario privato di Benedetto XVI afferma che il motu proprio di Papa Francesco Traditionis Custodes, che impone diverse limitazioni alla celebrazione della santa Messa more antiquo, sia stato recepito negativamente dal Papa emerito. In particolare, mons. Gänswein ha dichiarato:
     
    «[il motu proprio Traditionis Custodes] è stato un punto di svolta. Io credo che leggere il nuovo motu proprio abbia addolorato il cuore di Papa Benedetto, perché la sua intenzione è stata quella di aiutare coloro che semplicemente hanno trovato una casa nella Messa antica per trovare pace interiore, trovare pace liturgica, col fine di portarli lontano da Lefebvre»
     
    Il prelato ha continuato, dicendo: «E se pensate per quanti secoli la Messa antica è stata fonte di vita spirituale e nutrimento per tante persone, compresi molti santi, è impossibile immaginare che essa non abbia più nulla da offrire. E non dimentichiamo che molti giovani – nati ben dopo il Vaticano II e che non comprendono davvero tutto il dramma che ha circondato il Concilio – che questi giovani, che conoscevano la Messa nuova, hanno nondimeno trovato una casa spirituale, un tesoro spirituale anche nella Messa antica».
     
    Mons. Gänswein ha concluso dicendo «Togliere questo tesoro alle persone… Bene, non posso dire di essere a mio agio con ciò».
     
    Per quanto la dichiarazione sulla reazione di Benedetto XVI al motu proprio Traditionis Custodes sia un’interpretazione personale del fatto (formulata iniziando con “io credo”), è chiara a tutti la sua attendibilità, a meno di voler mettere in dubbio la parola di chi ha potuto conoscere il pensiero e l’approccio di Benedetto XVI meglio di chiunque altro. Senza contare che il motu proprio Summorum Pontificum, che tolse tanti vincoli per la celebrazione della santa Messa in vetus Ordo, vede la paternità dello stesso Papa Ratzinger (il che pare scontato, ma forse è bene ricordarlo).
    Con don Nicola Bux, cerchiamo di fare il punto della situazione.
     
    Don Nicola, cosa dice al cattolico d’oggi, dal punto di vista ecclesiale, questa pesante dichiarazione di mons. Gänswein a riguardo della reazione di Benedetto XVI al motu proprio Traditionis Custodes? Quale portata e quali possibili conseguenze può avere?
    Non mi sorprende. Qualcuno si chiederà: perché non l’ha fatto prima. Forse per non accrescere la tensione o forse perché Benedetto non aveva più la forza di intervenire, come invece aveva fatto sul celibato, durante il sinodo dell’Amazzonia. La reazione però va meditata da parte di papa Francesco e dei fautori della rottura: a chi giova rompere la pace liturgica, come egli disse a Parigi? Per non dire dell’affermazione, priva di fondamento storico che una è la lex orandi della Chiesa. Se così fosse, si dovrebbero annullare le forme liturgiche orientali e occidentali. Chi non sa, che esiste diversità tra le chiese orientali fra loro e all’interno di ciascuna? La liturgia bizantina non ha tre forme: quella di S.Giovanni Crisostomo, quella di san Basilio e quella dei Presantificati? E la latina non può avere due forme: quella di Damaso-Gregorio Magno-Pio V e quella di Paolo VI? Mi auguro un ripensamento al Dicastero del Culto Divino e quindi nel papa. Ma, col tempo, siccome l’affermarsi della liturgia tradizionale è inarrestabile, si apriranno dei varchi. Bisogna pazientare, persistendo.
     
     
    È certamente situazione inedita quella in cui, vivente un Papa dimissionario, il Papa regnante emana un documento che contraddice un atto del predecessore, e questo brano di intervista ci fa scorgere un retroscena impressionante di ciò. In particolare, la questione si impernia sul tema della liturgia. È cosa nota che, nel tempo, si è tentato in ogni modo di comporre o contrapporre i due pontificati di Papa Benedetto XVI e di Papa Francesco. Parlando specificamente della visione liturgica, come sarà possibile parlare di continuità, tenendo conto di Traditionis Custodes e delle dichiarazioni di mons. Gänswein?
    Il magistero di un papa può modificare quello del predecessore, nel senso però di un approfondimento e non di una rottura. Effettivamente Benedetto XVI ha fatto un discorso alla Curia Romana, il 22 dicembre 2005, che rimane una pietra miliare: l’innovazione non può andare in discontinuità con la tradizione, sia quanto al modo di intendere il Vaticano II, sia alla liturgia. Altrimenti, chi assicura che un domani la Chiesa non finisca per negare quanto oggi afferma? Ciò renderebbe insicuro l’atto di fede. Quel che era sacro, perciò, come egli ha scritto nel Motu Proprio Summorum Pontificum, resta sacro e non può essere all’improvviso proibito o ritenuto dannoso. Del resto, un’affermazione analoga si trova nella Costituzione Apostolica Missale Romanum, con cui Paolo VI lo promulgò: esso voleva essere una “renovatio”, un nuovo libro liturgico, che esprime e alimenta la fede della Chiesa, che si poggiava su ciò che l’ha preceduto. Se si leva l’“appoggio”, il fondamento del Messale damasiano-gregoriano-tridentino, non sta in piedi nemmeno quello paolino.
     
     
    La sensazione che serpeggia nella Chiesa è quella di una rottura sempre più profonda tra (semplificando) due visioni liturgiche, ecclesiologiche, teologiche. L’ermeneutica della continuità propugnata da Benedetto XVI pare sfumare nella temperie ecclesiale odierna. Al contrario, i sostenitori dell’ermeneutica della rottura stanno uscendo allo scoperto con sempre maggior vigore. Quest’intervista e altre esternazioni di questi giorni sembrano far trasparire questa situazione. È così, o bisogna prendere in considerazione un’altra lettura?
     
    Nel 1999, Pietro Prini scrisse Lo scisma sommerso. L’anno scorso, Antonioli e Verrani Lo scisma emerso.Conflitti, lacerazioni e silenzi nella Chiesa del Terzo Millennio. La storia della Chiesa, sin dal tempo apostolico, ha visto eresie, scismi e para-sinagoghe, per dirla con san Basilio, eppure la Cattolica è qui ancora oggi. Il segreto? Nemmeno troppo: è fondata, anzi unita a Cristo, come il corpo al capo. Quando le membra si ammalano, bisogna prendersene cura tutti, a cominciare dai pastori. Cosi, ha fatto papa Benedetto col suo pensiero e la sua azione, in specie verso i sacerdoti e i seminaristi. La prima cura è la dottrina ovvero l’insegnamento della fede trasmessa dagli apostoli, via via arricchitasi e non depauperata. La seconda cura è la liturgia sacra: altrimenti, come egli ha scritto, dal crollo della liturgia dipende la crisi della Chiesa. Ora, anche grazie a lui, da tanti segni che emergono, il sacro sta rinascendo e il futuro della fede è assicurato.
     
    Alcuni pensano che la morte di Benedetto XVI porterà ad un inasprimento e ad un’accelerazione di una determinata “agenda” all’interno della Chiesa, che avrebbe visto come tappa importante proprio l’abolizione del motu proprio Summorum Pontificum e la messa al bando della liturgia in vetus Ordo. È una preoccupazione fondata? Come si prospetta il futuro prossimo in questo senso?
    Dipende. Ma i pensieri di Dio non sono quelli degli uomini: questi non possono nulla, se un’opera viene da Dio. Sta avvenendo che molti sacerdoti, in tutto il mondo, nonostante le restrizioni, celebrando la Messa in Vetus Ordo, imparano a celebrare con devozione e ordine la Messa ordinaria. Dunque, è già in atto la “riforma della riforma”, auspicata da Joseph Ratzinger. Se nulla accade per caso, tantomeno la morte di papa Benedetto. Gesù, non ha detto che il chicco di grano se muore porta molto frutto? Dobbiamo pregare e procedere con la pazienza dell’amore.
    In allegato il video con sottotitoli in italiano
    Il_motu_proprio_Traditionis_Custodes_“ha_spezzato_il_cuore_a_Papa.mp4
  2. SEM IPC
    È un testo molto bello su Benedetto XVI, utile anche per i lettori italiani. Gabriele Kuby è
    cattolica. Tra tutto quello che abbiamo letto, sembra il più bello, più sincero e chiaro.
    Traduzione automatica (deepl.com) di seguito.
    Per me è sempre stato chiaro che sarei andata a Roma per i funerali di Papa Benedetto XVI. Volevo dare l'ultimo saluto al più grande spirito del nostro tempo, esprimere la mia gratitudine e dire addio nella mia anima partecipando ai rituali di morte. Joseph Ratzinger aveva sempre tenuto la mano su di me. "Grazie a Dio, lei parla e scrive", mi aveva detto quando mi era stato permesso di mettere nelle sue mani il mio libro La rivoluzione sessuale globale, la distruzione della libertà in nome della libertà, in Piazza San Pietro nel 2012 - che grande dono in un momento in cui tutti coloro che si battono per ciò che è vero e buono sono sotto tiro, nessuno più di Joseph Ratzinger/Papa Benedetto XVI.
    Ero anche a Roma quando Giovanni Paolo II fu sepolto sotto l'egida del suo fedele servitore Joseph Ratzinger, allora decano del Collegio cardinalizio. Che giorni luminosi per la Chiesa, quando due milioni di persone hanno dato l'addio al Papa polacco e il mondo ha ascoltato i grandi sermoni del cardinale Ratzinger e, undici giorni dopo, lo ha accolto come nuovo Papa sulla loggia della Basilica di San Pietro. Qui c'era una persona che aveva dato tutta la sua vita, i suoi doni spirituali insuperabili, il suo cuore di fede infantile al servizio di Dio e della sua Chiesa.
    Più volte ha rinunciato a seguire il proprio progetto di vita e a contribuire alla storia intellettuale come studioso di teologia e filosofia. Non volle diventare vescovo di Monaco Frisinga (1977), né prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede (1981 - 2005). Per tre volte aveva presentato le sue dimissioni, per tre volte gli erano state rifiutate da Papa Giovanni Paolo II. Era sicuro, ci ha detto in questi giorni a Roma il cardinale Koch, che il Papa appena eletto non avrebbe potuto rifiutare la sua richiesta, non sospettando che lui stesso sarebbe stato quel Papa. Joseph Ratzinger desiderava tutt’altro che diventare Papa. Quando il cardinale Meisner gli chiarì che l'elezione sarebbe toccata a lui e che avrebbe dovuto accettare l'elezione, divenne quasi categorico. Desiderava finalmente scrivere libri nella sua modesta casa di Pentling, vicino a Ratisbona, un desiderio così forte che lo realizzò anche quando era ancora Papa con la sua opera in tre volumi su Gesù Cristo. Quando il 19 aprile è salito sulla loggia e ha salutato il popolo acclamante, ha chiesto alla folla di pregare per lui affinché non scappi dai lupi.

    I branchi di lupi provengono principalmente dal suo paese d'origine, la Germania. Hanno mostrato i denti al "Panzerkardinal" e al "Rottweiler di Dio", qualunque cosa potesse fare. Il fatto che sia stato Joseph Ratzinger a dare un giro di vite agli abusi sessuali nella Chiesa come nessun altro, non li ha placati, il che dimostra che non era questo il loro scopo. Ratzinger è odiato perché non "appartiene al mondo" (cfr. Gv 15, 15-19) e ha predicato alla Chiesa la necessità di de-mondanizzarsi, già nel 1958 nella sua profetica conferenza sul "nuovo paganesimo che cresce inesorabilmente nel cuore della Chiesa" e di nuovo nel suo discorso nella sala da concerto di Friburgo nel 2011. Nemmeno nei giorni del suo ultimo addio sono state fermate le odiose vituperazioni della televisione di Stato. È come se un branco di pinscher assatanati attaccasse un gigante perché la sua luce non illumini il mondo, ma brillerà tanto più intensamente quanto più ne avremo bisogno dopo la sua morte.
    La Germania avrebbe potuto guardare a Benedetto XVI, che gode del massimo rispetto nella Chiesa universale e tra i leader delle altre religioni, ma non ha voluto farlo. "[Gerusalemme, Gerusalemme], quante volte avrei voluto raccogliere i tuoi figli intorno a me, come una gallina raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, ma tu non hai voluto" (Mt 23,37), lamenta Gesù poco prima della sua crocifissione. La Germania preferisce rimanere bloccata nel pantano della colpa e arrendersi a un libertinismo totalitario con un occhio solo. Alla Messa di Requiem in Piazza San Pietro del 5 gennaio 2023, c'erano bandiere bavaresi ma solo una tedesca. A differenza dei polacchi, a noi tedeschi non è permesso amare il nostro Paese, né il nostro Papa.
    Ciò che è sconvolgente è che non è amato nemmeno nel cuore della Chiesa cattolica. Alla sua morte, avvenuta il 31 dicembre 2022, le campane suonarono nella città di Roma e in molti Paesi, ma non in Vaticano. Le bandiere erano a mezz'asta - non così in Vaticano. I funerali sono stati fissati al quinto giorno dopo la sua morte, sebbene il protocollo per il Papa preveda nove giorni. La salma del Papa è stata trasferita in un furgone bianco dal monastero Mater Eccelsiae fino alla Basilica di San Pietro. Come faceva freddo in Piazza San Pietro al Requiem, così faceva freddo alla cerimonia. Gli uccelli sopra le nostre teste urlavano il dolore delle 50.000 persone riunite lì mentre noi recitavamo il Rosario. È stato impressionante vedere quanti giovani e quanti giovani sacerdoti, provenienti da tutto il mondo, siano accorsi in Piazza San Pietro.
    Papa Francesco, legato a una sedia a rotelle e vestito con un mantello fumante, non ha celebrato se stesso. Nel suo sermone di sette minuti, non si sapeva bene di chi stesse parlando, di Gesù, di Benedetto, di se stesso, perché ha citato il nome del suo predecessore solo nell'ultima frase. Un dotto teologo ha detto che Papa Francesco ha usato quattro citazioni di Ratzinger, ma non le ha indicate. Lo splendor veritatis, il fulgore della verità che irradia l'intera opera del "cooperator veritatis" non è stato lasciato brillare.
    Ma i segni parlano. Papa Benedetto XVI è morto il 31 dicembre 2022, ultimo giorno dell'anno, ultimo giorno dell'ottava di Natale, giorno della memoria di Catherine Labouré. Le letture e il Vangelo di quel giorno sembrano essere stati scelti per lui. La lettura dice: "Figlioli, è l'ultima ora. Avete sentito dire che l'Anticristo sta arrivando, e ora sono arrivati molti Anticristi. Da questo sappiamo che è l'ultima ora. Sono venuti da noi, ma non ci appartengono; perché se ci fossero appartenuti, sarebbero rimasti con noi. Ma dovrebbe risultare evidente che non appartengono tutti a noi" (1 Giovanni 2:18-21).
    Sullo sfondo del cosiddetto "Cammino sinodale" dei vescovi tedeschi in solidarietà con il Comitato centrale dei cattolici tedeschi, un organismo laico non rappresentativo, queste parole colpiscono nel segno, perché la maggioranza dei vescovi in Germania è in apostasia - si è allontanata dalla fede - secondo il giudizio del pubblicista statunitense George Weigel. In occasione di un incontro dell'"Initiative Neuer Anfang" tedesca, un movimento di raccolta di fedeli cattolici, con il cardinale Gerhard Müller in occasione del Requiem, gli chiesi se riteneva possibile che il cammino sinodale tedesco fosse l'avanguardia del cammino sinodale di tutta la Chiesa. Non ha risposto alla domanda. Presto sarà chiaro.
    Papa Benedetto non è fuggito dai lupi, ma questi gli hanno procurato le più grandi sofferenze con la loro "ostilità pronta a balzare" e durante la sua vita hanno ostacolato i suoi sforzi per riportare la Chiesa alla sua vera missione: la proclamazione del messaggio immutabile di Gesù Cristo e l’approntamento dei mezzi di salvezza per i fedeli al fine di raggiungere la vita eterna nella gloria di Dio.
    Il Vangelo del giorno della morte era il Prologo di Giovanni, il più grande condensato della rivelazione di Dio attraverso il suo Figlio Gesù Cristo. "Venne tra i suoi, ma i suoi non lo accolsero" (Giovanni 1:11). Joseph Ratzinger ha dispiegato instancabilmente il Prologo con la sua predicazione e con la sua vita. Ora è ricevuto dai suoi in cielo, di cui ha parlato così bene nella sua lunga vita.
    Il 31 dicembre è anche il giorno della memoria di Caterina Labouré, che fu incaricata da un'apparizione della Madonna di far coniare una medaglia che si diffuse nel mondo a milioni come "medaglia miracolosa" con la preghiera: "O Maria, concepita senza peccato, prega per noi che ci rifugiamo in te" - anche questo è un testamento.
    Ora è morto il KATECHON, che ha dovuto perseverare per dieci lunghi anni dopo le sue dimissioni e forse ha ancora impedito "all'avversario di sedersi nel tempio di Dio e di pretendere di essere Dio" (2 Ts 2,4). Ora saprà se le sue dimissioni sono state volute da Dio, come Benedetto sicuramente credeva. Joseph Ratzinger ha amato Gesù Cristo e lo ha servito con sacrificio e disponibilità con tutte le fibre della sua grande vita. Amava anche le persone e faceva di tutto perché la strada della Chiesa verso la salvezza rimanesse percorribile. Signore, ti amo, furono le sue ultime parole. Nella tribolazione che ci attende, possiamo attingere alla sua eredità, così come anche noi possiamo crescere e morire in questo amore.
    Fonte: kath.net
     
     
  3. SEM IPC
    Per un cattolico la fede è il compimento della razionalità e la ragione è il terreno naturale sul quale poggiare le basi della fede. Il cap.IV dell'Enciclica Fides et ratio, promulgata da Giovanni Paolo II nel 1998, non senza l'apporto dell'allora card.Joseph Ratzinger, viene proposto al nostro approfondimento dal reverendo professor Alberto Strumia.  Nella ricorrenza di san Tommaso d'Aquino, dottore della Chiesa (28 gennaio), costituisce una lettura davvero magistrale della storia del rapporto fede/ragione nei secoli della cultura cristiana – che un cattolico non deve ignorare, se non vuole finire per ripetere i luoghi comuni del pensiero dominante – indicando un “metodo” utile anche per il nostro presente “lavoro culturale”. 
     
    L’enciclica Fides et Ratio di san Giovanni Paolo II – frutto della stretta sintonia di pensiero e di operatività tra san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, recentemente transitato al Cielo – è tra i documenti ecclesiali più censurati e meno conosciuti. Mentre essa offre nel suo quarto capitolo una lettura davvero magistrale della storia del rapporto fede/ragione nei secoli della cultura cristiana – che un cattolico non deve ignorare, se non vuole finire per ripetere i luoghi comuni del pensiero dominante – indicando un “metodo” utile anche per il nostro presente “lavoro culturale”. Per un cattolico la fede è il compimento della razionalità e la ragione è il terreno naturale sul quale poggiare le basi della fede (credo ut intelligam, intelligo ut credam). Ogni contrapposizione è ingannevole: «Voi attaccaste la ragione. Questa è cattiva teologia», rispose il P. Brown di Chesterton al falso prete, il ladro Flambeau, smascherandolo.
    L’enciclica, in quel capitolo, focalizza le tappe fondamentali della storia dell’incontro di fede e ragione.
    – Nella prima parte del capitolo, si indicano i passaggi che sono stati maturati in vista della costituzione dello spazio teorico che ha reso pensabile il cristianesimo, fino all’elaborazione di una disciplina teologica sistematica.
    – Nella seconda parte si individuano le tappe del processo inverso che ha visto la progressiva separazione tra fede e ragione, fino alla disgregazione della stessa razionalità filosofica.
    Questa lettura di un percorso storico ha la funzione
    – di documentare un metodo di elaborazione culturale (nella prima parte) e
    – di indicare i punti nodali problematici che oggi vanno sbloccati (nella seconda parte)
    sia per l’utilità della fede, che per il recupero di una pienezza della razionalità come tale.
    *  *  *
    I) Prima parte - Il cammino comune di fede e ragione
    a) La liberazione della religione dal mito e la sua fondazione filosofica
    Innanzitutto l’enciclica evidenzia come nel corso della storia del pensiero, prima ancora della rivelazione cristiana, sia stato necessario compiere un passo preliminare, fondamentale per costruire la stessa razionalità dimostrativa: si tratta del passaggio dal mito alla filosofia.
    «Uno degli sforzi maggiori che i filosofi del pensiero classico operarono, infatti, fu quello di purificare la concezione che gli uomini avevano di Dio da forme mitologiche. Come sappiamo, anche la religione greca, non diversamente da gran parte delle religioni cosmiche, era politeista, giungendo fino a divinizzare cose e fenomeni della natura. Fu compito dei padri della filosofia far emergere il legame tra la ragione e la religione. Allargando lo sguardo verso i principi universali, essi non si accontentarono più dei miti antichi, ma vollero giungere a dare fondamento razionale alla loro credenza nella divinità. Si intraprese, così, una strada che, uscendo dalle tradizioni antiche particolari, si immetteva in uno sviluppo che corrispondeva alle esigenze della ragione universale. Il fine verso cui tale sviluppo tendeva era la consapevolezza critica di ciò in cui si credeva. La prima a trarre vantaggio da simile cammino fu la concezione della divinità. Le superstizioni vennero riconosciute come tali e la religione fu, almeno in parte, purificata mediante l’analisi razionale. Fu su questa base che i Padri della Chiesa avviarono un dialogo fecondo con i filosofi antichi, aprendo la strada all’annuncio e alla comprensione del Dio di Gesù Cristo» (n. 36).
    b) La costruzione dello spazio teorico per pensare il cristianesimo
    Giunti alle origini del cristianesimo la fede ha cercato di fondare la sua credibilità teoretica innanzitutto utilizzando gli strumenti della logica dimostrativa e della filosofia.
    Il primo lavoro da compiere, per garantire credibilità alla fede, riguardava la necessità di dimostrare la non contraddittorietà logica del contenuto della Rivelazione, la sua non irrazionalità e, anzi, la sua piena razionalità. E questo è stato uno dei compiti fondamentali degli Apologisti a partire dal secondo secolo cristiano. Il contenuto della Rivelazione può oltrepassare – e di fatto in alcuni dei suoi contenuti oltrepassa – le capacità della ragione di raggiungerlo da sola, ma non può essere accusato di essere contro le regole della logica e quindi ridicolizzato e screditato.
    Un secondo compito, più durevole nel tempo e impegnativo, ha richiesto il lungo lavoro di rielaborazione delle stesse categorie filosofiche per ampliarne la capacità di contenere, fino a poter accogliere, senza eccessive limitazioni, la ricchezza concettuale della Rivelazione che andava oltre ciò che il filosofo da solo poteva elaborare.
    «Nella storia di questo sviluppo è possibile, comunque, verificare l’assunzione critica del pensiero filosofico da parte dei pensatori cristiani. Tra i primi esempi che si possono incontrare, quello di Origene è certamente significativo. Contro gli attacchi che venivano mossi dal filosofo Celso, Origene assume la filosofia platonica per argomentare e rispondergli. Riferendosi a non pochi elementi del pensiero platonico, egli inizia a elaborare una prima forma di teologia cristiana. Il nome stesso, infatti, insieme con l’idea di teologia come discorso razionale su Dio, fino a quel momento era ancora legato alla sua origine greca. Nella filosofia aristotelica, ad esempio, il nome designava la parte più nobile e il vero apogeo del discorso filosofico. Alla luce della Rivelazione cristiana, invece, ciò che in precedenza indicava una generica dottrina sulle divinità venne ad assumere un significato del tutto nuovo, in quanto definiva la riflessione che il credente compiva per esprimere la vera dottrina su Dio. Questo nuovo pensiero cristiano che si andava sviluppando si avvaleva della filosofia, ma nello stesso tempo tendeva a distinguersi nettamente da essa. La storia mostra come lo stesso pensiero platonico assunto in teologia abbia subito profonde trasformazioni, in particolare per quanto riguarda concetti quali l’immortalità dell’anima, la divinizzazione dell’uomo e l’origine del male» (n. 39).
    Tutto questo lavoro ha significato la creazione dello spazio teorico per rendere pensabile il cristianesimo nel quadro storico-culturale del tempo. E quindi vivibile, a pieno titolo, nella società di allora. Basti pensare alla straordinaria opera di messa a punto di un linguaggio adatto ad esprimere i contenuti teologici e filosofici della Rivelazione, formulati prima nella lingua greca, poi ripensati e tradotti in quella latina. L’esempio più formidabile di ampliamento di significato è offerto, quasi sicuramente, da una parola come persona, che dal significato pagano originario di maschera teatrale è giunto ad indicare la persona umana, come ancora oggi la intendiamo, e addirittura le persone divine nella Trinità.
    c) I Padri della Chiesa e il confronto tra la filosofia greca e la visione contenuta nella Rivelazione
    Un passo ulteriore fu quello di non limitarsi solamente a mostrare la non contraddittorietà dei contenuti della Rivelazione (primo passo), né di accontentarsi di creare uno spazio teorico per la pensabilità di quei contenuti (secondo passo), ma di mostrare addirittura la superiorità della concezione cristiana della realtà (mondo, uomo, Dio) rispetto alle filosofie, riconoscendo nel contempo quelli che erano gli elementi comuni. Il cristianesimo viene concepito, oltre che come avvenimento storico dell’Incarnazione e della Redenzione, anche come portatore della vera filosofia.
    «Proprio qui si inserisce la novità operata dai Padri. Essi accolsero in pieno la ragione aperta all’assoluto e in essa innestarono la ricchezza proveniente dalla Rivelazione. L’incontro non fu solo a livello di culture, delle quali l’una succube forse del fascino dell’altra. […]
    Oltrepassando il fine stesso verso cui inconsapevolmente tendeva in forza della sua natura, la ragione poté raggiungere il sommo bene e la somma verità nella persona del Verbo incarnato. Dinanzi alle filosofie, i Padri non ebbero tuttavia timore di riconoscere tanto gli elementi comuni quanto le diversità che esse presentavano rispetto alla Rivelazione. La coscienza delle convergenze non offuscava in loro il riconoscimento delle differenze» (n. 41).
    Con sant’Agostino, nel quarto secolo cristiano, questa opera di elaborazione e sistematizzazione teologica, fondata sulla rielaborazione della tradizione platonica, raggiunge un vertice che sarà un punto di riferimento per i teologi successivi.
    d) La Scolastica e la teologia come scienza
    «Con la Scolastica, e in particolare con sant’Alberto Magno e specialmente con san Tommaso, viene addirittura compiuta la fondazione e la messa a punto di una teologia come scienza, dimostrativa e totalmente sistematica, basata sulla rielaborazione della filosofia aristotelica, ma non senza includere alcuni elementi importanti della tradizione platonica (soprattutto quelli provenienti dallo Pseudo-Dionigi e la dottrina della partecipazione).
    Più radicalmente, Tommaso riconosce che la natura, oggetto proprio della filosofia, può contribuire alla comprensione della rivelazione divina. La fede, dunque, non teme la ragione, ma la ricerca e in essa confida. Come la grazia suppone la natura e la porta a compimento, così la fede suppone e perfeziona la ragione. Quest’ultima, illuminata dalla fede, viene liberata dalle fragilità e dai limiti derivanti dalla disobbedienza del peccato e trova la forza necessaria per elevarsi alla conoscenza del mistero di Dio Uno e Trino. Pur sottolineando con forza il carattere soprannaturale della fede, il Dottore Angelico non ha dimenticato il valore della sua ragionevolezza; ha saputo, anzi, scendere in profondità e precisare il senso di tale ragionevolezza. La fede, infatti, è in qualche modo esercizio del pensiero; la ragione dell’uomo non si annulla né si avvilisce dando l’assenso ai contenuti di fede; questi sono in ogni caso raggiunti con scelta libera e consapevole» (n. 43).
    La chiave di volta, dal punto di vista logico-metafisico, di tutto l’impianto sistematico di Tommaso sta nella dottrina dell’analogia-partecipazione che permette alla ragione di compiere due grandi passi:
    i) innanzitutto quello di riconoscere modi e gradi di perfezione differenziati nella realtà (ente), nella sua conoscibilità (vero), nel suo essere desiderabile e amabile (bene), nell’organicità del suo essere un tutto (uno);
    ii) e insieme quello di elevarsi dall’esperienza dei gradi materiali e sensibili dell’essere alla conoscenza, pur limitata, ma vera, dei livelli superiori non immediatamente e adeguatamente conoscibili, ma neppure del tutto inaccessibili.
    E sembrano proprio questi i nodi verso i quali le scienze più avanzate paiono oggi, pur se ancora timidamente, aspirare nella loro ricerca di fondamenti.
    (segue)
  4. SEM IPC
    Saper percepire cosa  potrà  succedere nella nostra santa Chiesa  credo sia prerogativa dei  Santi. Ma i rischi  che si corrono ( certamente discutibili…) son percepibili anche da osservatori  sensibili.
    1°punto -Un  rischio  per un cattolico in questo XXI secolo è di sentirsi …“ poco coraggioso” e anziché impegnarsi a “fecondare “il mondo anche, o meglio, proprio oggi, in queste condizioni, secondo le aspettative di Gesù Cristo, accetti  a scatola chiusa  la profezia   di prevedere di  ridursi a “piccolo gregge” (molto molto creativo però …)   
    2°punto- Certo non è facile vivere la propria fede esemplarmente in modo di contagiare e fare apostolato, quando  ci si sente obiettare che ciò che  si propone, per evangelizzare, non è “esattamente” quello che  dicono e scrivono i massimi responsabili della Chiesa  ( la Gerarchia), facendo perdere credibilità  apostolica e crescendo persino i dubbi a chi pretende di aver capito meglio dei Capi ( la Gerarchia)  ciò che voleva il Fondatore della Chiesa. Ma chi avrà ragione ?  
    3°punto- Altro rischio conseguente  sta nei   contrasti comportamentali,  tra cattolici più ortodossi ( più rigidi ? ) e più progressisti  ( più  permissivi ? ) verso il  concetto di peccato. Ciò grazie  al  divario tra ideali spirituali e reali ( ci son tentazioni cui non si può resistere ?). In economia c’è una legge , la Legge di Gresham , che dice che la moneta cattiva scaccia quella buona. Vuoi vedere che la legge di Gresham si può applicare anche in materia religiosa sospettando che la morale cattiva scacci quella buona?  Risultato potrebbe essere eccessiva relativizzazione della morale.
    Conclusione: prospettive poco ottimistiche, contrasti nella evangelizzazione, relativizzazione della morale. Si deve riflettere come avrebbe fatto S.Tommaso ( se ci ricordiamo ancora chi è e cosa ha scritto).
     
