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Padre Vladimiro Caroli: LE OPERAZIONI DELL’INTELLETTO E L’ATTUALITÀ DI SAN TOMMASO


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Sintesi

In questo articolo vedremo le ragioni per le quali la conoscenza, così com’è concepita da San Tommaso e da Aristotele, presuppone un rispetto di tutti gli esseri come titolari di una natura e di prerogative indipendenti dall’intelletto dell’uomo. L’intelletto dei pensatori moderni e contemporanei, invece, è giunto a teorizzare che non debba essere il nostro intelletto ad adeguarsi alle cose, ma il contrario. Si comprende già, dunque, che San Tommaso e Aristotele riconoscono all’intelletto la capacità di aprirsi alle cose e di non chiudersi in se stesso. Ciò è fondamentale, per giungere alla verità in un dialogo non fittizio con il mondo reale e gli altri uomini, con i loro pensieri o teorie. Inoltre, è proprio questo modo di concepire l’intelletto umano, che ha permesso a San Tommaso di concepire le teorie scientifiche come mutevoli, in base alle nuove osservazioni sperimentali che avvengono nel corso dei secoli. Tanto che, secoli prima rispetto agli studi galileiani, San Tommaso scrisse, a proposito delle «ipotesi» legate alla teoria tolemaica, che era in pieno vigore al suo tempo, che esse avrebbero potuto essere superate, qualora gli uomini avessero scoperto, mediante l’osservazione, un altro modo di spiegare i fenomeni che si osservano in cielo. L’attualità di San Tommaso, dunque, è soprattutto epistemologica, cioè basata sul suo modo di concepire l’origine e gli elementi primi, per così dire, della conoscenza e il rapporto che essa ha con la realtà.

1)    Premessa

Scrivendo sull’attualità di San Tommaso, il Fiorentino la fa consistere principalmente nella sua epistemologia e metodologia[i]. Infatti, soprattutto nel caso dell’epistemologia, un’impostazione non corretta avrà conseguenze anche nella metodologia. Inoltre, l’epistemologia può contribuire a isolare il pensiero in se stesso, portando a una contrapposizione insuperabile tra teorie e scuole filosofiche diverse. Ed è ciò che è accaduto tra i moderni e tra i contemporanei, tra i quali le teorie filosofiche contrapposte coesistono in modo sincronico; a differenza di quanto accade nelle scienze naturali[ii], nelle quali, in genere, la teoria più attuale porta ad abbandonare o, almeno a ridimensionare, le teorie precedenti sul medesimo argomento.

Le teorie filosofiche tutte chiuse nel proprio guscio ideologico, senza nessun aggancio ai problemi reali, giungono poi a suscitare nelle persone, impegnate in problemi concreti,  un senso di astrusità; cosa questa che non è utile, d’altra parte, nemmeno alle scienze naturali. E ciò, in alcuni autori moderni diventa evidente, in quanto è esplicitamente detto nelle loro stesse opere. Per Berkeley, per es., «gli scienziati si divertono inutilmente quando cercano una qualsiasi causa efficiente naturale che non sia una mente o uno spirito»[iii]. Parole, nelle quali, si vedono chiaramente le conseguenze di un’epistemologia che vede l’intelletto chiuso in se stesso e la realtà esterna diventa nient’altro che il prodotto della mente.

Tale chiusura sembra consistere, dunque, soprattutto a partire da Cartesio e fino a Kant e ai nostri contemporanei, in un rifiuto di confrontarsi con la realtà delle cose esterne alla mente. Meglio detto, si nega l’esistenza di una comunicazione dell’intelletto con la realtà esterna, già all’origine dell’atto del conoscere. Per questo è un problema epistemologico, cioè riguardante le primissime operazioni dell’intelletto e, prima fra tutte, la sua capacità di attingere in modo immediato il dato reale.