    Cartesio, dopo quattro secoli, sarebbe soddisfatto (certo  non solo lui …), di come si sta finalmente riorganizzando  la dottrina cattolica spirituale,  in dottrina pratica di etica sociale. Il pontefice del Positivismo, Augusto Comte , dopo  poco meno di due secoli, sarebbe  altrettanto, o più, soddisfatto di aver ben profetizzato chi sarebbero stati i grandi riformatori  di detta dottrina .
    Ogni  cultura ha vissuto  negli ultimi  cinque secoli  il processo di  laicizzazione del sacro , ma  in modo diverso , sapendo conservarlo, ridurlo o  perderlo. Dopo l’illuminismo in Francia si assistette ad un rapido processo di "decristianizzazione". Nel Regno Unito, invece, di secolarizzazione della cultura. In Italia, dove la Chiesa cattolica apostolica romana  è  nata, vissuta  e  espansa  nel mondo tutto,  in più fasi e tempi,  si è assistito  ad un processo  molto diverso, più lento e progressivo, poi accelerato,  di destrutturazione . Questo processo   si è realizzata in modo   assolutamente originale e specifico,  che solo poteva esser concepito  per  la Chiesa di Cristo,  essendo la Chiesa l’unica autorità morale al mondo strutturata  secondo un modello di gestione assoluto e  accentrato  in una sola persona. Vorrei sottolineare questo punto: solo il Papa  può essere infallibile ( in materia di fede e morale ) , è un Dogma ( Concilio Vaticano I -18luglio 1870) .
    Conseguenza ?
    L’effetto specifico oggi, nel mondo cattolico,  sembra  essere   di “confusionalizzazione” su cosa sta accadendo e perché , con conseguente confusione sulla obbedienza, a chi e   su cosa. I cattolici sembrerebbero oggi  trovarsi  su una linea di confine  ( borderline ),  cercando di capire se e come adeguarsi al nuovo ordine dottrinale percependo la fine del vecchio ordine . In molti son convinti  che la civiltà cristiana  sia  morta e sepolta  e si debba  pertanto  spegnere la luce, altri son già disposti e pronti alla riconversione a  funzionari di  una onlus  che si occupa di sociale, altri  ancora  stanno pensando al ritorno nelle catacombe. Ma il pensare di doversi rassegnare a  ridursi a “piccolo gregge”, più o meno creativo, e pertanto rifiutarsi di pensare che Dio  si sia incarnato, sia stato crocefisso  e risorto,  e   2000 anni dopo debba  congratularsi per questa scelta coraggiosa  di diventare piccolo gregge  creativo, dovrebbe   pretendere una riflessione attenta ( appunto tomistica). Non solo perché  questo piccolo gregge  non inciderebbe in  quasi nulla e in nessun posto  e per  chissà quanti secoli, ma  considerando anche che  questo piccolo gregge, in questi tempi transumanisti, potrebbe anche esser  identificato come  una  “setta”  pericolosa da tener sotto osservazione , se non peggio… .
    Il Grande Joseph Ratzinger lo  spiegò profetizzandolo, è vero, ma nel lontano  1969, a fine Vaticano II, quando non era ancora Arcivescovo. Forse aveva ragione  e le ragioni che adduceva  sulla crisi in atto  sono condivisibili,  certo potrà risorgere una chiesa della fede, ma nel frattempo ?  Alla umanità chi racconterà la buona novella ? E qui vorrei proporre una riflessione .
    Anche la Chiesa, alla fine, è un mezzo, sacro perché voluto da GesùCristo, sacro perché  è  il mezzo di Redenzione, ma  non è la Chiesa  il Fine . Ma  se  la Chiesa è un mezzo, anziché  cambiarlo, o attendere che cambi , non è più logico  riferire la proprie attenzioni  a  chi lo utilizza  e potrà utilizzarlo?  Questa riflessione vale per ogni considerazione  su mezzi, fini  e utilizzo dei mezzi  per raggiungere un fine. Ma qui stiamo parlando di un fine ultimo :la salvezza.  
    Negli ultimi tempi gli errori fatti all’interno della Chiesa non son stati pochi . Il  rifiuto della scolastica e del  tomismo probabilmente è stato uno dei più importanti  .  Se non si  capisce  cosa conta e non si difende ciò cui si crede si è destinati a perderlo  e pertanto vivere di riserve spirituali  accumulate in precedenza e poi   di scuse e giustificazioni. Senza  le sue fondamenta  continuamente rinforzate  la civiltà  decade ,si corrompe inevitabilmente , perde la visione d’insieme naturale e soprannaturale, immanente e trascendente, perde la certezza del valore del libero arbitrio  accettando  un determinismo scientista, perde  il valore delle opere  legate alla fede  e permette a utopie di affermarsi, nella  dichiarata capacità di valorizzare e persino salvare l’uomo. Perdendo anche la speranza  e confondendo pertanto la certezza di  “che fare “ .
    Per decidere  ciò   che è opportuno fare, si  rifletta  secondo  san Tommaso - Aristotelico .
  5. SEM IPC
    Son passati 75 anni dalla Mediator Dei, pubblicata il 20 novembre 1947, dal Venerabile Pio XII: il documento dottrinale più importante sulla liturgia prima del concilio Vaticano II, senza del quale la Costituzione sulla sacra liturgia, emanata solo sedici anni dopo, il 4 dicembre 1963, non si comprende appieno. Ne è la fonte principale, quanto ad impostazione classica e a contenuti dottrinali, e un termine di paragone con le istanze antiche e nuove della liturgia[…].
    La riforma liturgica, secondo Pio XII, risulta dunque dalla necessità delle cose, perché la liturgia stessa è una forma che continuamente tende a ri-formarsi nel senso dello sviluppo organico. Gli abusi non possono metterla in dubbio; perciò egli rammenta che “per tutelare la santità del culto contro gli abusi” esiste la Congregazione dei Riti. La liturgia è manifestazione della Chiesa corpo e Capo, organismo che produce energie sempre nuove pur conservando la sua forma fondamentale. Tutto questo sarà ribadito dalla Costituzione liturgica (cfr n 21)[…].
    Va tenuto presente quanto il cardinal Robert Sarah, prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, ha affermato in proposito: “Lungi dal riguardare solamente la questione giuridica dello statuto dell'antico Messale Romano, il Motu proprio pone la questione dell'essenza stessa della liturgia e del suo posto nella Chiesa. Ciò che è in causa è il posto di Dio, il primato di Dio. Come sottolinea il "papa della liturgia"(ndr Benedetto XVI): "Il vero rinnovamento della liturgia è la condizione fondamentale per il rinnovamento della Chiesa"[…]
    Ecco la vera e profonda ragione sottesa al Summorum Pontificum: rispondere in maniera più adatta ed efficace all’esigenza spirituale e pastorale di quanti, pur tributando il giusto ossequio e la giusta obbedienza a quanto stabilito dal Concilio Ecumenico Vaticano II, scossi e perplessi a causa delle “deformazioni” liturgiche che si verificarono nell’immediato post-Concilio - ed a cui ancora oggi siamo costretti in molti casi ad assistere - trovavano e trovano nella forma liturgica precedente il modo più adeguato e fruttuoso per coltivare il loro rapporto con Dio[…].
    Mediator Dei e Summorum Pontificum costituiscono il rimedio ad una concezione della liturgia privata della Presenza Divina, perché dinanzi all’archeologismo, alle deformazioni e agli abusi, riaffermano il diritto liturgico, quale tutela dei diritti di Dio nel culto[…].
    Lo studio e il dibattito sul primato dello ius divinum mi sembra essenziale per favorire la riforma della liturgia secondo la Costituzione conciliare compresa nel contesto della tradizione cattolica e porre fine al relativismo liturgico[…].
    Si deve constatare che nella liturgia nuova, non di rado sembra come se in essa Dio non c’è: è venuta meno la riverenza e il sacro, in una parola l'adorazione, perché non si è più consapevoli di stare alla presenza divina. Non si glorifica primariamente Dio, di conseguenza l'uomo non è santificato e il mondo non è “consacrato”. Basilio ricorda: “Tutto ciò che ha un carattere sacro è da lui – lo Spirito – che lo deriva”. Ecco che la riforma deve cominciare dalla rinascita del sacro nei cuori e parallelamente del timore di Dio[…]
    Di qui deve cominciare la riforma della riforma: “dalla presenza del sacro nei cuori, la realtà della liturgia e il suo mistero”. Un mistero che ha bisogno di spazio interiore ed esteriore. Joseph Ratzinger scriveva: «Questa, credo, è la prima cosa: sconfiggere la tentazione di un fare dispotico, che concepisce la liturgia come oggetto di proprietà dell'uomo, e risvegliare il senso interiore del sacro. Il secondo passo consisterà nel valutare dove sono stati apportati tagli troppo drastici, per ripristinare in modo chiaro e organico le connessioni con la storia passata. Io stesso ho parlato in questo senso di “riforma della riforma”. Ma, a mio avviso, tutto ciò deve essere preceduto da un processo educativo che argini la tendenza a mortificare la liturgia con invenzioni personali».[…]
    Nella comprensione del concilio Vaticano II e della riforma liturgica, è dunque fallita “l’ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto Chiesa”, che egli argomentò con spirito critico ma costruttivo, con i discorsi alla Curia Romana (22 dicembre 2005) e ai sacerdoti romani nel febbraio 2013? No, a mio modesto avviso, se non porremo ostacoli ai rimedi fin qui accennati, che stanno emergendo dal basso e dall’Alto: assecondiamoli con devozione e carità! San Carlo Borromeo, grande riformatore, era convinto che la Chiesa ha al suo interno le energie per rigenerarsi.
    Se taluni che la criticano, ritengono che la Chiesa troverà proprio da questa profonda crisi di fede uno sprone per rinnovarsi e purificarsi, allora non sostengano “l’ermeneutica della discontinuità e della rottura”, con la delegittimazione del concilio e del Novus Ordo, abbandonino posizioni pregiudiziali e oltranziste, quel radicalismo deleterio che finisce per dare ragione a quanti contrappongono due ecclesiologie, mettendo così in difficoltà tanti vescovi, sacerdoti e fedeli che, dopo gli ultimi documenti pontifici, non hanno cambiato il loro atteggiamento. Uno degli effetti, se non il più pernicioso, della negazione dell’ermeneutica della continuità e che certe posizioni estreme, radicali, finiscano poi per darsi idealmente la mano. Persistiamo invece con realismo, nel pensiero cattolico. E’ in movimento una nuova generazione: è un fiume sotterraneo che, con la pazienza dell’amore (cfr 1 Cor 13) sta riaffiorando, e vincerà.
    Il video e il testo completo della relazione disponibili  qui e
    qui N.Bux - Dalla Mediator Dei 16 settembre 2022.docx
     
  6. SEM IPC

    fede e ragione
    In una società ancorata ad un pragmatismo materialistico hanno senso gli ideali nella convivenza umana ispirati a modelli di società o personaggi storici esemplari in termini etici?  La cultura attuale afferma l’ideale secondo criteri personalistici di successo e di affermazione sociale con richiami narcisistici ed egocentrici.
    Svelare l’inganno di una propaganda mediatica è un compito arduo ma doveroso per il riscatto di una umanità in cui l’essere umano possa credere ed esercitare una “Perfetta filantropia”.
     
    Il divenire dell’essere umano si manifesta nella storia in un percorso controverso di afflizioni, gioie e dolori, così da rendere significativo il valore della propria esistenza in termini di maturazione e possibilmente di saggezza.
     Le vicende liete e nefaste si ripercuotono nella persona per forgiare il temperamento quanto possa essere orientato alle mete della realizzazione del propri sogni e ideali.
    Il tempo assume una importanza innegabile nel compimento della crescita personale per consolidare l’esperienza, risorsa da cui attingere l’insegnamento per giungere ad un adeguata capacità di giudizio di fronte alle scelte da effettuare nella realtà.
    La realtà nella quale l’uomo ha sempre dovuto confrontarsi è circoscritta dai confini delle proprie ambizioni e possibilità oltre i quali ha sperimentato i propri limiti che hanno da sempre motivato la propria inquietudine proiettata in una dimensione in cui la sublimazione degli ideali scaturisce dall’ingannevole esaltazione dei miti.
    Resta nei confini dell’immaginario il fascino del mito a cui l’uomo può sentirsi attratto per dedicare particolare attenzione e rappresentare  un mondo confacente ai propri bisogni interiori appagabili  nell’ambito della propria convivenza sociale sul piano materiale o spirituale.
    Il mito è concepibile in termini essenziali come un evento esemplarmente idealizzato in corrispondenza di una carica di eccezionale e diffusa partecipazione fantastica o religiosa.
    L’ideale al quale l’uomo può suscitare particolare interesse è sempre in rapporto col proprio ambiente portatore di opportunità per la propria affermazione.
    Vale a questo punto citare l’esempio della così detta età classica quando Atene, grazie ad alcuni grandi uomini come Efialte e Pericle, elaborò una costituzione democratica a carattere diretto che rimase modello di perfezione in tutti i tempi: per essa sostanzialmente qualsiasi cittadino, anche il meno abbiente, poteva raggiungere le massime cariche pubbliche e teoricamente, almeno una volta nella sua vita, aspirare alla presidenza dello Stato per la durata di ventiquattro ore.
    A tal punto resta pertanto l’incognita di una società idonea a recepire gli ideali elevati dell’uomo.
    Il mito della società perfetta ha ispirato le varie ideologie: impostate alla pretesa di plasmare l’essere umano secondo criteri dogmatici lontani da una concezione naturalistica e umanitaria.
    Le tragedie del novecento hanno fatto naufragare i miti delle ideologie in utopie.
    Il confine sul quale la religione contrasta il mito è il richiamo alla sacralità della vita in una visione escatologica, che può influire in modo notevole sulla visione   del mondo e la condotta costante dell’essere  umano.
      L’ideale della società perfetta avrà i meriti di una convivenza fondata su valori prettamente spirituali esenti da impostazioni esaltanti di personalismi ed egocentrismi che sottendono ingannevoli ideali.                 
    Il vero ideale illumina la dignità umana degno di apprezzamento nella inclinazione disinteressa alla promozione umana quando si presentano ostacoli in una società a misura d’uomo quali la povertà, l’ingiustizia, la discriminazione, la violenza, la prevaricazione.
    Qual è il nodo cruciale della percezione ideale dell’uomo se non la concezione etica della perfezione.
    Secondo Parsifal, cavaliere della Tavola rotonda “L’ideale dell’uomo nuovo deve essere: un cuore puro come un cristallo, una mente chiara come il Sole, un’anima ampia come l’Universo, uno spirito come Dio e uno con Dio! »
    Al di là tali simbolismi l’ideale umano secondo la concezione etica quindi rispecchia la figura della perfezione.
    Etica
    Il problema dell’etica della perfezione non consiste nel determinare se l’uomo sia perfetto ma se dovrebbe esserlo e in che modo.
    Secondo Platone il concetto fondante nel suo pensiero corrisponde alla perfezione: supponeva che avvicinarsi all’idea della perfezione  rende perfette le persone.
    Gli storici attribuirono al concetto di perfezione il significato di armonia a cui tutti gli uomini potevano giungere introducendo una massima filosofica che nella cristianità divenne un valore religioso.
    La dottrina cristiana della perfezione è riscontrabile nei Vangeli. Il Vangelo di S. Matteo riporta il richiamo: "Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste" (Mt 5,48). Una simile raccomandazione è presente nel Vangelo di S. Luca in cui il termine “perfetti” viene sostituito da “caritatevoli”
    Una particolare citazione meritano un nutrito numero di scritti cristiani.
    Diversi scritti di San Paolo presentano richiami alla perfezione. Altri sono contenuti in un discorso di Sant’Agostino De perfectione iustitiae hominis. Essi sono però presenti anche nel Vecchio Testamento: "Tu sarai irreprensibile verso il Signore tuo Dio" (Deuteronomio 18:13). Sant’Agostino afferma che l’uomo perfetto non è l’uomo senza peccato ma una persona decisa a raggiungere la perfezione.
    In riferimento al concetto di perfezione la Sacra scrittura espone dubbi sulla possibilità dell’uomo a raggiungere la perfezione. In diverse fonti la perfezione è tradotta nei termini di incensurato, immacolato, senza difetti, senza peccato, santo, virtuoso.
    Se per gli antichi filosofi il valore intrinseco della perfezione riguardava l’armonia, per il Vangelo e i teologi cristiani riguardava l’amore o la carità.
    Citando quanto affermato da Egidio Romano la perfezione non ha solo fonti personali ma anche sociali. Sapendo che l’individuo si forma nella società, nella condizione sociale risiede quella personale.
    La perfezione sociale è vincolante per l'uomo, mentre quella personale è per lui solo confacente.
    Il condensato del messaggio evangelico riporta in sé il valore della sapienza nella quale risiede la lungimirante prospettiva della meta cristiana da realizzare nell’ideale di perfezione della Santità.
                                                                                              
  7. SEM IPC
    Proseguiamo qui la sintetica presentazione del tracciato del IV capitolo dell’Enciclica Fides et Ratio, frutto del lavoro, svolto in piena sintonia, di san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.
    II) Seconda parte - La progressiva separazione e contrapposizione tra fede e ragione
    A partire proprio dal tredicesimo secolo, dagli stessi contemporanei di san Tommaso, si comincerà a comprendere sempre meno la lezione dell’analogia dell’ente e del vero e, in nome di un maggior grado di certezza della conoscenza, ci si concentrerà sempre di più sull’univocità, più facile da comprendere, più agevole da controllare. Questo modo di procedere apparirà addirittura, ad alcuni, come un servizio alla verità, anziché una limitazione, un miglioramento della scienza anziché un suo impoverimento qualitativo.
    a) Univocità e nominalismo: il ruolo esclusivo della matematica
    Ma si tratterà di un potenziamento unilaterale di qualche aspetto della razionalità, soprattutto di quella matematica, a scapito degli altri.
    La ricaduta sulla teologia, della perdita dell’analogia, si farà sentire prima nell’univocità del pensiero protestante, poi nell’esasperazione quasi sofistica di certa tarda Scolastica e infine nella riduzione della stessa teologia a pura narrazione.
    «Con il sorgere delle prime università, la teologia veniva a confrontarsi più direttamente con altre forme della ricerca e del sapere scientifico. Sant’Alberto Magno e san Tommaso, pur mantenendo un legame organico tra la teologia e la filosofia, furono i primi a riconoscere la necessaria autonomia di cui la filosofia e le scienze avevano bisogno, per applicarsi efficacemente ai rispettivi campi di ricerca. A partire dal tardo Medio Evo, tuttavia, la legittima distinzione tra i due saperi si trasformò progressivamente in una nefasta separazione. A seguito di un eccessivo spirito razionalista, presente in alcuni pensatori, si radicalizzarono le posizioni, giungendo di fatto a una filosofia separata e assolutamente autonoma nei confronti dei contenuti della fede. Tra le altre conseguenze di tale separazione vi fu anche quella di una diffidenza sempre più forte nei confronti della stessa ragione. Alcuni iniziarono a professare una sfiducia generale, scettica e agnostica, o per riservare più spazio alla fede o per screditarne ogni possibile riferimento razionale.
    Insomma, ciò che il pensiero patristico e medievale aveva concepito e attuato come unità profonda, generatrice di una conoscenza capace di arrivare alle forme più alte della speculazione, venne di fatto distrutto dai sistemi che sposarono la causa di una conoscenza razionale separata dalla fede e alternativa ad essa» (n. 45).
    Gradualmente quegli aspetti della razionalità, che prima era concepita analogicamente, verranno a contrapporsi anziché integrarsi: ciò che prima era riconosciuto come, in certa misura, reale (l’universale) sarà considerato un puro nome (nominalismo). Il sapere passerà, un po’ alla volta, da una struttura organica e analogica ad una struttura univoca e dialettica: contrapposizione in luogo della integrazione dei diversi gradi di perfezione.
    b) Il pensiero moderno e contemporaneo
    L’enciclica continua, poi, la sua lettura della storia del pensiero occidentale riferendosi, allo sviluppo del pensiero filosofico e scientifico moderno e contemporaneo fino ai nostri giorni.
    «Le radicalizzazioni più influenti sono note e ben visibili, soprattutto nella storia dell’Occidente. Non è esagerato affermare che buona parte del pensiero filosofico moderno si è sviluppato allontanandosi progressivamente dalla Rivelazione cristiana, fino a raggiungere contrapposizioni esplicite. Nel secolo scorso, questo movimento ha toccato il suo apogeo. Alcuni rappresentanti dell’idealismo hanno cercato in diversi modi di trasformare la fede e i suoi contenuti, perfino il mistero della morte e risurrezione di Gesù Cristo, in strutture dialettiche razionalmente concepibili. A questo pensiero si sono opposte diverse forme di umanesimo ateo, elaborate filosoficamente, che hanno prospettato la fede come dannosa e alienante per lo sviluppo della piena razionalità. Non hanno avuto timore di presentarsi come nuove religioni formando la base di progetti che, sul piano politico e sociale, sono sfociati in sistemi totalitari traumatici per l’umanità.
    Nell’ambito della ricerca scientifica si è venuta imponendo una mentalità positivista che non soltanto si è allontanata da ogni riferimento alla visione cristiana del mondo, ma ha anche, e soprattutto, lasciato cadere ogni richiamo alla visione metafisica e morale. La conseguenza di ciò è che certi scienziati, privi di ogni riferimento etico, rischiano di non avere più al centro del loro interesse la persona e la globalità della sua vita. Di più: alcuni di essi, consapevoli delle potenzialità insite nel progresso tecnologico, sembrano cedere, oltre che alla logica del mercato, alla tentazione di un potere demiurgico sulla natura e sullo stesso essere umano» (n. 46)
    A questo punto, ormai, il processo ha invertito del tutto il suo senso di marcia. Si cerca:
    i) da un lato di estrapolare alcune categorie teologiche cristiane svincolandole dalla Rivelazione (considerata come un supporto mitologico surrettizio) e trapiantandole in sistemi filosofici sostanzialmente non più cristiani;
    ii) dall’altro di rimuovere anche i fondamenti puramente filosofici che sono serviti all’elaborazione di una teologia come scienza.
    Ma una simile operazione non poteva non finire per demolire anche gli elementi indispensabili alla ragione filosofica come tale. Così quest’ultima si è gradualmente trovata senza un fondamento su cui basarsi per poter procedere.
    «Come conseguenza della crisi del razionalismo ha preso corpo, infine, il nichilismo. Quale filosofia del nulla, esso riesce ad esercitare un suo fascino sui nostri contemporanei. I suoi seguaci teorizzano la ricerca come fine a se stessa, senza speranza né possibilità alcuna di raggiungere la meta della verità. Nell’interpretazione nichilista, l’esistenza è solo un’opportunità per sensazioni ed esperienze in cui l’effimero ha il primato. Il nichilismo è all’origine di quella diffusa mentalità secondo cui non si deve assumere più nessun impegno definitivo, perché tutto è fugace e provvisorio» (n. 46).
    E ancora:
    «Non è da dimenticare, d’altra parte, che nella cultura moderna è venuto a cambiare il ruolo stesso della filosofia. Da saggezza e sapere universale, essa si è ridotta progressivamente a una delle tante province del sapere umano; per alcuni aspetti, anzi, è stata limitata a un ruolo del tutto marginale. Altre forme di razionalità si sono nel frattempo affermate con sempre maggior rilievo, ponendo in evidenza la marginalità del sapere filosofico. Invece che verso la contemplazione della verità e la ricerca del fine ultimo e del senso della vita, queste forme di razionalità sono orientate – o almeno orientabili – come ragione strumentale al servizio di fini utilitaristici, di fruizione o di potere» (n. 47).
    Ai nostri giorni sembra essere ormai completa la parabola discendente, descritta nella seconda parte e si apre, come si è rilevato in precedenza, il problema di una rimessa a punto delle basi della razionalità, resasi urgente sia dal punto di vista esterno (problema delle conseguenze sulla vivibilità della società) che da quello interno (problema dei fondamenti della razionalità). È questo il quadro in cui oggi si viene a collocare il “problema dei fondamenti”: ciò che, a prima vista potrebbe apparire solo una questione per gli specialisti della filosofia delle scienze, si rivela essere, in realtà quello ben più profondo dei fondamenti metafisici della stessa razionalità della realtà e della conoscenza, e la condizione stessa della vivibilità della esistenza personale e sociale dell’essere umano.
    la prima parte disponibile qui
  8. SEM IPC
    Una nuova “scelta religiosa”
     
    Recentemente alcuni autori hanno pubblicato articoli e libri, diffusi soprattutto in ambiente cattolico conservatore e tradizionalista, che propongono una soluzione capace di favorire la sopravvivenza della Fede cristiana in una società che sta passando dalla indifferenza alla persecuzione della Chiesa. Questa strategia prevede che la comunità ecclesiale attui una strategia di emergenza compiendo una nuova “scelta religiosa”, dopo quella fatta dall’Azione Cattolica Italiana negli anni 1960-1970.
    La vecchia “scelta religiosa” spinse il laicato cattolico ufficiale a rinunciare a una specifica azione politica cristiana, al fine di contribuire alla costruzione di una “cristianità profana”, o meglio di una laicista “città dell’Uomo”. Quella scelta causò la sudditanza dei cattolici al progetto “progressista”, la loro irrilevanza politica e la consegna della società civile alle forze rivoluzionarie, come avevano vanamente ammonito intellettuali inascoltati del calibro di Del Noce e Baget-Bozzo.
    Oggi, i fautori della nuova “scelta religiosa”, pur ammettendo il fallimento di quella vecchia, credono che sia ormai irrealizzabile l’incompiuto progetto – sempre raccomandato dalla Chiesa al laicato militante – di riconquistare la società alla Fede e di restaurare una Cristianità. Pertanto, essi esortano i fedeli a rassegnarsi all’apostasia della secolarizzata società moderna, considerata ormai come persa e irrecuperabile, a rinunciare a riconquistarla a Cristo e a ritirarsi dal “pubblico” al “privato”.
    Essi propongono che la Chiesa non si ostini più a evangelizzare, o anche solo a risanare, la vita sociale, giuridica e politica delle nazioni, ma anzi eviti prudentemente di compromettersi in questo campo pericoloso rischiando di suscitare ripulse e persecuzioni. Bisogna semmai che la Chiesa si limiti a chiedere al potere laicista di tollerare benevolmente la sopravvivenza della presenza “religiosa” (ossia solo spirituale) cristiana nella sua qualità di umile contributo dato per facilitare il progresso dell’umanità e la tutela della natura.
     
    Un preteso “ritorno alle origini”
     
    In concreto, questa nuova “scelta religiosa” prevede realizzare una sorta di “ritorno alle origini della Chiesa”. Infatti, si pretende che ormai la Chiesa possa sopravvivere al dominio laicista solo ritornando al (supposto) modo di vita dei primi cristiani, rinunciando a “propaganda” e “proselitismo” (ossia all’apostolato e alla conversione) e limitandosi a un’attività di testimonianza spirituale da tentare solo nel campo personale e familiare, o al massimo locale.  
    Poco dopo la chiusura dell’ultimo Concilio Ecumenico, questa strategia di rinuncia e di ritirata fu proposta da alcuni teologi progressisti moderati, spaventati dalla reazione anticristiana del Sessantotto e preoccupati dalla crescente crisi religiosa. Ad esempio, alcuni aspirarono che la Chiesa, rinunciando a privilegi e poteri, si riduca a una “piccola comunità interiorizzata e semplificata”, al fine di “ricominciare tutto daccapo” (J. Ratzinger, Fede e futuro, Queriniana, Brescia 1971, cap. V). Altri elaborarono addirittura una esplicita “teologia del fallimento”, sostenendo che il fallimento storico della Chiesa ne prova la nobile estraneità al mondo.
    Analoga soluzione viene oggi proposta al mondo cattolico dai fautori della nuova “svolta religiosa”. Essi esortano a disertare dalla fallimentare guerra in difesa della civiltà cristiana e di ripiegare in una “rivoluzione spirituale” che permetta ai cristiani di diventare “testimoni silenziosi e agenti segreti di Dio” e alla Chiesa di “sopravvivere nel privato” (Chantal Del Sol, La fine della cristianità e il ritorno del paganesimo, Cantagalli, Siena 2022, cap. V). Altri invitano i cristiani a “rifugiarsi in catacombe esistenziali” che permettano di “aprire condizioni di nicchia in terra ostile” (Boni Castellane, In terra ostile, La Verità, Milano 2023, pp. 90 e 125).
     
    Inevitabili e insuperabili obiezioni
        
    Tuttavia, questo programma di rinuncia, ritirata e nascondimento ecclesiale solleva inevitabilmente obiezioni insuperabili, sia storiche che pastorali che dottrinali.
    Dal punto di vista storico, la prospettiva “catacombalista” si rifà a una “comunità cristiana primitiva” che sembra tratta da certi romanzi, film e telefilm sentimentali del secolo scorso. Infatti, il rifugiarsi nelle catacombe fu solo un ripiego talvolta imposto da situazioni drammatiche, ma non fu mai concepito come vita ordinaria, tantomeno come modello ecclesiale da imitare.
    Oltretutto, l’attuale situazione della Chiesa non è paragonabile a quella di allora, se non altro perché Essa rimane erede e custode sia di un resistente prestigio culturale, sia di un cospicuo tesoro dottrinale, liturgico, giuridico, sociale e perfino materiale, che non è possibile nascondere e non è lecito liquidare fallimentarmente, tantomeno abbandonare al nemico.
    Dal punto di vista pastorale, la scelta “catacombalista” abbandonerà la comunità ecclesiale al crescente potere del nemico e annienterà quei movimenti che tutt’oggi perseverano eroicamente nel difendere ciò che resta della civiltà cristiana attaccata dalla Rivoluzione. Sia l’insegnamento che l’impegno politico-sociale verranno prima ostacolati e poi esclusi, nel timore di suscitare le reazioni dei nemici della Chiesa, perdere la (falsa) pace religiosa e peggiorare le meschine condizioni di sopravvivenza.
    Pertanto, questo “ritorno alle catacombe” non sarà una ritirata strategica, tentata nella speranza di raccogliere le forze rimaste per poi scagliarle contro gli avversari. Al contrario, essa diventerà una resa al nemico, nella illusione di far sopravvivere una Chiesa intimorita e silenziosa destinata a diventare complice di quelle forze tenebrose alle quali non vuole opporsi. Ciò favorirà la lenta e indolore estinzione di quella testimonianza cristiana che si vorrebbe salvare.
    Dal punto di vista dottrinale, infine, col pretesto di “tornare all’essenziale” per salvarlo dalla crisi, la scelta “catacombalista” elude i diritti di Dio come Creatore e Legislatore della società, quelli di Cristo come Re dei popoli e quelli della Chiesa come Mater, Magistra et Domina gentium, in particolare il suo insegnamento sociale. Per giunta, questa scelta presuppone una concezione di Dio che tende al deismo, riducendolo a un Essere supremo che non governa il mondo, o almeno che è non è capace d’intervenire risolutamente nella storia contemporanea, per cui Egli abbandona la sua Chiesa al destino di essere vinta e sottomessa al Nemico.
    Tutto ciò ci conferma una regola: ogni proposta che pretende di giustificare la viltà dei cristiani nel loro arrendersi alla Rivoluzione implica una offesa fatta alla divina Provvidenza e un tradimento della consegna affidata dal divin Redentore alla sua Chiesa: ossia quella d’“insegnare la verità a tutti i popoli”, “porre la fiaccola sopra il moggio” e “predicare il Vangelo sui tetti”, al fine d’“innalzarsi come vessillo tra le nazioni”.
    A questo tradimento bisogna opporre il coraggio e la tenacia di restare fedeli non solo all’astratta dottrina cattolica ma anche al fattivo impegno dell’azione cristiana di riconquista della società. Ad majorem Dei gloriam (etiam socialem).
  9. SEM IPC
    "La Chiesa dopo Benedetto XVI fra realtà ed utopia" è stato il tema dell’interessante incontro organizzato il 3 marzo 2023 dall’ Università Popolare Molfettese . La serata ha visto un folto pubblico assieparsi nella pur ampia sala “Don Tonino Bello” della parrocchia S. Pio X a Molfetta in provincia di Bari, ha visto protagonisti don Nicola Bux e  Aldo Maria Valli, già vaticanista RAI, moderati da Nicola Barile. Non si è trattato di un simposio sul pensiero di papa Benedetto, quanto di una riflessione, a partire dal contributo del suo pensiero, sul bivio in cui si trova la Chiesa attuale, come ricordato dal moderatore: da una parte il realismo, quello metafisico di S. Tommaso d’Aquino, dall’altra la deformazione dell’idea di utopia coniata da S. Tommaso Moro, per giustificare l’imposizione di idee e concetti del mondo contemporaneo. 
    Sia don Nicola, sia il dott. Valli hanno conosciuto Benedetto XVI e ne hanno ricordato entrambi il carattere mite e la profondità del pensiero; la loro interpretazione, tuttavia, diverge circa la valutazione  del suo magistero, prima come teologo, poi come papa. Se per Valli Benedetto ha ereditato le tensioni che discendono, secondo lui, dal Concilio Vaticano II, non risolvendole, secondo Bux, invece, Benedetto ha manifestato creatività e originalità, ma sempre sforzandosi di mantenersi nel solco della tradizione cattolica; da qui la sua lettura non traumatica del Concilio, secondo quel principio della vita della Chiesa noto come “ermeneutica della continuità”. Se si pensa ad esempio alla trilogia su Gesù di Nazareth, non sarebbero pertanto il Concilio e le sue interpretazioni il problema della Chiesa attuale, quanto la riduzione della figura di Gesù a maestro di moralità, sostenitore di valori in linea con il mondo contemporaneo, ma inevitabilmente in contrasto con la realtà: si pensi, ad esempio, al mito del pacifismo, smentito dal ricorso, ancora oggi, dell’uomo alla guerra.   
    Entrambi i relatori, tuttavia, hanno concordato in conclusione i rischi dell’attuale fase sinodale, che appiattisce la Chiesa alla sua dimensione burocratica, facendone dimenticare la natura sacramentale. Un dibattito reso breve dai tempi contingentati della serata ha comunque consentito alla partecipata assemblea di evidenziare i dubbi che, evidentemente, questo attuale corso della Chiesa non riesce a fugare. 
     
      
     
  10. SEM IPC
    Oggi è frequente, tra coloro – e non sono molti, pur non essendo neppure pochissimi – che si rendono conto della gravità situazione sia ecclesiale-ecclesiastica  (sbandamento dottrinale e morale, contrapposizioni tra i cosiddetti “progressisti” e i cosiddetti “tradizionalisti”, divisioni tra i laici e tra gli ecclesiastici, scandali di ogni genere, posizioni eretiche/ereticheggianti, scismatiche/scismaticizzanti, e forme varie di apostasia vera e propria, ecc.), che socio-politica… è frequente e urgente cercare di intervenire per correre ai ripari. Per farlo si vedono all’opera diversi modi di procedere che, alla prova dei fatti – pur potendo essere in sé, almeno in certi casi, anche parzialmente buoni, e animati da ottime intenzioni – risultano insufficienti, ultimamente inadeguati, non abbastanza “realistici”:
     
    – o perché non tengono conto della “totalità dei fattori” in gioco (per usare un espressione che era cara a don Giussani);
     
    – o perché sono “velleitari”, per l’illusione di poter realizzare in un solo colpo progetti grandiosi con forze insufficienti, in quanto solo troppo umane. Il rischio, in questo caso, è quello di un involontario “delirio di onnipotenza”, che finisce per essere il rovescio della medaglia di quello degli attuali “padroni del mondo”.  Sarebbe sempre meglio procedere gradualmente nella realizzazione di ciò che si è progettato!
     
    1. Di certo è inadeguato il limitarsi a cercare di “tamponare le falle”, come sul piano socio-politico tentano di fare i governi, pure quelli “più saggi”, e non conniventi con le ideologie del mondo. Non bastano, anche se sono necessari, gli interventi “dall’esterno” della coscienza dell’essere umano (le leggi, le strutture, i provvedimenti giudiziari, ecc.).
     
    2. Peggio ancora sono i tentativi di entrare mediaticamente (tv, social, articoli, spot pubblicitari, ecc.) nelle coscienze, manipolandole, per convincerle della bontà delle ideologie che dominano il mondo (“pensiero unico”) solo per interessi di potere ed economico-finanziari, di alcuni su tutti gli altri; e non per il bene comune. Si finisce in guerra e nell’autodistruzione, come vediamo accadere proprio in questi ultimi anni.
     
    3. Tutto questo modo di procedere è proprio di un “orizzontalismo” troppo mondano e “umano” per essere risolutivo.
    Domanda: la battaglia finale si gioca solo a livello umano, o c’è qualcosa d’altro in ballo?
     
    4. Internamente alla Chiesa si può rischiare di riprodurre, anche involontariamente, lo stesso “modello” di giudizio e di comportamento che vediamo al di fuori di essa.
     
    – i più convinti “tradizionalisti” tendono a vedere tutto il male a partire dal Concilio Vaticano II e tutto il rimedio nel riportare l’orologio e il calendario a prima del Concilio. Cosa per altro praticamente irrealizzabile e non corrispondente alla realtà.
     
    – i più convinti “progressisti” vorrebbero il totale adeguamento dell’insegnamento della Chiesa alle ideologie del mondo (ambientalismo/naturalismo fino al panteismo, pauperismo/migrantismo incontrollato, sovvertimento di tutte le discipline morali, ecc.).
     
    – Altri tentano la via intermedia tra le due posizioni: salviamo la Tradizione, senza rifiutare in blocco il buono, che riconosciamo nel Concilio, alla luce della “continuità” (in linea con Benedetto XVI). Una strada che si presenta come la più ragionevole, purché non si faccia conto solo delle nostre forze umane, ma si tenga conto che la battaglia non è solo tra uomini e dottrine umane. Non siamo al livello di chi, come già al tempo di san Paolo, si schierava dicendo: «“Io sono di Paolo”, “Io invece sono di Apollo”, “E io di Cefa”, “E io di Cristo!”» (1Cor 1,12). E oggi, potremmo dire: “Io sono di Francesco”, o “Io di Pio XII”, “Io di nessuno di loro” e “Io passo con gli Ortodossi”, ecc.
     
    5. Contro chi è la battaglia? È solo un’alternativa tra quella che un tempo si era definita come “la scelta religiosa” (oggi si parla di “ritorno nelle catacombe”, di “opzione Benedetto”, ecc.) e il “combattimento pubblico ad oltranza”, per ricostruire una “cristianità in grande”, imbarcandosi in grandi progetti di costruzioni che per ora rimangono a lungo solo sulla carta?
    Abbiamo a che fare con un avversario di natura umana, o di un’altra natura superiore?
     
    6. Mi hanno molto colpito, già da diversi anni, i “giudizi” sul nostro tempo espressi in diverse occasioni, da alcuni grandi uomini di fede e pastori, che considero come “maestri di vita cristiana”, e che ho avuto la grazia di avere vicini, fino a che erano con noi su questa terra, e ora ci vedono e penso ci proteggano dal Cielo.
     
    6.1. Uno di loro è stato il card. Carlo Caffarra.
     
    – In un’intervista rilasciata a Tempi  ebbe a dire: «Una legge che impedirà di dire che i maschi sono maschi e le femmine femmine è la fine della civiltà, della adaequatio rei et intellectus (corrispondenza tra realtà e intelletto), della Verità. Dopo questo, basta, potremo dire tutto: tutto sarà vero e falso insieme, perché se io posso dire che mi sento maschio, dunque sono maschio, vale tutto» (Tempi, 14-07-2020).
     
    È l’istantanea del relativismo odierno, della situazione attuale. Ma questa è ancora solo la presa d’atto degli “effetti” dell’azione di un nemico (come disse Gesù a proposito della zizzania: «Un nemico ha fatto questo», Mt 13,28). E chi è questo nemico?
     
    – In un’altra intervista (del 2017) riferendosi alla lettera con la quale gli rispose suor Lucia di Fatima, Caffarra andò direttamente dall’“effetto” alla “causa”.
     
    E non si fermò al livello delle “cause prossime”, come fanno oggi anche i migliori psicologi, sociologi, politologi, non essendo in grado di spingersi più in profondità, perché abituati a ragionare e vivere “come se Dio non esistesse”, e non esistesse neppure il suo primo oppositore (!). Ma andò fino alla radice del problema.
     
    Disse: «Qualche anno fa ho cominciato a pensare, dopo quasi trent’anni: “Le parole di Suor Lucia si stanno adempiendo”. […] Satana sta costruendo un’anti-creazione. […] Satana sta tentando di minacciare e distruggere i due pilastri [la “vita” e la “famiglia”], in modo da poter forgiare un’altra creazione. Come se stesse provocando il Signore, dicendo a Lui: “Farò un’altra creazione, e l’uomo e la donna diranno: qui ci piace molto di più”» (intervista al sito aleteia.org in occasione del quarto incontro del Roma life Forum il 19 maggio 2017).
     
    La battaglia, secondo Caffarra, è dunque, prima di tutto, contro Satana che è, per natura un angelo e quindi è superiore a noi, più potente di noi. Le nostre sole forze umane e i nostri progetti, per quanto belli e grandiosi, non sono sufficienti per vincerlo. Non possiamo cadere neppure noi nella tentazione di cedere a “deliri di onnipotenza”, come fanno i “padroni del mondo”, pur partendo da posizioni ad essi opposte. Ci vuole l’“umiltà del realismo” che ci fa ricorrere “più esplicitamente a Cristo” nelle valutazioni e nelle decisioni (e non solo quando siamo in chiesa), perché Lui è l’unico definitivo vincitore del demonio, perché è più potente, essendo Dio.
     
    6.2. Questo non è un motivo di sconforto e di senso di impotenza. Al contrario è motivo di certezza di vittoria. A questo proposito mi è venuta in mente, da tempo, l’insistenza con la quale un altro grande maestro di vita, il card. Giacomo Biffi, ricordava regolarmente ai suoi fedeli e ascoltatori che comunque vadano le cose, Cristo ha già vinto!
     
    «Il credente sa che Cristo ha già vinto; ma sa anche che la piena manifestazione di questa vittoria sarà un dono escatologico. Questo non lo scoraggia né lo disarma: per essere se stesso e accogliere totalmente nella verità la salvezza di Dio, egli instancabilmente si adopera a dar vita alla nuova società, alla nuova storia, alla nuova cultura» (Per una cultura cristiana. Da una lettera del 1985).
    E oggi dobbiamo aggiungere: in proporzione a quanto è realisticamente possibile nella condizione storica nella quale ci si trova. Non serve combattere contro i mulini a vento!
     
    In un altro testo ebbe a dire: «Solov’ev era anche sicuro che “Tuttavia, dopo una lotta breve e accanita, il partito del male sarà vinto e la minoranza dei veri credenti trionferà completamente” (cfr. Mt 24, 31: “Manderà i suoi angeli… raduneranno tutti i suoi eletti dai quattro venti, da un estremo all’altro dei cieli”). Ma, aggiunge: “La certezza del trionfo definitivo per la minoranza dei credenti non deve condurci a un’attitudine passiva. Questo trionfo non può essere un atto puro e semplice, un atto assoluto dell’onnipotenza di Cristo perché, se così fosse, tutta la storia del cristianesimo sarebbe superflua. È evidente che Gesù Cristo, per trionfare giustamente e ragionevolmente dell’Anticristo, ha bisogno della nostra collaborazione…”» (“L’ammonimento profetico di Vladimir S.~Solov’ev”, esercizi predicati in Vaticano a Benedetto XVI e alla Curia romana, nel 2007).
     
    E qual è la nostra parte, oggi?
    Si deve saper  valutare che ci sono momenti, nella storia, nei quali la parte principale tocca a Dio, direttamente, perché noi, ormai ci rendiamo conto di essere divenuti «servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17,10) e ora “il grosso” tocca direttamente al Signore.
     
    Penso che anche per noi sarebbe ingenuo e irrealistico non tenere conto di colui contro il quale si combatte la battaglia decisiva e di quali sono i principali soggetti e le forze a noi superiori che sono in campo. Dopo di che ciascuno potrà collocarsi con una vocazione più contemplativa o più attiva, a seconda della sua storia e della sua sensibilità, ma mai con un atteggiamento che dimentichi, nella concretezza, la centralità di Cristo, di Dio Padre Creatore, del Suo Santo Spirito e della “potenza attiva” insita nel pregarlo. Non siamo noi, con le sole nostre forze, a salvare il mondo e la Chiesa («Senza di Me non potete fare nulla», Gv 15,5). La compagnia che cerchiamo di farci, anche nelle occasioni di riunione serva per ricordarcelo sempre e ci sostenga nella fede che illumina e santifica la ragione.
     
     
  11. SEM IPC
    Nel suo splendido articolo su IPC  ( “Contro chi è la battaglia ?” ), don Alberto Strumia  ci indica l’avversario contro cui dobbiamo combattere  e ci invita a tenerne conto. Molto intelligentemente sintetizza l’ operato  del nostro avversario oggi, riferendosi a suor Lucia di Fatima che spiegò che Satana  sta costruendo una Anti-Creazione .  
    Esatto, perfetto. Satana sta riscrivendo la Genesi: non più il Creatore  li creò uomo e donna, non più disse loro andate e moltiplicatevi, non più li invitò a sottomettere la terra e ogni essere vivente. La nuova genesi blasfema dice esattamente il contrario: Genderismo, neomaltusianesimo, ambientalismo e  animalismo.  Lo capiamo anche  leggendo un paio di notizie oggi  sulla decisione del Presidente del Veneto di attuare  anche lui una  rivoluzione dei diritti civili finanziando una clinica che cambia il sesso  ( scelta di civiltà)  o  leggendo quanto succede nello stesso ambito, nella chiesa tedesca.   
    Vorrei tentare di integrare il pensiero di don Alberto, quando ricorda l’espressione di don Giussani sul fatto che “si deve tener conto della totalità dei fattori (in gioco)", specificando che    si deve tener conto   anche della totalità degli “attori in gioco”, dei loro obiettivi, dei loro mezzi, ecc. . Cioè noi cattolici di criterio dobbiamo “pensare strategicamente“ e strategicamente agire. Questo, secondo me, intendeva don Giussani con questa considerazione. Don Strumia lo specifica bene quando parla infatti dell’avversario  con cui dobbiamo  combattere. Ecco, riflettiamo un momento su questo avversario: Il diavolo. Tutta la storia dell’umanità, non solo la storia sacra, ne ha subito l’influenza. Oggi sembra agire con maggior malizia offrendo alla umanità la proposta di migliorare in tutto scientificizzandosi, e pertanto modificandone obiettivi  e mezzi, rivoluzionando pertanto la Genesi stessa e le sue indicazioni. Questa è la grande tentazione di questo secolo, Ma noi dovremmo ricordarci che il Signore ci ha dato tutti i mezzi per vincere sempre in ogni tempo e condizione  ogni tentazione. Proprio il  grande cardinale Caffarra (con altri tre Cardinali ) ce lo ha ricordato con i DUBIA riferiti ad Amoris Laetitia che sembrerebbe proporre qualcosa di diverso, di molto diverso.  Ma il Signore non ci ha proprio chiamato alla santità, ad esser perfetti come il Padre Nostro  è perfetto ?  Ed a esserlo anche  oggi e  nel nostro  stato. Proprio oggi e proprio nel nostro stato, non “nonostante” le tentazioni di oggi e le difficoltà del nostro stato. Conveniamo o no che la crisi di oggi è crisi di santità ? Benedetto XVI conclude Caritas in Veritate spiegando che queste crisi non si risolvono cambiando gli strumenti ,ma il cuore degli uomini. E nella parte da lui scritta di  Lumen Fidei spiega che chi ha responsabilità di cambiare il cuore degli uomini è la Chiesa, con tre strumenti: preghiera, magistero e sacramenti. I sacerdoti cattolici ed i laici cattolici  dovrebbero riflettere bene su questi due punti. Ma per cominciare è necessario tornare alle raccomandazioni di don Strumia: riconoscere  l’avversario   e  aborrire il peccato, che non è certo conseguenza  della  la miseria materiale  (“l’inequità“, nella  ripartizione delle risorse )   a generarlo, bensì la miseria morale genera la miseria materiale (come si sente la  mancanza dell’insegnamento del Tomismo nei seminari).
    Che fare ? certo il Signore non vuole che contiamo troppo sulle nostre capacità e abbiam troppa fiducia nello sforzo umano, ma neppure ( io credo  e chiedo conferma a don Strumia ) vuole  che ci rifugiamo nella passività di azione, che con la scusa di abbandonarsi  nelle mani di Dio, di fatto trasforma la speranza in  “pigrizia spirituale“ …Se ricordo bene San Tommaso scrisse nella Summa che la Grazia non sostituisce la  Natura e Dio ci ha messo in mano gli strumenti che servono  a non tralasciare di fare ciò che si può, aspettando l’aiuto di Dio. Perché, se ho ben capito, ciò equivarrebbe a  “tentare Dio “ e pertanto anche la Grazia non agirà .
    Ma ho una riflessione finale che è una domanda per don Strumia. Fino a ieri noi cattolici ci misuravano con i Misteri della fede. Oggi  abbiamo un ”mistero”  in più da affrontare, riuscire a capire dove la Chiesa di oggi vuole portare la fede cattolica e perché.  Un piccolo nuovo  sotto-mistero è anche  capire come  il Timor di Dio  ( che non è terror di Dio…) sia stato trasformato in Timor della autorità morale. Un tempo ci insegnavano a sentirci “figli di Dio”  ed agire come tali. Oggi sembrerebbe ci invitino a considerarci cancro della natura ed a vergognarci di non esser giardinieri o ortolani. Se il mondo cattolico oggi non ha pace non può seminare pace e fede con gioia. Non solo non credo al rifugio nel  “piccolo gregge”  (una “setta “ di fatto) o al passaggio a religioni più ortodosse (che è esattamente quello che il nostro avversario vuole!), credo invece che dobbiamo ristudiare Caritas in Veritate (e Lumen Fidei) di Benedetto XVI. Ci ha spiegato tutto quello che dobbiamo fare. Questo sarà il tema di volta che verrà discusso durante i prossimi appuntamenti della Scuola Ecclesia Mater. Benedetto XVI aveva già spiegato contro chi stiamo combattendo e come combattere oggi.
  12. SEM IPC
    In questo nuovo intervento, don Alberto richiama l'importanza del metodo nel vivere la fede. Lo si trova descritto nella  "Forma d'insegnamento della Scuola Ecclesia Mater"
     
    Nel precedente contributo del Prof. Gotti Tedeschi che, innanzitutto ringrazio per l’apprezzamento che ha voluto esprimere per il mio intervento dal titolo  “Contro chi è la battaglia?”, apparso su Il Pensiero Cattolico, ho riconosciuto l’invito esplicito a precisare qualcosa in più in vista di una risposta alla domanda: «Che fare?».
     