Poiché, invece, la metodologia riguarda le operazioni successive, per questo va notato che, nella modernità ciò che presenta dei problemi non è tanto la funzione discorsiva e metodologica dell’intelletto, ma soprattutto la prima operazione dell’intelletto, che in essi è, molto frequentemente soppressa o quanto meno gravemente compromessa. Eppure stiamo parlando della capacità dell’intelletto di cogliere il ciò che è della cosa, e quindi la sua natura e le sue leggi; la capacità stessa dell’intelligere, da cui, dopo tutto, l’intelletto prende il nome e da cui ha inizio ogni altra sua attività conoscitiva.

In effetti, affinché si dia la conoscenza, si devono attuare tre condizioni:

1)     un soggetto con facoltà atte a conoscere;

2)     oggetti esistenti e ben definiti fuori dalla mente, cioè titolari di un proprio atto d’essere;

3)     e, infine, l’atto originario e immediato del conoscere, affinché il soggetto conoscente entri attualmente in relazione con l’oggetto conosciuto.

2)    I soggetti come titolari dell’atto d’essere

Il secondo e il terzo punto sono estremamente deficitari nel modo di pensare dei moderni, quando non del tutto assenti.

Ebbene, quanto alla seconda delle tre cose elencate, bisogna dire che è necessario che l’intelletto umano non diventi esso il creatore, per così dire, assoluto della realtà, quasi che non esista nulla al di fuori della mente. Abbiamo, infatti, detto, quanto sia importante che l’uomo non rimanga chiuso nel proprio intelletto e nelle proprie teorie filosofiche e scientifiche.

Perciò, l’intelletto necessita delle cose in quanto esistenti autonomamente e all’esterno della mente, e possano essere, così, il metro comune a tutti gli uomini, per rendere concreta, oltretutto, anche la possibilità del dialogo tra loro e non la chiusura reciproca nella propria ideologia.

Tra i moderni, tuttavia, alcuni negano, anche molto radicalmente (si è già detto di Berkeley) che esistano oggetti esterni alla mente. Altri – tra i quali Kant è stato, forse, il più influente – stabiliscono invece, in modi diversi, che è controproducente, per la nostra conoscenza «regolarsi sugli oggetti»[iv].

Ciò che va notato, in quest’ultima espressione, così significativa della svolta dei moderni, è che in quel brano capitale della sua produzione filosofica[v], Kant intende occuparsi del mondo del pensiero (le capacità e i limiti dell’intelletto), ma egli ne parla come se ciò fosse l’ambito di cui è competente la «metafisica»[vi], che invece, per Aristotele o San Tommaso, non riguarda affatto il mondo del pensiero. Ciò significa che Kant – come accade per molti altri moderni –, con metafisica intende qualcosa di diverso.

Per Aristotele, la metafisica  è «una scienza che studia ciò che è in quanto ciò che è»[vii], cioè l’ente. L’oggetto della metafisica non è affatto il pensiero, ma ogni cosa che sia titolare dell’atto di essere, ogni ente, ogni cosa che esiste. Se una cosa non esiste, dunque, per Aristotele non è un’oggetto di cui si occupa la metafisica.

E, inoltre, essa studia gli esseri (o enti) non sotto qualsiasi punto di vista, ma prima di ogni loro proprietà, essa li studia proprio in quanto esistono, in quanto enti, sotto lo specifico punto di vista della loro natura di esistenti, prima ancora di studiarne qualsiasi altra loro proprietà o modo di essere posteriore a questo primissimo dato. Le cose sono, prima di tutto, titolari di un’esistenza autonoma e indipendente dal pensiero. Questo dato è talmente originario, che l’intelletto, non potrebbe concepire nulla di una cosa e nemmeno ragionare su di essa, se prima di tutto non apprendesse, di ogni singola cosa, questa primissima proprietà e natura: che è un ente[viii].

Studiare l’ente in quanto ente, dunque, significa, voler conoscere quelle proprietà che per natura appartengono ad ogni ente o esistente, non in quanto ente fisico o pensato o vivente ecc., che sono tutti modi di essere di enti; ma significa voler capire quelle proprietà che appartengono all’ente «per sé stesso»[ix], cioè «per la sua stessa natura»[x], cioè la natura di ente o esistente.