    Ma mi fermerò a questa mia sola “aggiunta” al mio intervento precedente, per non  correre il rischio di avviare un ping pong tra noi, (magari poco opportuno per i lettori abituali del blog).
     
    1. Mi sembra di poter leggere tra le righe il suo legittimo timore «che ci rifugiamo nella passività di azione, che con la scusa di abbandonarsi  nelle mani di Dio, di fatto trasforma la speranza in  “pigrizia spirituale”» (cito le sue parole). Non è questo che intendo, ovviamente. Penso piuttosto sia necessario un modo di procedere non velleitario, ma proporzionato alle nostre effettive possibilità, consegnando poi il tutto nelle mani di Dio che provvederà come solo Lui sa fare, e agli spazi che si possono effettivamente creare senza essere schiacciati dai poteri di varia natura, dei quali pure, in questi tempi – abbastanza apocalittici, per non dire escatologici – il demonio sa abilmente servirsi.
     
    2. Quanto al rifiuto in blocco della prospettiva, prevista dall’allora Card. Ratzinger – delle piccole comunità vive che fanno sopravvivere la Chiesa in attesa di una sua risurrezione dopo la passione e la croce, come quella del suo Signore – rifiuto espresso con l’esplicita dichiarazione: «Non credo al rifugio nel  “piccolo gregge”  (una “setta “ di fatto)», non penso che Ratzinger intendesse una sua realizzazione così negativa.
     
    3. Penso che si possa tentare una risposta alla domanda «che fare?», seguendo una strada simile, pur tenendo conto della  differenza della situazione (che non è poi così grande…) a quanto vidi già realizzato, nel 1980 quando andai insieme ad alcuni amici, per una settimana in Ungheria, a Budapest, a trovare persone e gruppi solidamente cristiani, su indicazione di chi, pionieristicamente, era in contatto diretto regolare con loro da anni.
     
    4. Loro avevano adottato questa strategia:
     
    a) nelle parrocchie erano permessi dal regime, allora, solo gruppi per formare dei piccoli cori per il canto (liturgico e non solo). Per cui i cori erano numerosi. I parroci erano più o meno pubblicamente ossequienti al potere. Mentre lasciavano fare i giovani preti (cappellani: allora là ce n’erano…) i quali clandestinamente, formavano i giovani (all’epoca incontrai degli universitari davvero in gamba) ad una cultura alternativa a quella ufficiale, ad incominciare dalla dottrina cattolica e dalla rilettura intelligente e cristiana della storia della nazione.
     
    Noi non siamo ancora ad un livello così estremo (ma potremmo arrivarci anche presto!), ma per esempio già il condizionamento del “pensiero unico” c’è ed è sottile.
     
    Come facevano a non ridurre i loro gruppi in «sette» chiuse in se stesse? Ci pensavano i principalmente predetti cappellani, insieme ad alcuni laici, i quali, di nascosto, tenevano i contatti tra loro, per confrontarsi e avere un “metodo” formativo comune, evitando ogni forma di chiusura e settarismo. Qualcuno ogni tanto veniva scoperto dal regime e pagava di persona! Ma questo modo di procedere, sostanzialmente, funzionava.
     
    b) In Polonia un modo di procedere simile riuscì a formare Solidarnosc che, al momento opportuno, emerse pubblicamente come soggetto identitario della nazione intera.
     
    c) Per la formazione dei seminaristi (più o meno clandestini) non potevano certo mettere in piedi dei “mega istituti”, ma facevano riferimento ai pochi Vescovi fidati per formare e ordinare i nuovi preti (sappiamo che anche Wojtyla seguì questo tipo di formazione iniziale). Partendo dal “piccolo”, quasi invisibile, riuscirono ad ottenere, infine, anche il “grande”, perché Dio lo volle e loro ebbero fede.
     
    5. Mi sembra di vedere che quello che manca, normalmente, da noi è questa attenzione ad un’unità nel “metodo”, una “visione comune” della Chiesa che vada al di là delle lamentele contro il Papa e o il Concilio Vaticano II.
     
    Ma se questa unità nel “metodo” non c’è non possiamo pretenderla e allora dovremo accontentarci almeno di farci compagnia, di qualcuno che proponga contenuti sensati, e non immaginare di creare, per esempio, un movimento con un’unità di impostazione all’origine. Ho l’impressione che l’epoca dei movimenti si sia ormai conclusa, con la morte dei loro fondatori.
     
    E adesso, sembra essere giunto proprio il momento “ratzingeriano” delle piccole comunità, le cui guide si raccordano tra loro per garantire una certa unità di “metodo” come facevano i cappellani ungheresi. Occorre imparare a vedersi e sintonizzarsi meglio, nel rispetto delle rispettive storie e situazioni locali, evitando di andare avanti isolatamente.
     
    Diversamente si rischia il ripetersi dell’esperienza fallimentare dei discepoli di Gesù  che non riuscirono a scacciare il demonio («“Ho detto ai tuoi discepoli di scacciarlo, ma non ci sono riusciti” […] "«Perché noi non abbiamo potuto scacciarlo?". Ed egli disse loro: "Questa specie di demoni non si può scacciare in alcun modo, se non con la preghiera”», Mc 9,18.28-29). Ci riusciranno dopo, con una fede che li sosterrà fino nelle prove più estreme. Ma non saranno tanto loro a riuscirci, quanto il potere di Cristo che volle servirsi di loro.
     
    Per quanto mi riguarda, ho avuto, già ormai cinque anni fa, la richiesta di aiuto da un piccolo gruppo di persone da diverse città di fare con loro un’esposizione “dottrinale” ed “esistenziale” (una volta si sarebbe detto “spirituale") del Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, perché si rendevano conto di non conoscere seriamente il cristianesimo, pur essendo fedeli praticanti. Il materiale si trova tutto sul mio sito albertostrumia.it e sul mio canale YouTube . Il lavoro, svolto on line dai tempi del covid, si è dimostrato utile, non solo per evitare di spostarsi continuamente da un posto all’altro, ,ma anche per consentire a chi lavora oltre oceano, di esserci. Quelli che possono e vogliono possono anche ritrovarsi di persona.
     
    Anche la Messa domenicale, per coloro che stanno nella stessa città è divenuta possibile (in novus ordo, si può attuare anche una sorta di “riforma della riforma”, celebrando riservatamente, in una piccola chiesa o cappella, per garantire una modalità liturgicamente dignitosa).
     
    Può essere ed è sicuramente poco, ma è già qualcosa e, soprattutto, c’è già da subito, e si cerca di farlo crescere con il dovuto «Timor di Dio» (richiamato nell’articolo che mi ha preceduto), che è anche da intendere come il “timore di rovinare” con qualche atto maldestro quanto di bello il Signore ha già fatto, con un rispetto dell’«autorità morale» che sa anche far capire, quando occorre, che «bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5,29).
     
    Se questa è una strada percorribile, certamente anche una via più pubblica e ambiziosa si può tentare, ed è bene che chi ne è in grado, senza venire “tarpato” lo faccia. Sarà la storia a valutare gli esiti dei due modi di procedere, quello più accorto e quello più ambizioso, entrambi guidati dal realismo della fede: non siamo noi da soli a sconfiggere il demonio, ma è chi lo ha già vinto perché è Signore!
     
  13. SEM IPC
    In punta di piedi e sommessamente, come colui che osa sussurrare qualche banalità mentre assiste alla discussione tra due giganti, mi intrometto nel dialogo tra Don Alberto Strumia ed il Prof. Gotti Tedeschi, ringraziandoli sin d’ora per le riflessioni che hanno condiviso. Don Alberto, in prima battuta, indica in modo chiaro la “radice del problema”, evitando che certe letture sociologiche, psicologiche o ecclesiologiche falliscano il bersaglio e non arrivino alla radice della questione. Primo auspicio: che tutti possano aver chiaro chi sia il nemico, come i medici che intendano combattere la malattia e non il sintomo. Trovo, personalmente, decisivo il richiamo nella citazione del Card. Biffi: “Gesù Cristo, per trionfare giustamente e ragionevolmente dell’Anticristo, ha bisogno della nostra collaborazione”. Secondo auspicio: che tutti sentano l’esigenza di collaborare alla battaglia. Il Prof. Gotti Tedeschi, raccogliendo la splendida indicazione, sospinge la riflessione sulla strategia della battaglia, ovvero sul come si possa offrire collaborazione e partecipare al trionfo di Cristo. Senza scordare che tutto ciò accade in tempi abbastanza apocalittici, per non dire escatologici e, secondo Don Alberto (che in parte risponde alla questione posta dal professore sulla direzione dell’operato della Chiesa), e accade quando "può dirsi ormai conclusa l’epoca dei movimenti con la morte dei loro fondatori”. In nulla volendo correggere, mi premono alcune considerazioni che contribuiscano, forse, ad integrare il quadro tracciato. Uno dei protagonisti della -usando la definizione di Don Alberto- “epoca dei movimenti”, ha affermato: “Non solo non ho mai inteso "fondare" niente, ma ritengo che il genio del movimento che ho visto nascere sia di avere sentito l'urgenza di proclamare la necessità di tornare agli aspetti elementari del cristianesimo, vale a dire la passione del fatto cristiano come tale nei suoi elementi originali, e basta”. Un altro fondatore, come sintesi di una immediata e chiara comprensione, intuisce “l’obbligo" di cercare la santità: “Avevo ventisei anni, grazia di Dio e buon umore. Null’altro. E dovevo fare l’opera”. Nella storia, come non ricordare il Crocifisso che si rivolge al giovane assisano: “Su di lui, veramente poverello e contrito di cuore, Dio posò il suo sguardo con grande accondiscendenza e bontà; non soltanto lo sollevò, mendico, dalla polvere della vita mondana, ma lo rese campione, guida e araldo della perfezione  evangelica e lo scelse come luce per i credenti…” (Leggenda maior). E prima di lui c’è chi, lasciando disgustato le dissolutezze romane, trascorse il suo tempo vivendo da eremita in una grotta in isolamento spirituale, generando una delle aggregazioni di cristiani più decisive per il nostro continente e per il mondo. Prima o dopo l’ultimo concilio, non credo esista, se non nel commento storico, “un’epoca dei movimenti” (…e cosa sia un movimento, quali formazioni rientrino della definizione, quali mantengano l’ortodossia, quali l’intuizione iniziale, quali l’afflato profetico… a posteri l’arduo giudizio). Esiste invece, dalla risurrezione di Cristo in poi, il tempo dei santi. Santi, ovvero pienamente uomini, che hanno involontariamente in comune, pur in epoche diverse, una strategia: un luogo preciso, una necessità precisa, alcuni volti precisi e una relazione al destino in Cristo. Nella storia del mondo e della Chiesa, il passo è segnato da Cristo attraverso i santi e i beati. Quando il buon Dio ne dona uno, in modo tanto imperscrutabile quanto imprevedibile, appare una luce per i credenti, che allora si aggregano, spiritualmente o fisicamente, intorno a quella grazia. Persino le questioni ecclesiologiche su movimenti, associazioni, opere… appaiono necessarie ma successive, per tempo e gerarchia. E poi fatico ad immaginare Benedetto nella grotta a chiedersi se il gregge debba essere piccolo o grande, o Francesco a La Verna ad arrovellarsi sul numero di possibili followers...  Questo anche perché, citando Von Balthasar, “Quale sia l’estensione della fecondità di un santo rimane, almeno sulla terra, un segreto di Dio“. Occorre, quindi, capire cosa ci aiuti nel cammino verso la santità (come riconoscimento attuale della presenza di Cristo), ovvero verso la nostra piena umanità. Ma non vorrei nascondermi dietro al generico richiamo alla santità. Oggi manca, nella stragrande maggioranza dell’umanità che incontro, la coscienza delle categorie fondamentali del pensiero cattolico. Parlo volutamente di coscienza: che lo si riconosca lucidamente oppure no, la natura della radice fondamentale di ogni uomo è sempre in ogni caso e in ogni epoca ordinata al medesimo logos, quindi sempre ordinata alla creazione e, pertanto, coerente con il pensiero cattolico. Ma la coscienza della natura del proprio cuore è, più meno gravemente, offuscata. E cosa forma rettamente la nostra coscienza? Dobbiamo ristudiare Caritas in Veritate, come propone il professore? O forse, ormai giunto il momento “ratzingeriano”, dobbiamo rifugiarci in piccole comunità come suggerisce Don Alberto? Mi permetto di citare Don Nicola Bux: prima dello studio (studium come zelo, passione, ricerca, lavoro) c’è un antefatto, l’amicizia. Si studia, innanzitutto, per una amicizia (la “teologia come amicizia”, nella riflessione di Don Nicola). Per una amicizia, anzitutto con Cristo, che poi è “il” soggetto che studiamo nei rivoli delle varie materie della vita. La piccola o grande comunità in cui cercar rifugio e studiare Caritas in veritate e non solo, è l’amicizia in e con Cristo (con le armi che Lui ci ha consegnato, a partire dai sacramenti). Collaborare con il Suo trionfo è, in primo luogo, gustare la Sua compagnia e la Sua amicizia, con la certezza che questa vince il “mondo, la carne e il maligno”. Lo si chieda al Card. Van Thuan, lo si chieda a padre Kolbe: il nemico non vince neppure quando sembra lo faccia. Sopporto l’idea di un nemico a cui dar battaglia (e del grande sacrificio che una battaglia richiede) solo nella certezza dell’amico, esattamente come uno scienziato inizia una lunga e faticosa opera di ricerca solamente nella convinzione, seppure remota, che esista l’oggetto del proprio cercare. Combatto perché Lui c’è e perché Lui è proprio Lui, quel bambino che tiene nel palmo della mano l’intero universo.  
  14. SEM IPC
    Riprendiamo una pungente ma quanto mai verace riflessione di Eusebio Episcopo, tratta da "Lo Spiffero", il quale mette in fila date, circostanze e nomi di chi oggi versa lacrime di coccodrillo.
     
    Nel 1998 alla conferenza che tenne al Regio era assente tutta la nomenclatura della Chiesa locale, quella che oggi è al potere. In seminario i suoi saggi erano semiclandestini. Lo stringato messaggio dell'arcivescovo Repole. 
     
    Benedetto XVI se ne è andato l’ultimo giorno dell’anno così come ha sempre vissuto, con il suo inconfondibile stile, fatto di umiltà, dolcezza e innata eleganza. Avremo modo di parlare a lungo di lui e del suo magistero che ne fanno un moderno Padre della Chiesa. Il suo pensiero può essere considerato l’ultimo grande tentativo di fare incontrare tradizione e modernità. Joseph Ratzinger è stato il teologo, il prefetto della fede e il papa che si è posto in piedi di fronte alla modernità e ai suoi miti. Oggi la Chiesa è tornata ad essere, come scrisse Jacques Maritain nel 1966, «in ginocchio di fronte al mondo». Da quella prostrazione – frutto non del Concilio dei Padri ma del concilio dei media – la trassero Giovanni Paolo II e Ratzinger non per sfidare il mondo ma per mostrargli semplicemente Gesù Cristo. E per capire quanto Ratzinger fosse avversato bisogna leggere le rabbiose reazioni seguite alla pubblicazione della dichiarazione Dominus Jesus o al motu proprio Summorum Pontificum o il continuo tentativo dei vescovi tedeschi di infangarlo. Perché i suoi veri nemici erano tutti interni alla Chiesa, numerosissimi e adesso al comando. Pensiamo alla mafia di S. Gallo che per anni tramò alle sue spalle fino a farlo dimettere – Vatileaks rispetto agli scandali odierni non è niente – o ai teologi più in vista (molti di loro sono vescovi), uno dei quali, Peter Hünermann, arrivò a fondare un istituto teologico per contrastare il suo pensiero. Oggi i più ipocriti lo piangono, i più sinceri dicono che era un personaggio “complesso e contradditorio” e nei prossimi giorni ne sentiremo di tutti i colori. Ma perché Benedetto era tanto osteggiato? Per capirlo basta rileggere, ma è solo un esempio fra i tanti, il magistrale discorso di Ratisbona, centrato sulla de-ellenizzazione del cristianesimo o la proposizione dei “principi non negoziabili” che i vescovi boicottarono in tutti i modi, così come avvenne per la liberalizzazione del rito antico che il suo successore ha abrogato.
    Nell’avversione a Ratzinger/Benedetto XVI, la Torino progressista fu in prima fila. E poiché lo Spiffero ha la pretesa di dire quello che gli altri non dicono, ricordiamo a chi adesso ne tesse le lodi solo alcuni episodi, ma se ne potrebbe raccogliere una antologia.
    Nel 1998 il cardinale Ratzinger venne a Torino, invitato dall’arcivescovo Giovanni Saldarini. Visitò e parlò ai seminaristi e la sera tenne una conferenza al teatro Regio ove, platealmente e fragorosamente, era assente tutta la notevole porzione della Chiesa locale progressista, quella che oggi è al potere. I seminaristi del tempo presero a leggere i suoi libri, ma clandestinamente in quanto il rettore – che per la verità ne capiva poco – era contrario. Addirittura, il testo di una conferenza sulla liturgia tenuta da Ratzinger presso l’abbazia di Fontgombault– che oggi è nell’Opera Omnia – fu tradotta e poi stampata a spese di un privato e letta e diffusa quasi di nascosto. Da ricordare che, all’epoca, padre Eugenio Costa S.J. affermava che Ratzinger era l’esponente di un «pensiero nazista» e un vescovo da lui nominato, ora emerito liturgista “grillino”, non risparmiava critiche a Summorum Pontificum scagliando la sua bolla di nomina in latino addosso ai fedeli che gli chiedevano di fare ciò che Benedetto ordinava di fare. Enzo Bianchi, che però oggi – come sembrerebbe – si è addolcito, non lesinava critiche su tutti fronti. Alla proposta di invitare Ratzinger a parlare alla facoltà teologica, l’arcivescovo Severino Poletto si oppose preferendogli il cardinal Walter Kasper. Quando nel 2010 Benedetto XVI venne in visita a Torino, l’ufficio liturgico si oppose al canone romano in latino per la Messa in piazza S. Carlo, per fortuna invano. Uno dei più autorevoli esponenti del “cerchio magico” di S. Lorenzo disse che con l’elezione di Francesco la Chiesa «si era liberata di un peso». Per capire il mainstream basta entrare nel santuario di S. Giuseppe di via Santa Teresa retto dai Padri Camilliani dove troverà, sulla sua sinistra, una nicchia in cui attorno al Volto della Sindone, sono esposte le icone del cattolicesimo progressista: Lutero, Giovanni XXIII, Bonhoeffer, Che Guevara, Kennedy, Martin Luther King, il cardinale Martini, i martiri del razzismo e nessuna vittima del comunismo salvo, un po’ nascosto, Florenskij. In simile pantheon Benedetto XVI non troverà mai posto e questo, per chi non si è arreso alla «dittatura del relativismo», non è l’ultima delle sue glorie. Stringatissimo e di circostanza, il messaggio dell’arcivescovo Roberto Repole in occasione della morte di Benedetto XVI e forse è meglio così.
    Nessuno più lo ricorda, ma Benedetto XVI nel 2008 fu oggetto di una delle pagine più vergognose dell’accademia italiana quando, dopo averlo invitato, gli fu impedito di parlare alla Sapienza, avendo l’università accettato il diktat di un gruppo di professori tra cui – sembra incredibile – il premio Nobel per la fisica 2021 Giorgio Parisi e con il plauso del paladino di ogni libertà, Eugenio Scalfari, il quale scrisse che, secondo amici gesuiti, Joseph Ratzinger era «un modesto teologo». Invitiamo tutti a rileggere l’intervento che il papa avrebbe dovuto pronunciare e che è un inno alla libertà di ricerca.
    Ma come vedeva sé stesso Joseph Ratzinger? Qual era la funzione e l’immagine del vero teologo e, più in generale, del cristiano oggi? Lo scrive egli stesso all’inizio del primo capitolo del suo capolavoro, Introduzione al Cristianesimo, pubblicato la prima volta nel 1969 riferendosi al noto apologo del clown e del villaggio in fiamme narrato da Kierkegaard dove si racconta di un circo viaggiante in Danimarca, colpito da un incendio. Il direttore mandò subito il clown, già abbigliato per la recita, a chiedere aiuto al villaggio vicino, oltretutto perché c’era il pericolo che il fuoco, propagandosi attraverso i campi da poco mietuti e quindi secchi, s’appiccasse al villaggio. Il clown corse affannato al villaggio, supplicando gli abitanti ad accorrere al circo per dare una mano a spegnere l’incendio. Ma essi presero le grida del pagliaccio unicamente per un astutissimo trucco del mestiere, tendente ad attirare il maggior numero possibile di persone alla rappresentazione; per cui lo applaudivano, ridendo sino alle lacrime. Il povero clownaveva voglia di piangere e tentava inutilmente di scongiurare gli uomini ad andare, spiegando loro che non si trattava affatto d’una finzione, d’un trucco, bensì di una amara realtà, giacché il circo stava bruciando per davvero. Il suo pianto non faceva altro che intensificare le risate: tutti trovarono che egli recitasse la sua parte in maniera stupenda… La commedia continuò così finché il fuoco s’appiccò realmente al villaggio e ogni aiuto giunse troppo tardi: villaggio e circo finirono entrambi distrutti dalle fiamme. Benedetto XVI può apparire come quel clown, paludato in quegli abiti tramandati dal passato, e nella Chiesa di oggi di lui è rimasto poco. Ma la storia è lunga e soprattutto la Provvidenza è grande e il suo pensiero porterà i frutti domani.
     
  15. SEM IPC
    RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO IL SEGUENTE 
    COMUNICATO STAMPA
     
    Da questa mattina, per 15 giorni, nei pressi del Vaticano resteranno affisse alcune decine di manifesti dedicati alla Liturgia tradizionale.
     
    Un comitato di promotori, che partecipano a titolo personale pur provenendo da diverse realtà cattoliche (come i blog Messainlatino e Campari & de Maistre, e le associazioni Coordinamento Nazionale del Summorum Pontificum e Ass. San Michele Arcangelo), ha voluto rendere pubblico il profondo attaccamento alla Messa tradizionale proprio quando ne sembra programmata l’estinzione: per amore del Papa, affinché sia paternamente aperto alla comprensione di quelle periferie liturgiche che da qualche mese non si sentono più ben accette nella Chiesa, perché trovano nella liturgia tradizionale la piena e compiuta espressione della fede cattolica tutta intera.
     
    «Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso» (Benedetto XVI). La crescente ostilità nei confronti della liturgia tradizionale non trova giustificazione né sul piano teologico, né su quello pastorale. Le comunità che celebrano secondo il Messale del 1962 non sono ribelli alla Chiesa; al contrario, benedette da una costante crescita di fedeli e di vocazioni sacerdotali, costituiscono un esempio di salda perseveranza nella fede e nell’unità cattoliche, in un mondo sempre più insensibile al Vangelo, e in un tessuto ecclesiale sempre più cedevole a pulsioni disgregatrici.
     
    Per questo, l’atteggiamento di rifiuto con cui i loro stessi pastori sono oggi costretti a trattarle, non è solo motivo di acerbo dolore, che questi fedeli si sforzano di offrire per la purificazione della Chiesa, ma costituisce anche una grave ingiustizia, davanti alla quale la carità stessa impone di non tacere: «un silenzio inopportuno lascia in una condizione falsa coloro che potevano evitarla» (S. Gregorio Magno).
    Nella Chiesa dei nostri giorni, in cui l’ascolto, l’accoglienza e l’inclusione ispirano ogni azione pastorale, e si vuol costruire la comunione ecclesiale “con metodo sinodale”, questo popolo di fedeli comuni, di giovani famiglie, di ferventi sacerdoti, ha la fiduciosa speranza che la sua voce non venga soffocata, ma accolta, ascoltata e tenuta nella giusta considerazione. Chi va alla “Messa in latino” non è un fedele di serie B, né un deviante da rieducare o una zavorra di cui liberarsi.

     
    Il Comitato promotore
    (Toni Brandi, Luigi Casalini, Federico Catani,
    Guillaume Luyt, Simone Ortolani, Marco Sgroi)
    prolibertatemissalis@gmail.com
  16. SEM IPC
    Sintesi
    In questo articolo vedremo le ragioni per le quali la conoscenza, così com’è concepita da San Tommaso e da Aristotele, presuppone un rispetto di tutti gli esseri come titolari di una natura e di prerogative indipendenti dall’intelletto dell’uomo. L’intelletto dei pensatori moderni e contemporanei, invece, è giunto a teorizzare che non debba essere il nostro intelletto ad adeguarsi alle cose, ma il contrario. Si comprende già, dunque, che San Tommaso e Aristotele riconoscono all’intelletto la capacità di aprirsi alle cose e di non chiudersi in se stesso. Ciò è fondamentale, per giungere alla verità in un dialogo non fittizio con il mondo reale e gli altri uomini, con i loro pensieri o teorie. Inoltre, è proprio questo modo di concepire l’intelletto umano, che ha permesso a San Tommaso di concepire le teorie scientifiche come mutevoli, in base alle nuove osservazioni sperimentali che avvengono nel corso dei secoli. Tanto che, secoli prima rispetto agli studi galileiani, San Tommaso scrisse, a proposito delle «ipotesi» legate alla teoria tolemaica, che era in pieno vigore al suo tempo, che esse avrebbero potuto essere superate, qualora gli uomini avessero scoperto, mediante l’osservazione, un altro modo di spiegare i fenomeni che si osservano in cielo. L’attualità di San Tommaso, dunque, è soprattutto epistemologica, cioè basata sul suo modo di concepire l’origine e gli elementi primi, per così dire, della conoscenza e il rapporto che essa ha con la realtà.
    1)    Premessa
    Scrivendo sull’attualità di San Tommaso, il Fiorentino la fa consistere principalmente nella sua epistemologia e metodologia[i]. Infatti, soprattutto nel caso dell’epistemologia, un’impostazione non corretta avrà conseguenze anche nella metodologia. Inoltre, l’epistemologia può contribuire a isolare il pensiero in se stesso, portando a una contrapposizione insuperabile tra teorie e scuole filosofiche diverse. Ed è ciò che è accaduto tra i moderni e tra i contemporanei, tra i quali le teorie filosofiche contrapposte coesistono in modo sincronico; a differenza di quanto accade nelle scienze naturali[ii], nelle quali, in genere, la teoria più attuale porta ad abbandonare o, almeno a ridimensionare, le teorie precedenti sul medesimo argomento.
    Le teorie filosofiche tutte chiuse nel proprio guscio ideologico, senza nessun aggancio ai problemi reali, giungono poi a suscitare nelle persone, impegnate in problemi concreti,  un senso di astrusità; cosa questa che non è utile, d’altra parte, nemmeno alle scienze naturali. E ciò, in alcuni autori moderni diventa evidente, in quanto è esplicitamente detto nelle loro stesse opere. Per Berkeley, per es., «gli scienziati si divertono inutilmente quando cercano una qualsiasi causa efficiente naturale che non sia una mente o uno spirito»[iii]. Parole, nelle quali, si vedono chiaramente le conseguenze di un’epistemologia che vede l’intelletto chiuso in se stesso e la realtà esterna diventa nient’altro che il prodotto della mente.
    Tale chiusura sembra consistere, dunque, soprattutto a partire da Cartesio e fino a Kant e ai nostri contemporanei, in un rifiuto di confrontarsi con la realtà delle cose esterne alla mente. Meglio detto, si nega l’esistenza di una comunicazione dell’intelletto con la realtà esterna, già all’origine dell’atto del conoscere. Per questo è un problema epistemologico, cioè riguardante le primissime operazioni dell’intelletto e, prima fra tutte, la sua capacità di attingere in modo immediato il dato reale.
    Poiché, invece, la metodologia riguarda le operazioni successive, per questo va notato che, nella modernità ciò che presenta dei problemi non è tanto la funzione discorsiva e metodologica dell’intelletto, ma soprattutto la prima operazione dell’intelletto, che in essi è, molto frequentemente soppressa o quanto meno gravemente compromessa. Eppure stiamo parlando della capacità dell’intelletto di cogliere il ciò che è della cosa, e quindi la sua natura e le sue leggi; la capacità stessa dell’intelligere, da cui, dopo tutto, l’intelletto prende il nome e da cui ha inizio ogni altra sua attività conoscitiva.
    In effetti, affinché si dia la conoscenza, si devono attuare tre condizioni:
    1)     un soggetto con facoltà atte a conoscere;
    2)     oggetti esistenti e ben definiti fuori dalla mente, cioè titolari di un proprio atto d’essere;
    3)     e, infine, l’atto originario e immediato del conoscere, affinché il soggetto conoscente entri attualmente in relazione con l’oggetto conosciuto.
    2)    I soggetti come titolari dell’atto d’essere
    Il secondo e il terzo punto sono estremamente deficitari nel modo di pensare dei moderni, quando non del tutto assenti.
    Ebbene, quanto alla seconda delle tre cose elencate, bisogna dire che è necessario che l’intelletto umano non diventi esso il creatore, per così dire, assoluto della realtà, quasi che non esista nulla al di fuori della mente. Abbiamo, infatti, detto, quanto sia importante che l’uomo non rimanga chiuso nel proprio intelletto e nelle proprie teorie filosofiche e scientifiche.
    Perciò, l’intelletto necessita delle cose in quanto esistenti autonomamente e all’esterno della mente, e possano essere, così, il metro comune a tutti gli uomini, per rendere concreta, oltretutto, anche la possibilità del dialogo tra loro e non la chiusura reciproca nella propria ideologia.
    Tra i moderni, tuttavia, alcuni negano, anche molto radicalmente (si è già detto di Berkeley) che esistano oggetti esterni alla mente. Altri – tra i quali Kant è stato, forse, il più influente – stabiliscono invece, in modi diversi, che è controproducente, per la nostra conoscenza «regolarsi sugli oggetti»[iv].
    Ciò che va notato, in quest’ultima espressione, così significativa della svolta dei moderni, è che in quel brano capitale della sua produzione filosofica[v], Kant intende occuparsi del mondo del pensiero (le capacità e i limiti dell’intelletto), ma egli ne parla come se ciò fosse l’ambito di cui è competente la «metafisica»[vi], che invece, per Aristotele o San Tommaso, non riguarda affatto il mondo del pensiero. Ciò significa che Kant – come accade per molti altri moderni –, con metafisica intende qualcosa di diverso.
    Per Aristotele, la metafisica  è «una scienza che studia ciò che è in quanto ciò che è»[vii], cioè l’ente. L’oggetto della metafisica non è affatto il pensiero, ma ogni cosa che sia titolare dell’atto di essere, ogni ente, ogni cosa che esiste. Se una cosa non esiste, dunque, per Aristotele non è un’oggetto di cui si occupa la metafisica.
    E, inoltre, essa studia gli esseri (o enti) non sotto qualsiasi punto di vista, ma prima di ogni loro proprietà, essa li studia proprio in quanto esistono, in quanto enti, sotto lo specifico punto di vista della loro natura di esistenti, prima ancora di studiarne qualsiasi altra loro proprietà o modo di essere posteriore a questo primissimo dato. Le cose sono, prima di tutto, titolari di un’esistenza autonoma e indipendente dal pensiero. Questo dato è talmente originario, che l’intelletto, non potrebbe concepire nulla di una cosa e nemmeno ragionare su di essa, se prima di tutto non apprendesse, di ogni singola cosa, questa primissima proprietà e natura: che è un ente[viii].
    Studiare l’ente in quanto ente, dunque, significa, voler conoscere quelle proprietà che per natura appartengono ad ogni ente o esistente, non in quanto ente fisico o pensato o vivente ecc., che sono tutti modi di essere di enti; ma significa voler capire quelle proprietà che appartengono all’ente «per sé stesso»[ix], cioè «per la sua stessa natura»[x], cioè la natura di ente o esistente.
    Ed è in ciò, cioè riguardo all’oggetto stesso e, quindi all’essenza della metafisica, che Kant si differenzia completamente. Metafisica, in Kant, significa tutt’altra cosa, cioè, come si evince dal brano citato, essa sabra piuttosto una scienza che si occupa del pensiero e delle leggi del pensiero.
    In effetti, per Kant la metafisica è sganciata dall’esistente, e si occupa piuttosto della nostra mente, più specificamente dei «fondamenti primi [ersten Gründe] della nostra conoscenza»[xi]. Questa nozione di metafisica, Kant l’aveva desunta e insegnata basandosi su un opera di metafisica del Baumgarten, che a sua volta la desumeva dal Wolff, per il quale, com’è noto, la filosofia è la scienza del pensabile.
    Anche soltanto seguendo questi tre pensatori moderni, dunque, si nota che l’oggetto esterno non è più richiesto tra le tre condizioni della conoscenza sopra elencate e che la Metafisica stessa diventò, per questi ed altri autori, un discorso razionale riguardante l’ente e non una scienza di tutto ciò che esercita autonomamente e attualmente l’atto di essere.
    Sicché, quando ci si accosta a un autore moderno, uno finisce sempre per chiedersi se, per quell’autore, esistono le cose oggetto di conoscenza di cui egli parla e anche in che modo, per lui, esse esistano. Ciascuno di questi autori ha risposte proprie a tal proposito, ma li accomuna il fatto che, nel loro modo di pensare, se si fa attenzione, le cose potrebbero non essere titolari di diritto di una propria esistenza, ma di un’esistenza dipendente dall’intelletto umano.
    E tuttavia, in questo modo di pensare, all’inizio non si è voluto esaltare le capacità dell’intelletto, ma anzi limitarle. Infatti, ciò che ha ulteriormente contribuito in questo processo, è che proprio l’intelletto è stato privato della sua prima prerogativa.
    La prima delle operazioni dell’intelletto umano, infatti, è quella di una capacità di attingere immediatamente il ciò che è della cosa, allo stesso modo in cui, per es., l’occhio percepisce immediatamente il colorato. Ed è questa la terza condizione elencata sopra, affinché si dia la conoscenza: che all’origine ci sia un atto conoscitivo che entra in contatto immediato con l’essenza della cosa esistente al di fuori della mente.
    3)    La prima operazione dell’intelletto in rapporto alle altre due
    C’è una differenza tra ciò che avviene originariamente e secondariamente nelle operazioni dell’intelletto; tra quando, cioè, incontro e conosco per la prima volta una cosa e quando la rivedo e la riconosco oppure quando, mediante le cose già conosciute, sviluppo ragionamenti con cui giungo a nuove conclusioni e conoscenze.
    Ciò che riguarda la prima fase della conoscenza costituisce l’epistemologia insegnata da un autore (prima e seconda operazione dell’intelletto), ciò che invece riguarda i ragionamenti (discorsi, sillogismi, nuove conclusioni ecc.) riguarda la sua metodologia, ciò che accade secondariamente (terza operazione dell’intelletto).
    In realtà, posti i princìpi epistemologici di un autore, il metodo né costituisce la conseguenza inevitabile in tutti gli autori. La terza operazione dell’intelletto, infatti, lavora coerentemente con le premesse, ragionando a partire da esse e, traccia così la via utilizzata o insegnata da un dato autore. Posti dei princìpi, siano essi veri e reali oppure irreali e falsi, la ragione è uno strumento che lavora nello stesso modo con i dati offertigli dall’intelletto all’inizio, lei fa il suo e svolge semplicemente il tema fino alle ultime conclusioni.
    Nella sua prima operazione, quando originariamente conosce una cosa, l’intelletto umano ha bisogno innanzitutto dei sensi esterni. E successivamente avrà bisogno di alcune facoltà sensitive interne, come l’immaginazione. Infatti, nello stato della vita presente, noi, anche quando ragioniamo su cose già conosciute, ci facciamo delle raffigurazioni sensibili. Per es., i famosi luoghi di Cicerone, sono un espediente raffigurativo che sorge da questa nostra necessità, in quanto lui, per concatenare i discorsi senza dimenticare nulla, si raffigurava dei luoghi a lui familiari, come le stanze della sua casa, per mantenere l’ordine dei concetti e ragionamenti che esprimeva durante un’orazione tenuta davanti a un pubblico.
    Con ciò, benché siano necessari i sensi esterni quando primariamente conosciamo qualcosa, per acquisirne «gli accidenti esterni»[xii], tuttavia, scrive San Tommaso, «soltanto l’intelletto attinge l’interno e l’essenza della cosa»[xiii].
    Quando io vedo Socrate la prima volta, ne ricavo sì i dati sensibili che si fissano e si conservano in un’immagine, detta tecnicamente fantasma; ma è l’intelletto che, da questi dati sensibili ricava e imprime, per così dire, in se stesso l’essenza della cosa.
    Con la seconda operazione, poi, l’intelletto, avendo, per così dire, ricevuto l’essenza della cosa, come l’occhio riceve il colorato, enuncia un giudizio attribuendo a quel dato soggetto quella data essenza che egli ha riscontrato osservando la cosa.
    Di Socrate, per es., la prima volta che lo incontro, i sensi colgono solo il colore, l’odore ecc.; mentre l’intelletto dai dati sensibili, che vengono incamerati nell’immaginazione, ricava riguardo al soggetto Socrate, molto di più: prima di tutto che è un ente, un animale, un animale razionale e così via. Nella seconda operazione l’intelletto si pronuncia su quanto ha rilevato ed emette, si dice, un’enunciazione o giudizio. Cioè attribuisce a Socrate ciò che gli spetta da quanto l’intelletto ha rilevato esserci in esso. Da questa operazione provengono le frasi pronunciate dalle nostre corde vocali, quelle con la copula è: Socrate è (cioè: esercita l’atto di essere); Socrate è un’uomo ecc.
    Ciò che accade nel ragionamento, invece, cioè nella terza operazione dell’intelletto, non riguarda più questo contatto immediato dei sensi e poi dell’intelletto, ma, scrive san Tommaso, una volta che ne ha ricavato l’essenza e ha stabilito che essa appartiene a un determinato soggetto e ad altri soggetti come quello, l’intelletto «a partire dalle essenze delle cose, svolge operazioni diverse attraverso il ragionamento e la ricerca»[xiv]. E quando svolge questa sua terza operazione, l’intelletto è meglio conosciuto con un altro nome, cioè quello di ragione.
    4)    Cosa è accaduto nell’intelletto dei moderni
    Nei moderni, tuttavia, viene a mancare il momento originario della conoscenza, quello per il quale l’intelletto si apre sul mondo delle cose attualmente esistenti. Anzi, i moderni, non solo iniziano le loro ricerche filosofiche, cercando di capire come funziona la ragione pura, cioè vuota di ogni dato esterno e indipendente dalla loro mente, ma essa è privata della prima operazione dell’intelletto, che permette il primo rapporto conoscitivo tra il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto. E nei moderni si giunge persino a negare fiducia, già con Cartesio, a quelle che abbiamo visto essere, nello stato della vita presente, delle finestre dell’intelletto: i sensi.
    Emblematico, a questo riguardo l’incipit di una celebre pagina della filosofia moderna, quello della terza meditazione di Cartesio, che si apre con la seguente risoluzione: «Ora chiuderò gli occhi, turerò le orecchie, escluderò tutti i sensi ed eliminerò dal mio pensiero anche tutte le immagini delle cose corporee»[xv].
    A partire da questa risoluta decisione, si assiste ad un gran dispendio di energie mentali da parte dei più riconosciuti pensatori degli ultimi secoli a ricostruire le strutture e gli schemi di una ragione che prescinde da ogni contenuto che le provenga dal mondo esterno degli enti. Ed è così che, da qualche secolo in qua, si molti pensatori fanno ricerche e analisi sul pensiero vuoto o puro.
    Il punto di svolta davvero copernicana, com’egli stesso la chiama, viene raggiunto con Kant, il quale, partito con l’intento di indagare i limiti dell’intelletto, finisce per isolarlo in una sovranità assoluta rispetto agli oggetti conosciuti, i quali si ritrovano privi di qualsiasi esistenza autonoma e qualora ne avessero, l’intelletto non avrebbe nemmeno l’obbligo di regolarsi in base a questa loro autonomia, cioè adeguandosi al fatto che essi sono titolari di un loro proprio atto d’essere. Scrive, infatti, in un’altra pagina capitale del pensiero moderno: «Finora si è creduto che ogni nostra conoscenza debba regolarsi sugli oggetti; ma tutti i tentativi, condotti a partire da questo presupposto, di stabilire, tramite concetti, qualcosa a priori intorno agli oggetti, onde allargare in tal modo la nostra conoscenza, sono andati a vuoto. È venuto il momento di tentare una buona volta, anche nel campo della metafisica, il cammino inverso, muovendo dall’ipotesi che siano gli oggetti a doversi regolare sulla nostra conoscenza»[xvi].
    Persino lo spazio è una nostra forma a priori e non ci dice nulla sulla reale estensione dei corpi, la loro impenetrabilità ecc. che pure sono prerogative della loro natura, tenendo conto delle quali l’uomo opera quotidianamente nel mondo e riesce a influire in molti modi su di esso.
    Kant inizia la sua speculazione distaccandosi dagli autori che lo avevano preceduto, sia dagli empiristi che dai razionalisti. Tuttavia ciò che accomuna tutta la modernità è il rifiuto o il sospetto (per usare un termine cartesiano) che il mondo esistente indipendentemente dalla nostra mente ci inganni.
    La novità dell’epistemologia di Aristotele e San Tommaso, invece, sta nel porre proprio nella capacità dell’intelletto di conoscere le cose esistenti al di fuori e indipendentemente da sé stesso il principio di ogni sapere e agire umano sulla terra.
     
     
    5)    Attualità o meno di un pensiero (deve servire a qualcosa)
    È fondamentale, per comprendere l’epistemologia e la metodologia di un autore, capire come utilizza le varie operazioni dell’intelletto, in quanto è in base ad esse che il suo pensiero è valido e, quindi, attuale, oppure no.
    In che modo una epistemologia e una metodologia che misconosce l’esistenza delle cose esterne e indipendenti dalla mente, può aiutare l’uomo a conoscere il mondo in modo da poterlo anche governare e ricavarne i beni necessari alla sua sussistenza, ancor prima che alla sua conoscenza.
    Se le cose non avessero una natura per se stesse sarebbe impossibile non solo l’agire quotidiano in vista di un certo scopo, ma sarebbe anche impossibile lo sviluppo tecnico e scientifico e quello filosofico. Anche il dialogo tra gli uomini, tra i popoli e tra le diverse scuole di pensiero sarebbe impossibile, in quanto la ragione di una certa scuola, tutta isolata e indipendente dalle cose reali e indipendenti da tale ragione, non troverebbe nessun punto di verifica esterno alle varie scuole, capace di costituire un metro di paragone delle verità che si sono costruite all’interno di una singola scuola di pensiero.
    Quanto alla vita quotidiana, l’esempio è presto fatto. Infatti, quale contadino pianterebbe un chicco di frumento, invece di un sasso, se non fosse certo che nel chicco di frumento c’è una legge intrinseca alla sua natura, una legge che non dipende dall’intelletto che l’ha riconosciuta ed essa non dipende nemmeno dalle mani che piantano quel seme. Si tratta di una legge intrinseca al chicco di frumento ma che invece nel sasso non c’è, perché il sasso ha in se leggi diverse da quelle della materia organica.
    Allo stesso modo, come potrebbero le scienze sperimentali progredire, se gli uomini non fossero certi che nel mondo ci sono delle leggi ad esso intrinseche che lo reggono sia nei singoli enti che in esso esistono che nelle loro correlazioni. Perché la storia dell’astronomia avrebbe dovuto veder contrapposti in fasi a volte contemporanee e a volte successive posizioni tanto diverse, come l’eliocentrismo e il geocentrismo, se non in base alla consapevolezza che queste teorie avevano qualcosa da dire non relativamente a ciò che c’era nella mente dei loro inventori, ma cercavano di parlare su come le cose stavano realmente all’esterno della loro mente.
    Ed è questa l’attualità del modo di pensare di San Tommaso, cioè della sua epistemologia e della sua metodologia. L’intelletto, per lui, non è irrigidito e isolato in un mondo interiore, e ogni conclusione o teoria può essere modificata in base a nuove osservazioni e nuovi dati provenienti dal mondo esterno alla mente. Tanto che in San Tommaso troviamo persino gli strumenti con i quali e possibile superare anche gli stessi contenuti da lui insegnati, qualora nel frattempo la ricerca fosse venuta in possessi di nuove esperienze sul mondo esterno.
    Infatti, a differenza di quanto avviene per le verità rivelate, per le quali il suo insegnamento va affrontato a parte, per le verità e le conclusioni scientifiche, invece, egli insegna come esse possano nel tempo modificarsi o essere completamente superate.
    Ciò emerge molto chiaramente in un suo testo riguardante la teoria tolemaica che, al tempo di San Tommaso, era pur sempre la teoria predominante. Ebbene, a proposito delle ipotesi (così le chiama) che si facevano a riguardo dei fenomeni celesti, qualche secolo prima delle appassionate ricerche di Galileo che misero in discussione proprio quelle ipotesi, San Tommaso scrive:
    «Anche se, fatte queste ipotesi, si salvino i fenomeni, tuttavia non si può dire che esse siano vere, poiché, forse, i fenomeni celesti si potrebbero [ugualmente] salvare in qualche altro modo, non ancora noto agli uomini»[xvii].
     
      [i] Cfr. Fernando Fiorentino, Attualità di San Tommaso, Napoli, EDI, 2017, p. 6).
    [ii] Cfr. ib., p. 7, dove si cita Th. KUHN, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, tr. it. a cura di A. Carugo, Torino, Einaudi, 1978, p. 30.
    [iii] George Berkeley, Trattato sui principi della conoscenza umana, tr. it. Mario Manlio
    Rossi, Bari, Laterza, 1984, p. 98. Il Rossi, contrariamente ad altre traduzioni, traduce con scienziati l’originale filosofi. Infatti, «si chiamavano filosofi anche gli scienziati, in quanto la scienza era considerala una philosophia naturalis» (Giorgio Berkeley, Il Trattato sui princìpi della conoscenza umana, a cura di Adelchi Baratono, Milano, Mondadori, 1935, p. 116, n. 2).
    [iv] Immanuel Kant, Critica della ragion pura, B xvi; tr. it. a cura di Pietro Chiodi, Torino, UTET, 1967, p. 44.
    [v] Cfr. Ib.
    [vi] Cfr. Ib. dove la metafisica viene posta in correlazione con il problema gnoseologico di queste pagine per ben due volte in poche righe (pp. 44 s.).
    [vii] Arist., Metaph., IV, 1; 1003a, 21; tr. it. mia.
    [viii] «Ciò che prima di tutto entra nella concezione dell’intelletto, quale cosa più di tutte nota e in cui risolve tutti i concetti è l’ente – Illud quod primo intellectus concipit quasi notissimum, et in quod conceptiones omnes resolvit, est ens» (Thom., De Ver., q. 1, a. 1). In effetti, ciò che sappiamo prima di una cosa e ciò che alla fine di tutti i ragionamenti rimane un punto fermo, è il fatto che ogni cosa è qualcosa. Nessun’altra nozione e Nessun ragionamento sarebbe possibile, se non iniziando con questo dato e finendo con questo dato. Il vuoto, per l’intelletto, non è concepibile, tanto che, per parlarne, abbiamo bisogno di immaginarcelo come un estensione buia o qualche altra vaga figura.
    [ix] Arist., Metaph., IV, 1; 1003a, 22.
    [x] Come ben interpreta la traduzione del Rossi (Bari, Laterza, 1982, p. 85), che però traduce sempre τὸ ὂν con l’essere, che è un concetto astratto, mentre τὸ ὂν si riferisce a ogni concreto soggetto dell’essere in quanto tale, a ciò che esercita attualmente l’atto d’essere visto sotto l’aspetto di ciò che esercita tale atto.
    [xi] Untersuchung über die…, AA. II, p. 283 (trad. it., Bari, Laterza, 1982, p. 227).
    [xii] Thom., De Ver., I, 12.
    [xiii] Ib.
    [xiv] Ib.
    [xv] Cartesio, Meditazioni Metafisiche, a cura di Antonella Lignani ed Eros Lunani, Roma, Armando, 2008, p. 73.
    [xvi] Immanuel Kant, Critica della ragion pura, B xvi; tr. it. a cura di Pietro Chiodi, Torino, UTET, 1967, p. 44.
    [xvii] «Licet enim, talibus suppositionibus factis, apparentia salvarentur, non tamen oportet dicere has suppositiones esse veras; quia forte secundum aliquem alium modum, nondum ab hominibus comprehensum, apparentia circa stellas salvantur» (In Arist. de cael., lib. 2 l. 17, n. 2; ed. Marietti, Torino, 1952, n. 451, p. 226).
  17. SEM IPC
    "Mentre si accende il dibattito sulla sinodalità in vista del sinodo di ottobre, pubblichiamo il puntuale contributo del Prof. Gianvito Sibilio, dottore in storia medievale e direttore di Christianitas Rivista di Storia Pensiero e Cultura del Cristianesimo. Egli ha presentato a San Severo, il libro di Nicola Bux e Guido Vignelli,  La Chiesa sinodale. Malintesi e pericoli di un "grande reset" ecclesiastico  Fede&Cultura, Verona 2023".
    Sentendo parlare tanto spesso di sinodalità, e considerando che la parola deriva da “Sinodo”, la quale a sua volta è sinonimica di “Concilio”, è facile cadere nell’errore per cui essa rimandi all’idea di un governo collegiale della Chiesa, in una forma simile a quella che si attribuisce alle Chiese Orientali separate da Roma o anche delle Chiese sui iuris. In realtà si tratta di due cose completamente differenti, la cui distinzione è stata puntualizzata dalla Commissione Teologica Internazionale, mediante il documento La Sinodalità nella vita della Chiesa, del 2018[1].
    L’espressione più qualificata del governo collegiale della Chiesa si riscontra nell’antica prassi annuale dei due Sinodi diocesani e del Concilio provinciale, dei frequenti Concili plenari delle Chiese locali e di quelli generali, che poi spesso venivano riconosciuti come Ecumenici. Essa durò a lungo ma infine fu battuta in breccia dal montante centralismo papale, per cui i vescovi, a partire dal momento in cui furono quasi tutti eletti da Roma, preferirono rivolgersi a lei per risolvere i loro problemi, piuttosto che ai loro pari. Fu così che la tradizione andò a ridimensionarsi. Ma quando nel Concilio Vaticano I, con la definizione del dogma dell’Infallibilità del Papa e del suo Episcopato Universale, la centralizzazione del potere ecclesiastico nelle mani del Romano Pontefice raggiunse il suo apice, si pose anche il problema di riequilibrare le competenze tra lui e l’Episcopato stesso. La cosa è stata risolta dal Concilio Vaticano II che, con il suo magistero supremo ed ordinario, ha insegnato la dottrina del Sacro Collegio episcopale con il Papa e sotto il Papa, al quale spetta la suprema potestà sulla Chiesa tanto quanto al Pontefice stesso da solo. Tale dottrina, la cui più qualificata applicazione è senz’altro la convocazione, di libera periodicità, dei ventuno Concili Ecumenici, ha implicato uno sforzo di maggiore attuazione pratica, ancora in corso, la cui massima espressione è stata l’istituzione del Sinodo dei Vescovi, con la costituzione apostolica Apostolica Sollicitudo, da parte di Paolo VI. Organo consultivo di composizione mista, risultante dall’elezione di delegati da parte delle Conferenze Episcopali e dalla nomina di membri di scelta pontificia, il Sinodo è stato nel 2018 riformato dalla costituzione apostolica Episcopalis Communio di Francesco, che proprio tramite tale documento ha tentato di collegare il concetto di Collegio episcopale a quello, del tutto nuovo, di sinodalità. In questa costituzione si legge infatti che l’intero popolo di Dio deve avere voce tramite i suoi vescovi (nm. 6), ridotti così a suoi portavoce.
    La sinodalità, come afferma anche il Documento della Commissione Teologica Internazionale, si è  sviluppato proprio a partire dal Concilio Vaticano II e dal magistero che lo ha seguito, ma nonostante ciò, nella stessa sede, viene definito come specifico “modus vivendi et operandi della Chiesa Popolo di Dio che manifesta e realizza in concreto il suo essere comunione nel camminare insieme, nel radunarsi in assemblea e nel partecipare attivamente di tutti i suoi membri alla sua missione evangelizzatrice (nm. 6, 3)”. Una definizione verbosa e nebbiosa al quale il Documento dà una patina esplicitamente scorretta quando suggerisce l’idea che la collegialità episcopale sia la forma più qualificata della sinodalità della Chiesa, implicando la caduta della barriera tra sacerdozio regale dei battezzati e legale degli ordinati, oltre che subordinare il potere delle chiavi a quello, del tutto nuovo, dell’insieme dei fedeli, quasi che Dio lo consegnasse ai vescovi tramite il corpo ecclesiale e non direttamente. Il Documento tenta di ravvisare nella Scrittura come nella Tradizione i luoghi teologici di questa dottrina del tutto nuova e, in palese contraddizione con sé stesso e le sue ammissioni iniziali, cerca precedenti della sua applicazione nel corso della storia ecclesiastica, in una maniera discutibile che meriterebbe di essere approfondita altrove. Peraltro la nuova concezione sinodale sembra voler giungere all’obiettivo di trasformare la “base” dei fedeli in un autentico, per quanto ancora velato, centro decisionale, quando invece ad essa può al massimo spettare una forma di consultazione, così da non pregiudicare le prerogative del sacerdozio gerarchico, della collegialità episcopale e del primato petrino. Ciò svela il background di questa nuova dottrina, ossia, senza risalire ai precedenti di matrice protestante, il Modernismo, il Patto delle Catacombe, la Teologia della Liberazione e il Neomodernismo. Un parterre piuttosto inquietante, ma sedimentato da tempo nella formazione di larga parte del clero.
    La cosa ha ovviamente aperto un dibattito. Gli “innovatori” affermano che la lex credendi, nella quale tradizionalmente si convertiva quella orandi, oggi sarebbe il ricettacolo anche della lex agendi, il che porterebbe però, di epoca in epoca, alla trasformazione della morale in forme sempre nuove. Essi poi slegano il nesso esistente tra magistero e sentire dei fedeli, il sensus fidei – che rettamente inteso è un luogo teologico – concependo in senso quasi sociologico il Popolo di Dio e quindi “parlamentarizzando”, per così dire, il suo ruolo, come se si potesse prescindere dai contenuti della fede che sempre, ovunque e da tutti sono stati creduti. Ciò implicherebbe, in linea di principio, non solo che le verità di fede definite dovessero essere, eventualmente, rispiegate e nuovamente argomentate, il che è avvenuto molte volte, ma anche ridiscusse  e quindi riformulate, addirittura in modi diversi e in contraddizione tra loro, il che è inaccettabile, quanto meno perché autodistruttivo per la Chiesa stessa. 
    Per adottare questa nuova metodologia nel modo più ampio e in forma definitiva, il Papa ha convocato una Assemblea sinodale specifica, che doveva tenersi nel 2022 ma che è slittata di un altro anno. Il dibattito che ne è seguito, viziato dalle ambiguità citate che Francesco, al suo solito, non ha corretto, ha prodotto un instrumentum laboris onnicomprensivo, interpretabile in diverse maniere, applicabile in ancor più modi, incapace di garantire in senso ortodosso il futuro sviluppo di questo nuovo metodo ecclesiale. Perciò l’instrumentum è stato oggetto di opposte valutazioni: dai peana della Civiltà Cattolica alle critiche vibranti dei Cardinali Pell, Burke e Müller. Quello che sarà, non sappiamo, ma è un dato di fatto che le patenti eresie esistenti, ad esempio, nella Chiesa tedesca col suo Conciliabolo, in quella Belga e in parte di quella Americana, non sono state condannate dalla Santa Sede – che è così venuta meno al suo dovere - mentre le nomine fatte nell’organigramma decisionale, tra le quali spicca quella dell’inquietante cardinal Jean Claude Hollerich non lasciano presagire nulla di buono. Il Pontefice crede che i conflitti non vadano sopiti ma suscitati, alla ricerca di una sintesi ulteriore prossima ventura, secondo una interpretazione un poco semplificata dell’opposizione polare di Romano Guardini. L’esito catastrofico dei due Sinodi sulla Famiglia, scolpito nella monumentale ambiguità dei passaggi chiave di Amoris Laetitia, è il faro, spento, in questa navigazione tormentata. Molti pensano di poter andare avanti con sicurezza, perché si tratta della convocazione legittima di un organismo ecclesiastico legale da parte del Papa regnate, il che è tutto vero. Ma questi crismi di legalità non impediranno la tracimazione del dibattito dentro e fuori l’aula, mancando una mano forte e una mente sicura a governarlo. La Curia Romana, oggi, laddove non può immediatamente modificare l’assetto disciplinare esistente, lo fa coesistere con quello nuovo che promuove di fatto, ma non il contrario. I poteri della finanza globalista, tramite i media che controllano, vogliono ipotecare il futuro della Chiesa, allo scopo di ridurre la natalità e accentrare le ricchezze, a dispetto dello stesso Pontefice e della sua formazione, un poco stantia, nella Teologia del Pueblo, che risulta del tutto inadatta a decifrare il presente, da cui viene suo malgrado rivisitata. Antiche crisi, come quella ariana o quella monotelita, possono essere comparate all’odierna e aiutano a capirla, ma nessuna di esse rende la complessa problematicità attuale che,  amplificata dall’esterno, scaturisce da dinamiche interne della Chiesa che affondano le loro radici nella crisi post conciliare e nel rinnovamento teologico degli anni centrali del secolo scorso, in primis nella svolta antropocentrica della teologia rahneriana, ma anche nell’inquinamento delle fonti operato dalle infiltrazioni di agenti comunisti del COMSURGIN a partire dagli anni quaranta del secolo scorso.
    In verità, il problema in questione sembra articolarsi su due livelli. Il primo è quello della metodologia proposta, supportata da un formidabile schieramento di mezzi e uomini che controllano tutto il mainstream ecclesiastico, ma che rimane, a mio avviso, fragile di una vera base dottrinale, specie agli occhi di chi ben conosca l’autentica Tradizione della Chiesa. Il suo esito dunque non può essere una primavera della Chiesa, ma un rigido inverno che, dopo averla congelata, la frantumi in mille pezzettini. Da qui si risale al secondo livello, ossia al problema della formazione del clero e dei laici, che in Occidente e nelle Americhe sono del tutto inappropriati a svolgere anche solo una funzione consultiva nel governo della Chiesa, se non fermamente regolata. Gli sviluppi della questione sono quindi tutti aperti. Del resto, negli anni sessanta e settanta un primo modello di consultazione allargata si ebbe nelle Comunità di Base, coi suoi trecentomila membri, nate all’ombra della Compagnia di Gesù, del tutto allo sbando sotto il Generalato di Arrupe. In questo modello, assimilabile anche ad altri di diversa matrice, che chiamiamo della contestazione progressista cattolica, ogni principio, pastorale canonico liturgico e dottrinale, veniva sottoposto al vaglio della comunità stessa. Se è questo il modello, la Chiesa in Occidente scomparirà. Ma è anche vero che, oltrecortina, proprio negli anni disgraziati della contestazione, nella Chiesa polacca, precisamente nell’Arcidiocesi Metropolitana di Cracovia, il Cardinale Karol Wojtyla riuniva i fedeli, i religiosi e i laici in autentici comitati di base, in cui potevano esprimersi su temi politici, economici, sociali, culturali – da cui erano esclusi dall’ateismo monopartitico della dittatura bolscevica – ma anche religiosi, in materie non di fede o non definite. La cosa era possibile perché il laicato polacco era ed è fedele alla Regula Fidei e il suo clero, solidamente formato, era stato temprato dalla persecuzione nazista e comunista.  Le proposte dei comitati di base, incluse quelle religiose, venivano poi portate dall’Arcivescovo in Conferenza Episcopale e all’occorrenza anche al Sinodo di Roma. Possiamo sperare che questo modello trionfi. Ma perché ciò accada, siccome il dibattito sinodale è in corso, tutti coloro che hanno a cuore la conservazione della retta fede e della Tradizione, sia pure nel quadro di una sua crescita e sviluppo regolari, possono e devono guardare al modello polacco, propugnandolo, mentre denunciano i rischi insiti nell’altro paradigma. In tal caso la meta da raggiungere sarebbe quella di una consultazione, senza pregiudizio del potere di magistero e di ordine, nelle coordinate precise di una fede ben enunciata e, di conseguenza, anche ben vissuta. Una inculturazione accettabile della Chiesa nella post modernità, non de fide, ma congrua ad essa.
    E’ questo l’apporto che possiamo dare alla grande e caotica consultazione in corso, avendo lo sguardo fermo a Cristo, che è il solo a guidare la Chiesa, con la consapevolezza che Egli chiama tutti ad operare responsabilmente. Un apporto tanto più necessario, perché ad oggi il dibattito sulla cosiddetta democratizzazione della Chiesa viene condotto con metodi non democratici, coi quali un gruppo ristretto di ecclesiastici rivoluzionari, dopo aver epurato i confratelli dissidenti, predetermina le opzioni di scelta della esigua base raccolta attorno a loro, anch’essa scremata delle voci contrarie, e a cui si chiede solo apparentemente di prendere decisioni. Un metodo divisivo, nonostante la drammatica diminuzione dei praticanti, un metodo settario, che perciò va combattuto con mezzi di autentica partecipazione al dibattito che è stato aperto in modo incosciente.
      [1] Cfr. sul tema N.BUX-G.VIGNELLI, La Chiesa Sinodale, Verona 2023; S.MADRIGAL, Che cos’è il cammino sinodale? Il pensiero di Papa Francesco, in La Civiltà Cattolica IV (2021), pp. 17-33; C.FANTAPPIE’, Metamorfosi della sinodalità, Roma 2023; A.MARTIN, Quale sinodalità, Brescia 2021; G.MÜLLER, In buona fede, Milano 2023; J. RATZINGER – BENEDETTO XVI, Questions about the Structure and Duties of the Synod of Bishops, in Communio, 48 (2021); pp. 70-78; si veda anche l’intervista di R.L.BURKE a LifeSiteNews, 18 ott. 2015, pubblicata in italiano su Scuolaecclesiamater.org; e G.PELL, The Catholic Church must free itself from this nightmare, su The Spectator, 10 gen. 2023, pubblicata in italiano su aldomariavalli.it.

     
     
     
  18. SEM IPC
    Domenica di Passione [delle Palme].
    Cappella dell'Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria
    Pontificio Collegio Nordamericano, Roma
    2 aprile 2023
     
    Is 50, 4-7
    Sal 22, 8-9. 17-18. 19-20. 23-24
    Fil 2, 6-11
    Mt 26, 14-27, 66
     
     
                                                                           Omelia
     
     
    Sia lodato Gesù Cristo, ora e sempre . Amen.
     
    L'osservanza dei giorni più sacri dell'anno liturgico inizia opportunamente con la processione che ricorda l'ingresso trionfante di Cristo a Gerusalemme per celebrare la Sua ultima Pasqua, quella che Egli ha trasformato per sempre con la Sua passione, morte, risurrezione e ascensione. San Paolo nella Lettera ai Filippesi esprime il grande mistero che iniziamo a celebrare oggi e che celebreremo durante tutta la Settimana Santa: Cristo, Dio Figlio incarnato, che «si fece obbediente fino alla morte, fino alla morte di croce»,[1] è seduto la destra del Padre, «è il Signore, a gloria di Dio Padre».[2] Cristo è davvero il Re del Cielo e della Terra. Cristo rivelò la Sua gloria regale donandosi nelle mani di coloro che lo deridevano, lo torturavano crudelmente e poi lo giustiziarono nel modo più ignominioso possibile all’epoca. Si consegnò alla sofferenza e alla morte, sapendo che “non sarebbe stato deluso”,[3] poiché era stato inviato da Dio Padre per adempiere la promessa del Padre di salvezza eterna.
    Oggi portiamo le palme benedette e acclamiamo Cristo come nostro Re, sapendo che la sua Regalità si esercita con l'effusione della Sua vita per noi sul Calvario, resa sempre nuova nel Sacrificio eucaristico che offriamo. Quando Nostro Signore Gesù Cristo era morto per noi sulla croce, il Suo cuore regale fu trafitto dalla lancia del soldato romano, segno dell'effusione di tutta la Sua vita per la nostra salvezza eterna; il suo glorioso Cuore Reale rimane eternamente trafitto, aperto, per ricevere la nostra adorazione, i nostri cuori, e per trasformarli con l'incommensurabile e incessante effusione della grazia divina, rendendo i nostri cuori come i Suoi nell'amore puro e disinteressato. Dopo la Santa Messa di oggi, prendiamo con noi la palma benedetta e la intronizziamo accanto al crocifisso o all'immagine del Sacro Cuore di Gesù, perché ci ricordi, ogni giorno e per tutto il giorno, di donare completamente il nostro cuore a Gesù Cristo, nostro Signore e Re.
    Come oggi abbiamo accompagnato misticamente nostro Signore nel Suo ingresso glorioso in Gerusalemme, così accompagniamolo anche, lungo tutta la Settimana Santa, sulla Via Crucis, cammino della Sua gloria eterna e pegno della stessa gloria che Egli ha vinto per noi come nostra eredità duratura. Lasciamo che la nostra unione con Cristo durante questi giorni santissimi diventi la forma della nostra vita quotidiana, come Nostro Signore ci insegna nel Vangelo: "Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua".[4]
    Oggi e durante tutta la Settimana Santa, riflettiamo sul mistero della sofferenza e della morte di Cristo, il mistero del Suo cuore regale, trafitto dopo che ha dato la Sua vita per noi sulla croce. Riflettendo sulla Via Crucis, uniamo alle sofferenze di Cristo le sofferenze che sopportiamo nella nostra vita e le sofferenze dei nostri fratelli e sorelle in tutto il mondo. In modo particolare, uniamo alle sofferenze di Cristo le sofferenze del Suo Corpo Mistico, la Chiesa, che sta attraversando un tempo di confusione ed errori pervasivi, con i loro frutti che sono la divisione, l'apostasia e lo scisma. Unendo le nostre sofferenze alla passione e morte di Cristo, preghiamo per noi stessi e per i nostri fratelli e sorelle nella Chiesa e nel mondo, affinché possiamo avere un cuore indiviso, un cuore totalmente unito al Cuore di Gesù, un cuore umile che non fa sfigurare, perché appartiene completamente a Dio, confidando nella sua Provvidenza e pregando: “Ma tu, o Signore, non stare lontano! O mio aiuto, affrettati in mio aiuto”.[5]
    In piedi misticamente con San Giovanni Apostolo ed Evangelista ai piedi della croce di Nostro Signore, possano i nostri cuori essere tutt'uno con il Cuore Immacolato di Maria. Possano essere totalmente per Cristo. Possano sempre ascoltare il consiglio materno della Madre di Dio, la Madre della Divina Grazia, ai suoi figli in difficoltà: "Fate quello che vi dirà".[6]
    Possano i nostri cuori diventare regali nel Cuore Reale di Gesù, regali in tutte le virtù di Nostro Signore, le virtù dalle quali siamo ispirati e rafforzati per dare la nostra vita per la gloria di Dio e la salvezza del nostro mondo. Meditiamo l'insegnamento di Papa San Giovanni Paolo II nella sua prima Lettera Enciclica, Redenptor Homini . Riferendosi alla realtà della regalità di Cristo nel cuore umano, ci ricorda la natura regale della nostra vita in Cristo, scrivendo:
     
    Se, alla luce di questo atteggiamento di Cristo, «essere re» è veramente possibile solo «essere servo», allora «essere servo» esige anche una tale maturità spirituale che deve essere proprio definito «essere re». Per poter servire degnamente ed efficacemente gli altri dobbiamo essere in grado di dominare noi stessi, possedere le virtù che rendono possibile questo dominio. La nostra partecipazione alla missione regale di Cristo – il suo “[ufficio] regale” ( munus ) - è strettamente legata ad ogni sfera della morale sia cristiana sia umana.[7]
     
    La Regalità di Cristo sui cuori umani non è un ideale a cui tutti sono chiamati ma che solo pochi possono raggiungere. È piuttosto una realtà della grazia divina che aiuta anche il soggetto umano più debole e provato a raggiungere un grado eroico di virtù, se solo coopera con quella grazia divina.
    Cristo crocifisso e risorto rinnova ora sacramentalmente per noi il Sacrificio che per primo offrì sul Calvario, il Sacrificio per il quale entrò a Gerusalemme la domenica delle Palme, il Sacrificio con cui ci ha liberati dal peccato, il Sacrificio con cui fu vinto per noi la vita eterna. Nel Sacrificio eucaristico, prendiamo con Cristo la croce, ricevendo il frutto incomparabile del Suo Sacrificio: il Suo Corpo, Sangue, Anima e Divinità, cibo spirituale per il nostro pellegrinaggio terreno verso Dio Padre. Ricevendo Cristo nella Santa Comunione, possiamo portare Cristo a tutti coloro che incontriamo, secondo la Sua promessa:
     
    «Se qualcuno ha sete, venga a me e beva. Chi crede in me, come ha detto la Scrittura, fiumi d'acqua viva sgorgheranno dal suo seno».[8]
     
    Nel nome del Padre, e del Figlio, e dello Spirito Santo. Amen.
     
     
    Raymond Leo Cardinale Burke
     
    Pubblicazione approvata e autorizzata dall'autore
      [1]Fil 2, 8,
    [2]Fil 2, 11.
    [3]Is 50, 7.
    [4]Mt 16, 24.
    [5]Sal 22, 19.
    [6]Gv 2, 5.
    [7]“Si igitur secundum illum Christi habitum vel affectum aliquis «regnare» proprie valet dumtaxat «serviendo», simul postulat illud «serviendi» officium talem maturitatem spiritualem, quae dicenda sit prorsus significare aliquem «regnare». Ut quis ideo digne efficaciterque ceteris inserviat, oportet is dominetur in semet ipsum possideatque virtutes, quae permittant, ut ita dominetur. Nostra participatio regalis missionis Christi – illius quidem «muneris regalis» – arcto vinculo cohaeret cum omni regione doctrinae moralis, tam chistianae quam etiam humanae». Ioannes Paulus PP. II, Litterae Encyclicae Redemptor Hominis , «Pontificali eius Ministerio ineunte», 4 Martii 1979, Acta Apostolicae Sedis , 71 (1979), 316, n. 21. Traduzione inglese: : Pope John Paul II, Encyclicals (Trivandrum, Kerala, India: Carmel International Publishing House, 2005), p. 1116, n. 21.
    [8]Gv 7, 37-38.
  19. SEM IPC
    Hebdomada Sancta, Feria V in Cœna Domini
    Sacellum Immaculatae Conceptionis
    Seminarium Sancti Philippi Neri
    Gricigliano
    6 Aprilis 2023
     
    Epistola: 1 Cor 11, 20-32
    Evangelium: Jn 13, 1-15
     
                                                               Omelia
     
    Abbiamo iniziato questo giorno santissimo con la preghiera delle Tenebrae, fissando lo sguardo sul Mistero della Fede che celebriamo solennemente al termine della nostra osservanza della Quaresima ed entriamo nel Tempo della Passione, nella Settimana Santa e, oggi, nel Triduo Sacro. È il Mistero dell'Incarnazione Redentrice, la realtà più profonda della nostra vita. È la verità viva e permanente che Dio Figlio si è incarnato nel seno immacolato della Vergine Maria per offrire la Sua vita per la nostra salvezza eterna, per ottenere per noi il dono incommensurabile e incessante dello Spirito Santo, il dono della grazia divina, sgorgando dal Suo Cuore glorioso trafitto nei nostri cuori. Fissando lo sguardo sul Mistero della Fede, affrontiamo l'apparente annientamento di Dio Figlio incarnato, l'apparente vittoria dei suoi nemici, di Satana, “omicida fin dal principio” e “bugiardo e padre della menzogna” [1], con la Sua Passione crudele e morte ignominiosa sulla Croce.
    Ma la fede nella Divina Provvidenza mostra la realtà ancora più profonda e duratura della Sua vittoria sul peccato e sulla morte, della Sua gloria alla destra del Padre e della Sua presenza costante nella Chiesa mediante la Sua Risurrezione, Ascensione e invio del Spirito Santo a Pentecoste. Commentando il quinto salmo delle Tenebrae di oggi, Dom Prosper Guéranger ci aiuta a riflettere più profondamente e pienamente su ciò che ci insegna il Mistero della fede. Scrive Dom Guéranger:
     
    Il quinto salmo trasmette un insegnamento morale che, se ascoltato, correggerebbe molti falsi giudizi sul mondo. Accade spesso che gli uomini si sentano scossi vedendo prosperare i malvagi e afflitti i virtuosi. Fu la tentazione che vinse gli apostoli, quando, vedendo il loro divino Maestro nelle mani dei suoi nemici, persero la fede in Lui come il Messia. Il salmista ammette di essere stato lui stesso turbato dallo stesso tipo di pensiero; ma Dio lo ha illuminato per vedere la verità, che se la divina Provvidenza permette all'iniquità di trionfare per un certo tempo, verrà sicuramente il giorno in cui punirà i malvagi e vendicherà i giusti che hanno subito la persecuzione[2].
     
    La verità è espressa nel Graduale, tratto dalla Lettera di san Paolo ai Filippesi, che reciteremo frequentemente in questi giorni santi dell'Anno liturgico:
     
    Cristo si è fatto obbediente per noi fino alla morte, fino alla morte di croce. Per questo motivo anche Dio lo ha esaltato e gli ha dato un nome che è al di sopra tutti i nomi[3].
     
    La Divina Provvidenza ci rivela che Dio non vuole ma permette certi mali, per renderci evidente il peccato del mondo, mentre è sempre all'opera per compiere la Sua opera salvifica, per portare a compimento la missione di salvezza, della vittoria definitiva sul peccato e sulla morte, per la quale ha mandato nel mondo il Suo Figlio unigenito assumendo la nostra carne umana.
    Celebriamo questa sera l'istituzione della Santa Eucaristia e del Santo Sacerdozio, di cui essa è la ragion d'essere. La nostra meditazione sulla volontà tollerante di Dio ci aiuta a conoscere più pienamente e ad amare più ardentemente l'azione di Cristo in nostro favore nei Sacramenti della Santa Eucaristia e del Santo Sacerdozio. Nella loro istituzione, riflettiamo su come Dio permise il sacrificio cruento sul Calvario, affinché ci fornisse sempre il suo frutto, la salvezza eterna, attraverso il Sacrificio incruento della Messa e il suo frutto, la Santa Comunione della Divinità, del Corpo, del Sangue ed dell’Anima di Cristo. Con la nostra partecipazione alla Santa Messa, con l'unione dei nostri cuori al Cuore Eucaristico di Gesù, adempiamo nel modo più perfetto la nostra preghiera dell'Introito, tratta dalla Lettera di san Paolo ai Galati: “Ma ci conviene gloriarci nella croce di nostro Signore Gesù Cristo: in lui è la nostra salvezza, vita e risurrezione; dal quale siamo stati salvati e liberati” [4]. Richiama le parole della consacrazione del Preziosissimo Sangue: “Poiché questo è il Calice del Mio Sangue del nuovo ed eterno Testamento, il Mistero della Fede; che sarà versato per voi e per molti in remissione dei peccati»[5].
    Quante volte siamo confusi dai mali che assillano noi personalmente, assillano il mondo e assillano il Corpo mistico di Cristo. Nel tempo presente, noi, come membra vive della Chiesa, soffriamo con Essa mentre è lacerata dalle menzogne i cui frutti sono divisione, eresia, apostasia e scisma. Ci scandalizziamo giustamente assistendo agli attacchi alla Chiesa da parte di coloro che si definiscono cristiani e, soprattutto, di coloro che si sono consacrati per essere veri pastori del gregge. Siamo tentati, come lo furono gli Apostoli, a perdere la fede in Cristo e nella Sua promessa di rimanere sempre con noi nella Chiesa «fino alla fine dei tempi»[6].
    Sappiamo da chi vengono le menzogne che assalgono la fibra stessa della nostra vita nella Chiesa: da Satana, il Maligno. Ma Cristo non mente. È sempre all'opera, usando le bugie di Satana per renderci consapevoli della corruzione che è entrata nella vita della Chiesa e portandoci a rimanere Suoi fedeli “collaboratori nella verità”.[7] Quando siamo tentati di scoraggiarci, di dubitare della presenza viva di Cristo con noi nella Chiesa, ricordiamoci di essere compagni dei tanti che hanno eroicamente seguito Cristo nel passato e dei tanti che oggi stanno facendo lo stesso nella Chiesa. Ascoltiamo ancora una volta l'esortazione divinamente ispirata contenuta nella Lettera agli Ebrei: « Anche noi dunque, circondati da tale moltitudine di testimoni, avendo deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti,2 tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento. Egli, di fronte alla gioia che gli era posta dinanzi, si sottopose alla croce, disprezzando il disonore, e siede alla destra del trono di Dio." [8] Così possiamo vivere ogni giorno la realtà della nostra comunione con Cristo nel Santo Sacrificio della Messa che Egli infallibilmente offre per noi attraverso coloro che ha consacrato come Suoi fratelli nel Santo Sacerdozio.
    Non dubitiamo, non diamo posto nei nostri cuori allo scoraggiamento, ma mettiamo i nostri cuori, uniti al glorioso Cuore Immacolato di Maria e al Cuore Purissimo di San Giuseppe, senza riserve nel Cuore glorioso e trafitto di Gesù. Possano i nostri cuori essere colmi dei sentimenti espressi da Dom Guéranger a conclusione del suo lungo commento sulla ricchezza della Sacra Liturgia odierna:
     
    Che giornata è questa che abbiamo trascorso! Com'è pieno dell'amore di Gesù! Ci ha dato il suo corpo e il suo sangue perché fossero il nostro cibo; Ha istituito il sacerdozio del nuovo Testamento; Ha effuso sul mondo le istruzioni più sublimi del suo Cuore amoroso. Lo abbiamo visto lottare con i sentimenti della debolezza umana, mentre guardava il calice della Passione che gli veniva preparato; ma ha trionfato su tutto, per salvarci. Lo abbiamo visto tradito, incatenato e condotto prigioniero nella città santa, per consumare il suo sacrificio. Adoriamo e amiamo questo Gesù, che avrebbe potuto salvarci con una e la più piccola di tutte queste umiliazioni; ma il cui amore per noi non era soddisfatto se non beveva fino in fondo il calice che aveva accettato dal Padre[9].
     
    Uniti a Cristo nel Sacrificio eucaristico, riceviamo in abbondanza la grazia di abbracciare totalmente le nostre sofferenze e le sofferenze della Chiesa e del mondo per amore di Dio e del prossimo, fiduciosi nella vittoria di Cristo. “Ma ci conviene gloriarci nella croce del nostro Signore Gesù Cristo: in lui è la nostra salvezza, vita e risurrezione; dal quale siamo stati salvati e liberati” [10].
     
    Nel nome del Padre, e del Figlio, e dello Spirito Santo. Amen.
     
    Raymond Leo Cardinale BURKE
     
      [1] GV 8, 44.
    [2] “Le cinquième Psaume renferme une leçon moral destinée à réformer les idées du monde. Souvent il arrive que les hommes se scandalisent en voyant le triomphe des pécheurs et l’humiliation des justes. Ce fut en ces jours l’écueil des Apôtres, que désespérèrent de la mission de leur maitre, lorsqu’ils le virent aux mains de ses ennemis. Le Psalmiste confesse que cette tentation l’a aussi ébranlé ; mai il n’a pas tardé à reconnaître que si Dieu laisse pour un temps dominer l’iniquité, il vient au jour marqué, pour punir les méchants, et venger le juste qu’ils avaient abreuvé d’amertumes.” Prosper Guéranger, L’Année liturgique, La Passion et la Semaine Sainte, 27ème éd. (Tours: Maison Alfred Mame et Fils, 1924), pp. 352-353. Traduzione inglese: Prosper Guéranger, The Liturgical Year, Passiontide and Holy Week, tr. Laurence Shepherd (Fitzwilliam, NH: Loreto Publications, 2000), pp. 318-319.
    [3] “Christus factus est pro nobis obediens usque ad mortem, mortem autem crucis. Propter quod et Deus exaltavit illum: et dedit illi nomen, quod est super omne nomen.” “De Missa Solemni Vespertina in Cena Domini: Graduale,” Missale Romanum ex Decreto Sacrosancti Concilii Tridentini restitutum Summorum Pontificum cura recognitum, Editio iuxta typicam. [Missale Romanum]. Traduzione inglese: “The Mass of the Last Supper: Gradual,” The Daily Missal and Liturgical Manual with Vespers for Sundays and Feasts, Summorum Pontificum edition (London: Baronius Press, 2012), p. 550. Cf. Phil 2, 8-9.
    [4] “De Missa Solemni Vespertina in Cena Domini: Antiphona ad Introitum.” Missale Romanum. Traduzione inglese: The Daily Missal, p. 548. Cf. Gal 6, 14.
    [5] “Hic est enim Calix Sanguinis mei, novi et aeterni Testamenti : Mysterium fidei : qui pro vobis et pro multis effundetur in remissionem peccatorum.” “Canon Missae,” Missale Romanum. Traduzione inglese: “The Canon of the Mass,” The Daily Missal, p. 945.
    [6] Mt 28, 20.
    [7] 3 Gv, 8.
    [8] Eb 12, 1-2.
    [9] “Cette journée est assez remplie des bienfaits de notre Sauveur : il est nous a donné sa chair pour nourriture ; il a institué le sacerdoce nouveau ; son cœur s’est ouvert pour nous dans les plus tendres épanchements. Nous l’avons vu aux prises avec la faiblesse humaine, en face du calice de sa Passion, triompher de lui-même pour nous sauver. Maintenant le voilà trahi, enchaîné, conduit captif dans la ville sainte, pour y consommer son sacrifice. Adorons et aimons ce Fils de Dieu, qui pouvait, par la moindre de ces humiliations, nous sauver tous, et qui n’est encore qu’au début du grand acte de dévouement que son amour pour nous lui a fait accepter.” Guéranger, p. 454. Traduzione inglese: GuérangerEng, p. 410.
    [10] “De Missa Solemni Vespertina in Cena Domini: Antiphona ad Introitum.” Missale Romanum. English translation: The Daily Missal, p. 548. Cf. Gal 6, 14.
  20. SEM IPC
    Dominica Resurrectionis Domini Nostri Iesu Christi
    Chiesa dei Santi Michele e Gaetano
    Firenze
    9 aprile 2023
               
     
    Epistola: 1 Cor. 5, 7-8
    Evangelium: Marc. 16, 1-7
     
     
     
    Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Così sia.
     
    Il nostro agnello pasquale, Cristo, è stato immolato, alleluia. Festeggiamo dunque la Pasqua con i pani azzimi in purezza e verità, alleluia, alleluia, alleluia[1].
    Queste parole divinamente ispirate dell'antifona alla Comunione, tratte dalla Prima Lettera di San Paolo ai Corinzi, esprimono la realtà oggettiva che è all'origine dell'inesprimibile meraviglia e gioia di oggi, giorno della Risurrezione di Nostro Signore. È la realtà che l'Angelo Pasquale ha annunciato alle sante donne che si erano recate al sepolcro di Cristo per ungere il suo corpo senza vita e avevano trovato la tomba vuota:
    Non vi meravigliate; voi cercate Gesù di Nazareth, che è stato crocifisso. È risorto, non è qui; guardate il luogo dove l'hanno deposto[2].
    Dopo essere stato crudelmente torturato e giustiziato con la crocifissione, e dopo aver versato interamente il suo sangue, quando il soldato romano gli ha trafitto il costato dopo che era morto, Cristo è risorto dai morti, vincendo per sempre la morte nella nostra natura umana e conquistando per noi l'eredità della vita eterna. Dal suo trono nella gloria, alla destra di Dio Padre, Nostro Signore riversa incessantemente e senza misura la sua vita per noi. Dal suo Cuore glorioso e trafitto, Egli riversa nei nostri cuori la grazia onnipotente - santificante ed attuale - dello Spirito Santo. È così che noi, vivi in Cristo grazie all'effusione dello Spirito Santo, siamo destinati a godere della vita eterna. Alla nostra morte, le nostre anime sono destinate a riposare eternamente in Dio. I nostri corpi, una volta deposti nella tomba, sono destinati, nell'ultimo giorno, a risorgere a vita eterna nella stessa gloria del Signore risorto. Egli è infatti, secondo le parole di San Paolo, "primizia di coloro che sono morti"[3].
    Dom Prosper Guéranger commenta così le parole dell'Angelo Pasquale alle sante donne, riportate nel Vangelo di oggi:
    « Non è qui, perchè é risorto ». Un morto, che delle mani pietose avevano steso là, su quella tavola di pietra, in quella grotta, ecco che si è levato e senza neppure manomettere la pietra che ne chiudeva l’ingresso, si è slanciato in una vita che non dovrà più avere fine. Nessuno gli ha portato soccorso; nessun profeta, nessun inviato da Dio si è chinato su quel cadvere per richiamarlo in vita. È lui stesso che, per virtù propria, è risuscitato. Per lui, la morte non è stata una necessità, ma l’ha subita perchè l’ha accettata; e l’ha spezzata quando ha voluto. Oh! Gesù che potete beffarvi della morte, voi siete il Signore Dio nostro![4]
    È il Corpo glorioso e incruento di Cristo - il suo glorioso Corpo, il suo Sangue, la sua Anima e la sua Divinità -, frutto del suo cruento Sacrificio sul Calvario, che riceviamo nella Santa Comunione, sia come Pane celeste per sostenerci nel nostro pellegrinaggio terreno, sia come pegno sicuro del destino del nostro pellegrinaggio: la vita eterna. Così preghiamo davanti al Santissimo Sacramento, con le parole di San Tommaso d'Aquino: "O sacra mensa in cui ci nutriamo di Cristo e ne ricordiamo la Passione! L’anima viene inondata di grazia e ci è dato il pegno della vita futura"[5]. 
    La realtà che celebriamo oggi cambia la nostra vita per sempre. Viviamo ora alla presenza di Cristo Risorto, partecipando al dono stesso della sua vita, che è vita eterna. Riceviamo da Lui, finché restiamo fedelmente in Sua compagnia, la grazia di vivere ogni momento della vita in attesa del suo compimento nel Regno dei Cieli. La Parola viva di Nostro Signore definisce la straordinarietà della nostra vita quotidiana ordinaria: "Cingete i vostri fianchi e accendete le vostre lampade, e siate come uomini che aspettano che il loro padrone torni a casa dal banchetto di nozze, per aprirgli subito quando verrà a bussare"[6]. Così pregherò nella Secreta: "Accogli, Te ne preghiamo, o Signore, le preghiere del tuo popolo insieme all’offerta di questi doni, affinché ciò che ha avuto inizio nei misteri pasquali, con la tua grazia ci sia di rimedio per l’eternità "[7].  Dom Guéranger commenta questa Secreta:
    L'intera assemblea dei fedeli sta per partecipare al banchetto pasquale; l'Agnello divino li invita ad esso.... La santa Chiesa, nella sua Secreta, invoca su questi ospiti favoriti le grazie che procureranno loro la beata immortalità di cui stanno per ricevere il pegno[8].
    Che ogni nostro pensiero, parola e azione rifletta la realtà oggettiva della nostra vita in Cristo. Che ogni aspetto della nostra vita quotidiana sia una cooperazione con la grazia divina per la gloria di Dio, per la nostra salvezza e per la salvezza del mondo.
    Preghiamo oggi per la nostra santa Madre Chiesa che è attaccata da coloro che, specialmente al suo interno, nella ribellione, separano la loro volontà dalla volontà di Dio e cadono così in tanta confusione ed errore con i loro frutti mortali: divisione, eresia, apostasia e scisma. Preghiamo per una rinnovata conoscenza e amore della Sacra Tradizione, di Cristo che solo è la nostra salvezza e che solo, in una linea ininterrotta dai tempi degli Apostoli, ci insegna la verità divina, ci anima con l'amore divino e ci dà la grazia dell'obbedienza alla volontà di Dio e, quindi, della salvezza eterna.
    Preghiamo anche per i popoli del mondo che soffrono la violenza e la morte a causa dell'ingiustizia frutto della menzogna, della corruzione e dell'odio, soprattutto in Ucraina, ma anche in molte altre nazioni e comunità e famiglie. Preghiamo affinché la grazia che sgorga incessantemente e a dismisura dal Cuore trafitto di Nostro Signore Risorto raggiunga i loro cuori per guarirli e raggiunga i cuori di tutti per ristabilire l'ordine della giustizia con il suo frutto che è l'armonia e la pace.
     Uniti al Cuore Immacolato di Maria e sotto la protezione paterna del Cuore purissimo di San Giuseppe, mettiamo ora i nostri cuori completamente nel Cuore glorioso e trafitto di Gesù, mentre Egli rende sacramentalmente presente per noi il suo Sacrificio sul Calvario. Che i nostri cuori, purificati da ogni peccato e animati dall'amore divino nel Sacro Cuore di Gesù, siano un tutt'uno con i cuori di tutti i nostri fratelli e sorelle, specialmente di quelli più bisognosi.
    Il nostro agnello pasquale, Cristo, è stato immolato, alleluia. Festeggiamo dunque la Pasqua con i pani azzimi in purezza e verità, alleluia, alleluia, alleluia[9].
     
    Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Così sia.
     
     
    Raymond Leo Cardinale BURKE
      [1] "Pascha nostrum immolatus est Christus, alleluia: itaque epulemur in azymis sinceritatis et veritatis. Alleluia, alleluia, alleluia". "Dominica Resurrectionis: Communio", Missale Romanum ex Decreto Sacrosancti Concilii Tridentini restitutum Summorum Pontificum cura recognitum, Editio iuxta typicam. [Missale Romanum]. Traduzione italiana: “Domenica di Pasqua Resurrezione del Signore: Ant. alla Comunione", Gaspare Lefebvre, Messale Romano Quotidiano, ed. Apostolato Liturgico di Genova (Marietti Editori Ltd., 1963), p. 546. [Messale Romano Quotidiano]. Cfr. 1 Cor 5, 7-8.
    [2] Mc 16, 6.
    [3] 1 Cor 15, 20.
    [4] " « Il est ressuscité; il n'est pas ici » : un mort que des mains pieuses avaient étendu là, sur cette table de pierre, dans cette grotte; il s'est levé et tout à coup, sans même déranger la pierre qui fermait l'entrée, il s'est élancé dans une vie qui ne doit plus finir. Personne ne lui a apporté la sécurité, aucun prophète, aucun envoyé de Dieu n'a épinglé le cadavre pour le ramener à la vie. C'est lui-même qui, par sa propre vertu, est ressuscité. Pour lui la mort n'a pas été une nécessité; l'a subie, parce qu'il l'a voulu; l'a brisée, quand'il l'a voulu. O Jésus qui vous jouez de la mort, vous êtes le Seigneur notre Dieu". Prosper Guéranger, L'Année liturgique, Le Temps Pascal, Tome I, 21ème éd. (Tours: Maison Alfred Mame et Fils, 1926), p. 194. [Guéranger]. Traduzione italiana: Prosper Guéranger, L’Anno liturgico, Volume III, Il Tempo Pasquale, tr. Lea Roberti (Alba [Cuneo]: Edizioni Paoline, 1957), p. 43.
    [5] "O sacrum convivium, in quo Christus sumitur: recolitur memoria passionis eius, mens impletur gratia, et futurae gloriae nobis pignus datur". Enchiridion Indulgentiarum. Normae et Concessiones, ed. 4ª (Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1999), p. 55, n. 7. Traduzione italiana: Messale Romano Quotidiano, p. 1776.
    [6] Lc 12, 35-36.
    [7] "Suscipe, quaesumus, Domine, preces populi tui cum oblationibus hostiarum : ut paschalibus initiata mysteriis, ad aeternitatis nobis medelam, te operante, proficient". "Dominica Resurrectionis: Secreta", Missale Romanum. Traduzione inglese: "Domenica di Pasqua Resurrezione del Signore:: Secreta", Messale quotidiano, p. 546.
    [8] "Le people saint tout entier va s'asseoir au banquet pascal; l'Agneau divin convie tous les fidèles à se nourrir de sa chair; ... la sainte Église, dans le Secrête, implore pour ces heureux convives les grâces qui leur assureront l'immortalité bienheureuse dont ils vont recevoir le gage". Guéranger, p. 196. Traduzione italiana dall’autore.
     
    [9] "Pascha nostrum immolatus est Christus, alleluia: itaque epulemur in azymis sinceritatis et veritatis. Alleluia, alleluia, alleluia". "Dominica Resurrectionis: Communio", Missale Romanum. Traduzione italiana: “Domenica di Pasqua Resurrezione del Signore: Ant. alla Comunione", Messale Romano Quotidiano, p. 546. Cfr. 1 Cor 5, 7-8.
  21. SEM IPC
    Questo mio contributo è il primo di una serie di articoli attraverso cui si vuole render ragione del pensiero cattolico, il quale trova la sua fonte e il suo culmine nella Fede consegnataci dalla Chiesa Cattolica Apostolica Romana, professata nel Credo, espressa nella dottrina definitiva ed applicata nella morale definitiva. Lo scopo è quello di dimostrare come la Fede Cattolica sia una fede razionale perché il Dio che ne rivela i contenuti è in principio Logos, ossia Ragione e Ordine, Parola Sapiente.
    Nel sottotitolo ho riportato la celebre frase agostiniana: Credo ut intelligam intelligo ut credam. La traduzione più usata di questa espressione è Credo per comprendere, comprendo per credere. Mi si permetta di specificare il perché della scelta dei termini mediani “comprendere comprendo”. Agostino usa il verbo intelligere, da cui viene il nome “intelligenza”. Letteralmente intelligere, composto da inte (a propria volta da intus) e da legĕre, vuol dire “leggere dentro”. L’intelligente, dunque chi comprende pienamente, è colui che sa leggere dentro le cose, che sa andare oltre l’apparenza e questa capacità presuppone una fede: non esistono solo le realtà visibili, ma esiste qualcosa che non vediamo che supera ciò che vediamo e lo sorregge. Quando l’uomo intelligente crede, inizia a comprendere, e quando inizia a comprendere crede. Comprendere, a sua volta, viene dal latino cum-prendere, ossia prendere insieme, riuscire ad abbracciare la complessità del reale, universalizzare, ossia tendere verso l’unità superando la complessità. L’uomo intelligente è allora colui che, in base alla sua fede, comprende. Ecco allora giustificata la scelta dei termini “comprendere - comprendo” per tradurre “intelligam intelligo”.
    Veniamo ora al significato che Agostino ha voluto attribuire  a questa lapidaria espressione. Prima di essere il Santo che tutti noi conosciamo, Agostino era un pagano in preda alla concupiscenza della carne, degli occhi e della superbia della vita. Tuttavia non ha mai smesso di cercare la Verità e, come è noto, chiunque cerchi la Verità, cerca Cristo. È certo che le preghiere della madre Monica siano state il sostentamento del suo cammino di vita, come egli stesso riconosce nelle sue Confessioni, ma è anche vero che il suo desiderio di verità ha contribuito alla sua conversione. Il primo approccio alla filosofia, che inizierà a fargli prendere le distanze da una vita sregolata, avviene grazie alla lettura di Cicerone. Qui inizia a prender forma il suo desiderio della Verità, ma sotto forma di verità filosofica, influenzata dal neoplatonismo del suo tempo, che non escludeva le realtà invisibili, di cui la più importante è l’Essere: anzi, tali realtà venivano indicate come modello perfetto rispetto alle realtà materiali visibili. Vigeva, infatti, la dicotomia anima-corpo. Inebriato dal grande retore latino, Agostino inizia a cercare una dottrina che possa render ragione di ciò che ha appreso e in un primo momento crede di averla trovata nella eretica dottrina del manicheismo, la quale sosteneva l’esistenza di due realtà antitetiche: il Bene e il Male. Due divinità in guerra la cui fine sarebbe stata segnata dal trionfo del dio del bene. Agostino non essendo come i fideisti che accettavano le dottrine ricevute senza ragionarci su, senza porsi domande, capì che la tanto amata verità, quella “Bellezza Tanto Antica” cui anelava ormai da tempo, non era in quella dottrina e se ne distaccò, grazie alla Rivelazione della Santa Dottrina Cattolica, propostagli dal Vescovo di Milano Ambrogio, di cui aveva sentito parlare in ambiente romano soprattutto dall’oratore Quinto Aurelio Simmaco: questi, resosi conto delle qualità oratorie di Agostino, lo aiutò ad andare a Milano per opporlo al vescovo suo nemico in campo politico e sociale. Lo scontro tra Ambrogio e Agostino fu vinto nettamente dal vescovo e tale vittoria vinse l’Agostino pagano e fece nascere l’Agostino cristiano che poi divenne Santo.
    Da questa brevissima sintesi della sua vita comprendiamo allora che la frase che dona il titolo a questo articolo è frutto di una presa di coscienza: la fede e la ragione sono in relazione tra loro, così come Dio e l’uomo. Qui fede e ragione devono essere considerate due realtà che costituiscono l’uomo, dove la ragione, l’intelletto, con le sue categorie, serve per comprendere il dato rivelato a cui ha deciso di credere per comprenderne sempre più la sua ragionevolezza. È necessario distinguere qui la fede oggettiva da quella soggettiva. La Fede oggettiva è il dato rivelato a cui ci viene chiesto di credere. La fede soggettiva è l’atto personale con cui ognuno di noi, con volontà e intelletto, crede nella fede oggettiva. Chiarito questo possiamo affermare come Agostino, quando dice Credo per comprendere, stia facendo riferimento alla fede soggettiva, quella sua, personale, che ha dato alla Fede oggettiva, offertagli da Sant’Ambrogio e grazie alla quale ha iniziato a comprendere veramente. Dunque, per Agostino la voglia di comprendere, la fame di verità, trova ora nella fede il suo compimento, la sua ragione: cioè, quella di render ragione della Verità Cristiana, di dare risposta alle problematiche culturali, sociali, morali e politiche del suo tempo. Precisiamo qui che Agostino andò a Milano spinto dal retore pagano Simmaco che sosteneva la veridicità della religione romana contro quella cristiana. Egli, dunque, doveva render ragione della superiorità, per l’impero, della religione romana, e finì per essere convinto da Ambrogio del contrario, ossia che l’unica vera religione è quella cristiana, mentre le altre religioni non hanno motivo di esistere. Quattro anni prima, nel 380, Teodosio aveva dichiarato la religione cristiana la Vera Religione dell’Impero, e successivamente allontanò tutti coloro che si opponevano a tale verità, fra questi Quinto Aurelio Simmaco. Capiamo così che Agostino da sempre aveva avuto a cuore la verità, e una volta che gli fu rivelata l’accolse e la difese con volontà ed intelletto, usando quegli strumenti che aveva appreso dalla filosofia pagana, dai grandi retori, con la differenza sostanziale che, mentre i retori desideravano farsi ragione esclusivamente attraverso l’abile uso delle parole, in Agostino la retorica, illuminata dalla Fede, si faceva strumento per la difesa della Verità di Cristo. Così il Santo generò la celebre frase che diede i natali, se così si può dire, alla ricchissima riflessione sul rapporto fede-ragione, che contraddistingue la Vera Religione da tutte le altre false religioni, il Cristianesimo Cattolico dalle dottrine varie e peregrine. “Credo per comprendere”, in Agostino, così come in ogni vero cristiano cattolico, è la consapevolezza che senza l’adesione di fede non si può essere veramente intelligenti, non si può comprendere pienamente, si rimane in qualche modo ciechi e monchi nella comprensione. Una volta compreso ciò, si può allora intendere il comprendo per credere, e cioè che la ragione che Dio ci ha donato è fatta principalmente per credere.
    Vorrei render ragione, con delle mie considerazioni personali, di queste ultime affermazioni servendomi di ciò che gli ebrei insegnano circa l’apprendimento della Sacra Scrittura. A tal riguardo essi individuano quattro momenti: Damanah che è star fermi e zitti. Nell’apprendimento della Verità non ci deve essere precomprensione, né pregiudizio. Nessuna attività umana deve interferire, bisogna solo ascoltare. Shemà Israel! Ecco il secondo momento. Gli ebrei esprimono questo momento con una parola la cui radice è formata da tre consonanti del loro alfabeto, Kaf-Vav-Nun. Questa radice indica l’atto dello star saldi in ciò che si è ascoltato, il credere, il prestar fede. Questi due momenti possiamo, per analogia, attribuirli a due fasi della vita di Agostino: il primo è consistito nell’ascolto prestato ad Ambrogio; il secondo nel prestare fede a ciò che ha ascoltato. Il terzo momento gli ebrei lo chiamano Darash, che significa ‘mettersi in cammino, alla ricerca’. È l’intelletto che si muove alla ricerca di Dio, ma non è lasciato solo, così come avviene per lo gnostico che cerca e ricerca, ma è un intelletto illuminato dalla fede, guidato, critico. Questo intelletto è quello di un uomo che cerca Dio, che vuole entrare in relazione con Dio, poiché crede che Egli sia, esista, pensi, parli, agisca. A quest’uomo viene donata la comprensione di Dio e la conoscenza per mezzo dello Spirito Santo. In questa fase Agostino sperimenta le parole del Vangelo “continuate a cercare e troverete, continuate a bussare e vi sarà aperto. Perché a chiunque chiede lo Spirito Santo nel mio Nome il Padre mio glielo concederà”. Lo Spirito Santo è la Persona della Trinità che conduce alla Verità, a Cristo. La quarta e ultima fase gli ebrei la chiamano Asah, il mettere in pratica, che per noi è l’abbandono del peccato, la crescita spirituale in Cristo, la vita cristiana che alla fine Agostino abbracciò e che lo condusse alla santità.
    Non posso comprendere senza prestar fede a ciò che mi è stato rivelato e consegnato come oggetto degno di fede, e se non comprendo non potrò realmente credere. Pensiamoci!
    Nel prossimo articolo approfondiremo come la Fede sia il fondamento della ragione, meditando su ciò che Sant’Anselmo d’Aosta ha voluto dirci nell’espressione Credo ut intelligam.
  22. SEM IPC
    Propongo una domanda provocatoria introduttiva: non potrebbe essere proprio questo momento confuso e “oscuro” nella chiesa e nella stessa  civiltà cristiana, la grande occasione per unire  nella difesa dei valori cristiani,  spiegati quali fondanti in modo imprescindibile  la civiltà  e poi  convertire  alla fede,  gli “uomini di buona volontà”  con cui allearsi per difenderli, che siano atei devoti o saggi agnostici ? 
      Prescindendo da considerazioni  scontate su fede e ragione, mi domando  spesso  come mai , riconoscendo che è il cristianesimo ad aver  permesso lo sviluppo scientifico ed il progresso anche economico, si voglia oggi,  grazie al cosiddetto  ultimo utopistico reset  transumanista ,  cancellarlo perché  considerato  nemico di entrambi. Anzi , proprio oggi,  riconoscendo il fallimento di un modello di globalizzazione fondato su scelte innaturali,  invece di pensare di rivalutare il cristianesimo-cattolicesimo (ormai) riconoscendolo indispensabile, o almeno utile, all’uomo confuso di questo secolo , poiché gli da certezze  e speranze, lo si considera ancor più responsabile degli errori  che l’uomo ha fatto proprio in questo periodo . Sorgono spontanee alcune domande :
    -1° Ma è vero progresso  quel “progresso” che sembrerebbe voler cancellare il cristianesimo ? O chi lo vuol fare  è                    piuttosto chi se ne è impossessato e pensa di controllarlo ?
    –2° Ma le accuse al  cristianesimo  sotto attacco  sono vere accuse al  vero cristianesimo ?
    –3° Se un falso progresso stesse attaccando con false accuse il vero cristianesimo, che si dovrebbe fare ?  
    Proviamo  a riflettere .             
                 
    Oggi, proprio oggi, ci sono molte domande che un cattolico di criterio si dovrebbe  porre .   Cosa sia civiltà oggi per  esempio e la sua correlazione con il cristianesimo  . Era fino a ieri  opinione condivisa che la civiltà occidentale  si  è affermata  ( dal XI sec.) grazie al cristianesimo ed è  declinata    nel  XIX e XX  sec. negandolo   Ha accelerato  il declino  de fine XX  e inizio XXI  sec.   grazie  a un processo “imposto” nel mondo occidentale che ha influenzato il mondo intero  . Dopo la rivoluzione della riforma protestante e l’illuminismo , l’occidente si era convinto di poter  ri-civilizzare  il mondo intero ridimensionando  progressivamente il ruolo della religione (ormai solo) cattolica  , adattandolo sempre più alle “esigenze” del progresso e alle spiegazioni scientifiche . Certo ha modernizzato  ed arricchito  il mondo occidentale , ma lo ha migliorato ?  Che significa “migliorare “il mondo ? chi sa e  può farlo e come ?  Questa domanda è obbligatorio porsela .
     
    Anni fa un grande  e santo Cardinale mi concesse  una discussione  sulla  ragione o torto del pensiero laicista che ritiene  che la sopravvivenza della religione cattolica segua  lo sviluppo della scienza che a sua volta  spiega (quasi) tutto quello che prima spiegava la religione ,rendendola progressivamente  inutile  . E ciò viene ritenuto   senza  voler cercare di capire se sviluppo e  progresso  scientifico  non siano  proprio conseguenza della  cultura di fede-opere  della religione cattolica. Ma il pensiero laicista non sembra permettere  detta discussione , privando il cattolico di libertà di  pensare e affermare che  lo sviluppo della civiltà è frutto della Verità vissuta con opere. Insinuando che pertanto la religione non è solo inutile ma anche dannosa per l’uomo e per la civiltà occidentale . Nietzsche esulterebbe oggi ,vedendo avverata la sua profezia . Purtroppo . Perché  è molto probabile , se non certo,  che il progresso scientifico ed economico di cui siamo fieri ,  sia anche  segno di contraddizione , avendo si generato tanti  straordinari   vantaggi ed opportunità ,ma avendo  anche creato tante “confusioni” nella testa dell’uomo pieno di conoscenza,  ma sempre meno dotato di sapienza. Sapienza indispensabile per saper gestire la conoscenza che non può avere autonomia morale e può sfuggire di mano al poveruomo .  Questa  probabilmente è la vera risposta  alle  tre domande poste all’inizio . Peraltro anche la Genesi dice lo stesso…   
     
    Ma con il riconoscimento del  fallimento della globalizzazione occidentalizzante che succederà ora ?  La religione cattolica verrà cancellata definitivamente o verrà ricercata e rinascerà,  riconoscendosi  di  non poterne fare a meno ? Per rispondere a questa ultima domanda propongo una riflessione  sulle “forze in gioco”. Mi limito a tre attori in gioco.
    – Attori contro . I laicisti nietzschiani , che sostengono che l’uomo debba autodeterminarsi senza affidarsi  ad una entità divina ed   addirittura persino a un sedicente suo rappresentante sulla terra , insegnano che  l’uomo deve imparare ad accettare le verità scientifiche ( anche se provvisorie e temporaneamente ancora  incomplete ).  Solo con il transumanesimo  sperimentato e vissuto l’uomo non necessiterà  più una religione . Una religione peraltro origine di tutti gli errori fatti , avendo imposto il concetto di libero arbitrio ( irrazionale e soggettivo )  , che deve subito convertirsi in determinismo scientifico ,onde evitarne altri peggiori.
    -Attori neutrali.Gli “atei devoti”( genericamente parlando) e gli agnostici saggi , che alla fine ,con un certo distacco ,  sostengono  i valori culturali del cristianesimo senza quelli spirituali ( cioè l’appartenenza senza credenza ). Ma oggi cominciano a preoccuparsi dei rischi del relativismo  che  confonde bene con male e della negazione del libero arbitrio  che si vuole sostituire con determinismo scientifico. 
    -Attori confusi . I cattolici infine , negli ultimi anni soprattutto grazie alla ambiguità dottrinale di vari teologi e di molti  stessi pastori , hanno perso buona parte della  fiducia nella gerarchia e han subito  la rottura al loro interno , prima tra “tradizionalisti e progressisti” , poi all’interno  degli stessi ( cosiddetti)  “tradizionalisti “ . Con la conseguenza di  allontanarsi o cercare fuori dalla Chiesa Cattolica Apostolica Romana , soluzioni  verso altre forme religiose o persino  accettando persino l’ipotesi del “piccolo gregge”  ininfluente , piuttosto a rischio di esser  assimilabile ad una setta religiosa e pericolosa. 
    Laicisti, Indifferenti e  Cattolitiganti , sembrano esser  i nostri attori principali interessanti (ovviamente ignoro  appartenenti ad altre religioni ecc. )  che recitano  in questo palcoscenico. 
    Dobbiamo riflettere  strategicamente riferendoci al bene della cultura e civiltà cristiana prodotta dal cristianesimo , scomparso il quale  l’uomo ritornerà pagano e  homo homini  lupus  . Cattolici , atei devoti e agnostici saggi  sono una moltitudine , sono maggioranza potenziale ,  in grado di reagire e difendere i valori cristiani . E alla fine chi difende un valore si  può convertire  al principio del valore .
    Per far smettere di litigare  i cattolici , per far entrare gli atei devoti e gli agnostici saggi   oltre la soglia del “cortile dei gentili” e garantirsi una alleanza strategica  con loro , necessaria a   manifestare  la nostra verità verso  la cultura  laicista  , abbiamo bisogno di “pastori “  perché siamo,  e dobbiamo restare,  un “grande gregge” che serve , che insegna , che converte  , come ha preteso il Fondatore del gregge stesso. Anzi  proprio questo momento oscuro potrebbe essere  grande occasione per unire , e poi  convertire  alla fede,  gli “uomini di buona volontà” .   Si dovrebbe chiedere ai nostri santi pastori di esplicitare con chiarezza e coraggio   cosa dovrebbe  essere la Chiesa oggi , concretamente , se vuole essere Chiesa di Cristo e non di altri . Basterebbe  convincerli a porsi  domande semplici ma attuali .  Per esempio : < Vien prima la fede o la misericordia ?> ; < Vien prima la miseria morale o quella materiale ? >; <Il senso della vita è la difesa dell’ambiente o lo è  prima la ricerca della salvezza ?>; < Per gestire queste crisi in corso si deve cambiare gli strumenti o il cuore dell’uomo ?> . <Chi ha responsabilità per cambiarlo e con quali mezzi ??  . > , ecc.
    Ecco . Saper rispondere a queste domandine semplici semplici può aiutare a capire le prospettive che dobbiamo affrontare  per stare nella Verità  e per  riconoscere e difendere la vera libertà  della civiltà che il cristianesimo ha fondato , che , forse non è chiaro a tutti , ma è in pericolo .
          
  23. SEM IPC
    In questo breve articolo vogliamo puntare l’attenzione su un punto problematico di una parte purtroppo non minoritaria dell’esegesi neotestamentaria contemporanea: l’interpretazione della storicità della Risurrezione di Cristo e il ruolo della comunità primitiva nell’elaborazione dei racconti della tomba vuota. La Risurrezione va intesa come un fatto storico vero e proprio oppure come una pura esperienza interiore degli apostoli? Se la seconda ipotesi fosse vera, si dovrebbe creare artificiosamente nell’insieme delle testimonianze pasquali del Nuovo Testamento una cesura ingiustificabile: quella tra storia e fede. Ma questa dicotomia non rivestiva nessun interesse per la prima generazione cristiana. 
     
     
                   Il programma esegetico del protestantesimo liberale  seguiva, nei confronti del Nuovo Testamento, un precetto che non poteva essere messo in discussione: considerare ogni professione di fede nella Risurrezione di Gesù Cristo e ogni racconto delle visioni del Risorto presenti nei Vangeli e negli Atti degli Apostoli -ma anche in alcuni testi paolini- come il risultato di una lunga e intricata elaborazione letteraria e teologica. La funzione di un tale lavorìo teologico sarebbe stata quella di costruire un racconto capace di restituire in termini narrativi la testimonianza di un’esperienza che non era strettamente storica, ma interiore e mistica. Il fatto che si trattasse di una interpretazione la cui logica rimaneva tutta interna alla testimonianza stessa rendeva impossibile -e in fondo sbagliato- cercare di ricostruire gli eventi storici soggiacenti a quei testi. I racconti pasquali non dovevano essere presi alla lettera. Il loro valore storico doveva considerarsi nullo. Ciò che contava era la loro interpretazione. Nel migliore dei casi, si ipotizzava che a questa elaborazione apostolica e subapostolica si accompagnasse una sostanziale buona fede; nel peggiore, si immaginava di aver a che fare con una dannosa sofisticazione dell’originaria esperienza cristiana. In ambedue i casi, tale elaborazione avrebbe avuto il suo punto di partenza in una intuizione “spirituale”, in un fenomeno puramente interiore. La fede degli apostoli, allo sguardo demistificatorio dell’esegeta, doveva perciò risultare indipendente dai racconti degli incontri sensibili col Risorto, come anche dai racconti della tomba vuota. Occorreva separare quella fede da qualunque concezione esplicitamente e crudamente “fisica” della Risurrezione di Cristo, e questo fin negli strati più arcaici della documentazione evangelica. Il modernismo cattolico (sia nella sua forma originale, tra fine ottocento e primi del novecento, sia nella sua incarnazione “progressista” postbellica) seguì il protestantesimo su questa strada.
     
                Una fede impossibile?
                   L’impostazione era essenzialmente ideologica, e rispondeva a un presupposto storico e filosofico preciso, cioè alla postulata impossibilità di credere a una Risurrezione (intesa come rianimazione) reale di Cristo nella cornice della Weltanschauung moderna. Il significato dei racconti evangelici veniva quindi ridotto secondo la misura di una mancanza di fede che doveva essere ormai assunta come un dato inconfutabile ed irreversibile. Gli strumenti di questo programma di lungo corso -che arriva coi suoi più recenti epigoni sino a noi- si sono avvicendati e sovrapposti: lo storicismo romantico con la sua fascinazione per lo spessore poetante e trasfigurante della tradizione biblica, il sociologismo con il suo corollario di eziologie contestuali, l’esistenzialismo con la sua smania di attualizzare l’appello alla conversione -il kérygma - saltando a pie’ pari la concretezza storica dell’evento evangelico. Parlando della Risurrezione come di un «mito», Rudolf Bultmann fu in fondo onesto riguardo al suo programma teologico, e rivelò al di là di ogni ragionevole dubbio quale è l’esito a cui esso conduceva.
                   Le cause prossime e quelle remote di un simile programma intellettuale (e pastorale: questa impostazione doveva tracimare immediatamente, con un entusiasmo degno di altre imprese, nella predicazione, la quale si imbottì in men che non si dica di richiami al «Sitz im Leben», alla «comunità primitiva pre e postpasquale» e alla «comprensione non mitica della Risurrezione») devono essere cercate nella inamovibile convinzione che sia assolutamente impossibile, all’uomo entzaubert (disincantato) dell’epoca tecnologica, credere ad eventi soprannaturali. Il rifiuto pregiudiziale del miracolo è la tara di questo atteggiamento spirituale. La Risurrezione del Signore è il più clamoroso tra i miracoli, e in quanto tale doveva essere espunta nella sua letteralità, per entrare in quel limbo fumoso e anfibio che è lo spazio interpretativo. A mediare tra l’evento storico concreto, la sua risonanza esperienziale nel mondo interiore degli apostoli e l’espressione linguistico-narrativa di quell’esperienza sarebbe rimasto solo il milieu esegetico di una modernità intellettualmente avara, che legifera tirannicamente sui confini della credibilità spostandone continuamente i paletti, ma senza rendersi mai conto fino in fondo della sua soffocante autoreferenzialità. All’interno di questo spazio cangiante può regnare solo il sospetto, che non a caso è stato coltivato come una virtù cardinale. Non parliamo in questo caso di quel sospetto metodologico che è parte insostituibile della dimensione critica della ricerca esegetica. Parliamo di un sospetto che si insedia nel campo in cui normalmente dovrebbero prosperare l’amore al testo, l’obbedienza alla verità e la serietà nei confronti della rivelazione; parliamo di una diffidenza pervicace e prevenuta verso qualunque affermazione soprannaturale, che smette di essere una precauzione metodologica per farsi -sotto la maschera austera dell’onestà intellettuale- postura teoretica e atteggiamento esistenziale .
     
     
                Due tipi di testimonianza?
                   Su di un piano strettamente metodologico, questo genere di esegesi comporta l’introduzione di una rottura, di una disomogeneità nella interpretazione delle testimonianze apostoliche. Avremmo così, secondo questa impostazione, due tipologie di racconti: quelli in cui si riferiscono fatti reali, storici, e quelli in cui si riferisce -sotto una veste narrativa che sarebbe in realtà una protointerpretazione teologica- l’esperienza propriamente indicibile del Gesù vivo nello Spirito. Che uno schema simile sia -come detto- di natura ideologica lo dimostra il fatto, molto chiaro, che non sia affatto questa l’intenzione dei testi neotestamentari. Prendiamo, a titolo di esempio, il discorso di Pietro a Cornelio riportato in At 10, in particolare ai vv.39-41. Gli apostoli sono testimoni tanto delle cose compiute da Gesù nella regione dei giudei e a Gerusalemme quanto della sua Risurrezione. Non c’è soluzione di continuità tra i due generi di testimonianza; non sono riferiti l’uno a fatti esteriori -sensibili- e l’altro ad un’esperienza interiore del Cristo vivente e glorioso, che poi debba essere tradotta nei termini immaginativi di una narrazione. Sono invece le due parti di una testimonianza omogenea, che si riferisce in tutti e due i casi a eventi storici. Non abbiamo a che fare con due esperienze eterogenee, che avrebbero come oggetto l’una il Gesù della storia e l’altra il Cristo della fede. Distinzioni di questo genere rispondono molto bene alla mentalità dell’esegeta moderno, ma di sicuro non si riscontrano nella natura specifica della testimonianza degli apostoli e nell’intenzione autentica dei testi in cui essa si è depositata (cf. At 4,20).
     
    Le apparizioni non sono dunque l’esplicitazione immaginativa di una qualche esperienza interiore con cui Cristo si sarebbe rivelato come vivente. Non è questo che intendono i nostri testimoni. Una simile affermazione sarebbe una pura invenzione a posteriori, che rifletterebbe la mentalità dell’esegeta, non quella degli apostoli e dei discepoli. [...] “Risuscitato” non può avere due sensi. O significa che il corpo del Cristo non è rimasto nella tomba, ma è stato vivificato dalla potenza di Dio ed ha così potuto essere visto e toccato, allo stesso modo di prima, dai testimoni, o non significa niente.
    (Jean Danielou, La Risurrezione, 1969)
     
    Intendere la Risurrezione di Cristo come la pura “interpretazione” di una “esperienza interiore”, prescindendo dalla sua natura di fatto concreto, rende di fatto impossibile comprendere o anche solo giustificare la predicazione apostolica così come ci è trasmessa in testi come quello di At 2,29-31, in cui il discorso sul corpo, sulla «carne» di Cristo, diventa il criterio di verifica della profezia. Di questo parlavano gli apostoli. Questo volevano testimoniare al mondo. Non è la fede della comunità primitiva in quella “esperienza interiore” ad aver generato i racconti evangelici come affabulazione e mitopoiesi; piuttosto, è la testimonianza delle apparizioni sensibili del Risorto offerta dagli apostoli di fronte alla comunità a costituire il senso di quei racconti. Racconti che la Chiesa ha sempre recepito come resoconti di eventi reali. La Risurrezione di Cristo non è il prodotto della fede: è la fede ad essere la conseguenza della Risurrezione.
  24. SEM IPC
    LA “FORMA D’INSEGNAMENTO” DELLA SCUOLA ECCLESIA MATER(SEM)
     
    1. L'idea
     
    La Scuola Ecclesia Mater nasce nel 2005, all’inizio del pontificato di Benedetto XVI per seguirne il pensiero e il metodo, che possiamo ritenere racchiusi in questa affermazione: "All'inizio dell'essere cristiano non c'è una decisione etica o una grande idea, bensì l'incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva"(Benedetto XVI, Enciclica Deus caritas est, 1). Questa è la “forma d’insegnamento” a cui ci siamo affidati, in specie per comprendere e vivere la Chiesa e la Liturgia, che include “l’ermeneutica della riforma nella continuità dell’unico soggetto Chiesa” (Discorso alla Curia Romana, 22 dicembre 2005). Questa è la “linea” della nostra Scuola, che riteniamo sia espressa in modo visibile dal cardinale Raymond Leo Burke: perciò, con la sua guida, promuoviamo dal 2016 gli Esercizi Spirituali (7 ed.) e dal 2017 la Summer School (6 ed.). Con lui, si sono raccolti altri maestri coi quali studiamo e facciamo esperienza di fede, riconoscendoci in quella forma d’insegnamento a cui ci siamo affidati. Tutti, maestri e alunni, formiamo insieme la Scuola.
     
    2. La scuola nella storia della Chiesa
     
    Siamo Scuola, cioè seguiamo una forma di insegnamento, una “linea” in cui si riconosce chi ne fa parte. Gesù ha formato così i discepoli fino a diventare apostoli, con il fine di diffondere la luce della verità del Vangelo, per fugare le tenebre dal cuore degli uomini. La necessità di fare scuola è raccomandata da San Paolo ai cristiani di Roma: “Siano rese grazie a Dio, perché eravate schiavi del peccato, ma avete, poi obbedito di cuore a quella forma di insegnamento alla quale siete stati affidati” (Rm 6,17). In tal modo, si può crescere alla statura di Cristo. Per questo, nella Chiesa vi sono state varie scuole o forme di insegnamento singolari: san Giustino, istituì una scuola a Roma nel II secolo, sant’Efrem a Nisibi nel IV secolo, per non dire delle celebri scuole di Antiochia e di Alessandria sorte attorno a Clemente e Origene, in funzione apologetica (nei confronti dello Stato persecutore, dei filosofi pagani, del giudaismo, dello gnosticismo spurio), oltre che missionaria. San Benedetto pensò il monastero come una scuola per il servizio divino. La scuola francescana s’ispira a san Bonaventura e quella domenicana a san Tommaso, che la Chiesa ha proclamato doctor communis; a lui. si ispirò la “Scolastica”. Dal secolo scorso, anche il pensiero di Benedetto XVI fa scuola.
     
    3. Il metodo 
    In questo tempo di grave crisi nella Chiesa, vi sono forme di insegnamento confuse che producono allontanamento dalla sana dottrina(apostasia)e divisione(scisma); quindi bisogna saper distinguere ciò che è chiaro da ciò che è spurio. Ce lo facciamo suggerire e riassumere da una “formula”, ben nota, che troviamo nell’apostolo Paolo, maestro sicuro di dottrina e di vita (personale e comunitaria: oggi si direbbe con un’altra parola abusata e spesso avvilita strumentalmente, “pastorale”). E la “formula” è: «Esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono (Panta dokimàzete to kalòn katèchete)» (1Ts 5,21). Letteralmente: “il bello” (to kalòn). C’è anche una “bellezza” nel “metodo di giudizio cristiano”!– Il “bene” (bonum) è “bello” (pulchrum)– perché è “vero” (verum)– e costruisce l’“uno” (unum), l’unità interiore ed esteriore della persona– e dell’“ente” (ens) come tale. Sono i “trascendentali” che ci portano subito con il pensiero a san Tommaso d’Aquino (cfr A.Strumia, Introduzione-Metodo: Summer School 2020).
    Affermazioni sintetiche di metodo le troviamo in sant’Agostino: In necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas. In san Bernardo: Omnia videre, multa tolerare, pauca corrigere. Noi ci soffermeremo su san Tommaso, al quale la nostra Scuola si è affidata e che desideriamo seguire, proprio perché siamo in tempi di crisi della fede e della ragione. San Tommaso è il dottore dell’armonia, dell’unione, et et e non aut aut: è cattolico, non privilegia un aspetto della dottrina (p.es. o la contemplazione o l’azione). Essere cattolico vuol dire anche non amare le contrapposizioni, ma valorizzare le differenze in modo da far emergere le verità ancora nascoste.
    4. L’attualità di S.Tommaso
    Il metodo di Tommaso, basato su quello aristotelico, si può riassumere in 4 d: dividere, distinguere, definire, dimostrare; è utile non solo per la filosofia e la teologia, ma per ogni altra scienza e per la realtà quotidiana (oggi, è stato sostituito erroneamente dal cosiddetto discernimento). Dottore in umanità, ci insegna che bisogna insegnare, insegnare, insegnare (= introdurre nel segno) a tutti:
    alla filosofia, san Tommaso dice che è smarrita, perché non cerca la verità che è il suo oggetto;
    alla scienza, l’Aquinate ricorda che vorrebbe essere una conoscenza certa mediante le cause; invece, il suo limite è di essere circoscritta a quella parte di realtà che esamina; perciò san Tommaso suggerisce di cercare le cause che vengono prima e la finalità che viene dopo (per es. il medico dovrebbe considerare: donde viene il corpo e dove va, il suo destino);
    alla psicologia, san Tommaso dice che essa ha un nucleo di conoscenze circa la corporeità sensibile, ma non ha certezze definite. Invece, ogni verità anche se parziale, se è verità, è valida per tutti e per sempre. La moderna psicologia queste verità non le possiede; è importante tenerne conto, perché la mente umana funziona in un corpo sensibile, ma l’essere umano è molto più della materia corporea; 
    alla morale, san Tommaso dice che è una scienza che dimostra i principi che non possono essere ignorati per realizzarsi e vivere soddisfatti. Essa è la fonte che indirizza a vivere seguendo le regole della retta ragione. Noi credenti affianchiamo la fede, che è uno stile di vita sulla traccia dell’amore divino. La morale è un campo da riconquistare completamente. Infatti si è diffuso massivamente un relativismo pratico, che ha generato una mentalità indifferente a ogni limite etico: così la società si corrompe. Il rimedio è il sale del cristianesimo. A quanti hanno perso la retta ragione, san Tommaso dice: “Il ben vivere consiste nel bene operare”. Quindi, se vuoi essere contento, devi agire bene. Così avrai il centuplo quaggiù, oltre che la vita eterna; 
    alla politica, san Tommaso dice che è l’arte più perfetta che esiste, in quanto è chiamata a guidare il bene comune. Su codesto si dovrebbero concentrare i politici e non piacere ai governati, badare all’interesse personale ecc. Non si deve, d’altra parte, dimenticare, contro ogni totalitarismo, che “homo non reducitur ad communitatem politicam secundum se totum et secundum omnia sua” (Summa Theologiae I-II, q. 21, a. 4, ad 3um; cfr. Caritas in veritate, n. 53);
    alla Chiesa, san Tommaso ricorda che non basta mettersi in ascolto, ma insegnare, insegnare, insegnare, le verità soprannaturali: la fede, così si parlerà all’umanità che è in noi. La fede non mortifica la ragione, ma la presuppone e la risana da errori e imperfezioni con l’aiuto della grazia divina (v.Giovanni Paolo II, Enciclica Fides et ratio). 
    Dunque, insegnare, insegnare, insegnare.
    Perché è importante anche oggi seguire San Tommaso? Perché egli afferma: “La verità è forte in se stessa e non può essere vinta da nessuna obiezione”. E l’uomo cerca soprattutto la verità. Il linguaggio del Vangelo non è appena linguaggio dell’amore ma della verità. Evangelizzare vuol comunicare la verità e l’amore. “Il tentativo di ridare, in questa crisi dell’umanità, un senso comprensibile alla nozione di cristianesimo come religio vera deve, per così dire, puntare ugualmente sull’ortoprassi e sull’ortodossia. Al livello più profondo il suo contenuto dovrà consistere, oggi – come sempre, in ultima analisi –, nel fatto che l’amore e la ragione coincidono in quanto veri e propri pilastri fondamentali del reale: la ragione vera è l’amore e l’amore è la ragione vera. Nella loro unità essi sono il vero fondamento e il fine di tutto il reale” (J.Ratzinger, Fede, Verità, Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2003, p 192). Finalmente, il richiamo al principio di realtà. Il metodo è necessario per saper difendere la fede e poterla diffondere. In greco: apologetica. Strumenti utili per acquisire il metodo apologetico sono, per es., il Dizionario elementare di apologetica e il Dizionario elementare del pensiero pericoloso (ed.Il Timone). 

     
    5. Rimanere nella Chiesa
     
    La Scuola “rimane” in Gesù Cristo per essere uno con Lui e tra noi, e cercando l’unità con quanti nella Chiesa hanno il giudizio della fede (Gv 9,39). Bisogna rimanere nell’unità del tutto, cioè nella Chiesa cattolica. Commentando Chesterton, così diceva D.Giussani: “Dobbiamo dissentire, opporci, resistere giustamente alle forme dispotiche, in sostanza a una vita non ecclesiale nella Chiesa. Non dobbiamo però fare l’errore di collocarci fuori di essa, psicologicamente e metodologicamente. Il grande insegnamento di Cristo in croce è che ‘morendo dentro la Chiesa’ si possono cambiare le cose, non al di fuori”. Scrive il papa San Gregorio Magno: “Gli uomini santi, pur se torchiati dalle prove, sanno sopportare chi li percuote e, nello stesso tempo, tener fronte a chi li vuole trascinare nell'errore. Contro quelli alzano lo scudo della pazienza, contro questi impugnano le armi della verità. Abbinano così i due metodi di lotta ricorrendo all'arte veramente insuperabile della fortezza. All'interno raddrizzano le distorsioni della sana dottrina con l'insegnamento illuminato, all'esterno sanno sostenere virilmente ogni persecuzione. Correggono gli uni ammaestrandoli, sconfiggono gli altri sopportandoli. Con la pazienza si sentono più forti contro i nemici, con la carità sono più idonei a curare le anime ferite dal male. A quelli oppongono resistenza perché non facciano deviare anche gli altri. Seguono questi con timore e preoccupazione perché non abbandonino del tutto la via della rettitudine”(Dal Commento sul Libro di Giobbe). Dobbiamo essere un movimento di persistenza e resistenza basato sulla formazione, che rifiuta il relativismo etico, ma sa distinguere tra Chiesa e uomini di Chiesa (cfr N.Bux con V.Palmiotti, Salute o salvezza? La Chiesa al bivio, Fede &Cultura, Verona 2021, p.94). La B.V.Maria è il rimedio più efficace di tutti, all’attuale crisi della Chiesa e deve essere particolarmente invocata perché riaffermi la divinità di Cristo e la Chiesa sacramento universale di salvezza.
    Così, la Scuola Ecclesia Mater diventa un gioco di squadra, previo allenamento, per sfidare il mondo. Alle primitive comunità cristiane, circondate da costumi non certo sobri, non importava scendere a patti con la mentalità corrente. Non cedevano al complottismo ma si fidavano della Provvidenza. Ai Padri stava a cuore differenziarsi in modo netto dagli atteggiamenti propri del paganesimo (i Cristiani, secondo lo scritto A Diogneto 5, 8-9, “si trovano nella carne ma non vivono secondo la carne. Sulla terra trascorrono la vita, ma in cielo sono cittadini”). Quel mondo, così lontano dagli ideali evangelici, non è destinatario di comprensione e non va blandito, ma sfidato. I documenti “pastorali” della Chiesa odierna parlano di sfide, ma in realtà nascondono i cedimenti al mondo, né fanno un bilancio del loro esito.
     
    6. Sistema integrato
     
    La SEM vuole essere un sistema integrato: singoli e gruppi di base che studiano il Catechismo periodicamente, fanno scuola di dottrina cristiana – possibilmente si raccordano a livello regionale –. A livello nazionale ci riuniamo in febbraio a Roma e in agosto a Bassano R.— Continuiamo a riunirci in 4 Gruppi di Studio on line durante l’anno: Fede e ragione - Interpretazione del Vaticano II - Economia e Morale - Cultura e Politica – Siamo in rete col blog Il Pensiero Cattolico (=IPC), mediante il quale diamo espressione e visibilità (anche all’estero) alla SEM, che finora è rimasta in posizione riservata. Da qualche tempo si sta sviluppando un ampio progetto per dare alla nostra Scuola maggiore forza, stabilità e soprattutto capacità di formazione e di attrazione, in particolare nei confronti dei giovani. Sempre comunque siamo memori delle parole del misterioso vegliardo, incontrato dal filosofo Giustino e che, come racconta egli stesso nel Dialogo con l’Ebreo Trifone, furono lo stimolo alla sua conversione: “Tu prega anzitutto che le porte della luce ti siano aperte, perché nessuno può vedere e comprendere, se Dio e il Suo Cristo non gli concedono di capire” (Dial. 7,3).
     
    7. Conclusione
     
    Cari amici, 
    fino a 50 anni fa il maggior pericolo al mondo era visto nel regime autoritario, nelle dittature. Ciò perché assoggettano l’intelligenza a principi e sistemi gestiti da una autorità che impone tutto con il timore al fine di distruggere la libertà. 
    Avremmo mai immaginato di poter arrivare ad una epoca, come la presente, dove si arriva non solo a negare libertà e verità, ma voler anche escludere il libero arbitrio, facendolo considerare l’origine di tutti i mali e di tutti i problemi che oggi l’intera umanità soffre? Accusandolo di esser soggettivo, egoistico ed irrazionale? E pertanto origine dei problemi di diseguaglianza, sfruttamento, degrado ambientale, esclusione, ecc. 
    Avremmo mai immaginato di arrivare ad una fase della storia in cui venisse preparata ed annunciata una nuova Rivelazione (transumanista) e persino una nuova Incarnazione? (il metaverso). 
    Ecco, noi siamo qui per discuterne.


     
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