Ed è in ciò, cioè riguardo all’oggetto stesso e, quindi all’essenza della metafisica, che Kant si differenzia completamente. Metafisica, in Kant, significa tutt’altra cosa, cioè, come si evince dal brano citato, essa sabra piuttosto una scienza che si occupa del pensiero e delle leggi del pensiero.

In effetti, per Kant la metafisica è sganciata dall’esistente, e si occupa piuttosto della nostra mente, più specificamente dei «fondamenti primi [ersten Gründe] della nostra conoscenza»[xi]. Questa nozione di metafisica, Kant l’aveva desunta e insegnata basandosi su un opera di metafisica del Baumgarten, che a sua volta la desumeva dal Wolff, per il quale, com’è noto, la filosofia è la scienza del pensabile.

Anche soltanto seguendo questi tre pensatori moderni, dunque, si nota che l’oggetto esterno non è più richiesto tra le tre condizioni della conoscenza sopra elencate e che la Metafisica stessa diventò, per questi ed altri autori, un discorso razionale riguardante l’ente e non una scienza di tutto ciò che esercita autonomamente e attualmente l’atto di essere.

Sicché, quando ci si accosta a un autore moderno, uno finisce sempre per chiedersi se, per quell’autore, esistono le cose oggetto di conoscenza di cui egli parla e anche in che modo, per lui, esse esistano. Ciascuno di questi autori ha risposte proprie a tal proposito, ma li accomuna il fatto che, nel loro modo di pensare, se si fa attenzione, le cose potrebbero non essere titolari di diritto di una propria esistenza, ma di un’esistenza dipendente dall’intelletto umano.

E tuttavia, in questo modo di pensare, all’inizio non si è voluto esaltare le capacità dell’intelletto, ma anzi limitarle. Infatti, ciò che ha ulteriormente contribuito in questo processo, è che proprio l’intelletto è stato privato della sua prima prerogativa.

La prima delle operazioni dell’intelletto umano, infatti, è quella di una capacità di attingere immediatamente il ciò che è della cosa, allo stesso modo in cui, per es., l’occhio percepisce immediatamente il colorato. Ed è questa la terza condizione elencata sopra, affinché si dia la conoscenza: che all’origine ci sia un atto conoscitivo che entra in contatto immediato con l’essenza della cosa esistente al di fuori della mente.

3)    La prima operazione dell’intelletto in rapporto alle altre due

C’è una differenza tra ciò che avviene originariamente e secondariamente nelle operazioni dell’intelletto; tra quando, cioè, incontro e conosco per la prima volta una cosa e quando la rivedo e la riconosco oppure quando, mediante le cose già conosciute, sviluppo ragionamenti con cui giungo a nuove conclusioni e conoscenze.

Ciò che riguarda la prima fase della conoscenza costituisce l’epistemologia insegnata da un autore (prima e seconda operazione dell’intelletto), ciò che invece riguarda i ragionamenti (discorsi, sillogismi, nuove conclusioni ecc.) riguarda la sua metodologia, ciò che accade secondariamente (terza operazione dell’intelletto).

In realtà, posti i princìpi epistemologici di un autore, il metodo né costituisce la conseguenza inevitabile in tutti gli autori. La terza operazione dell’intelletto, infatti, lavora coerentemente con le premesse, ragionando a partire da esse e, traccia così la via utilizzata o insegnata da un dato autore. Posti dei princìpi, siano essi veri e reali oppure irreali e falsi, la ragione è uno strumento che lavora nello stesso modo con i dati offertigli dall’intelletto all’inizio, lei fa il suo e svolge semplicemente il tema fino alle ultime conclusioni.

Nella sua prima operazione, quando originariamente conosce una cosa, l’intelletto umano ha bisogno innanzitutto dei sensi esterni. E successivamente avrà bisogno di alcune facoltà sensitive interne, come l’immaginazione. Infatti, nello stato della vita presente, noi, anche quando ragioniamo su cose già conosciute, ci facciamo delle raffigurazioni sensibili. Per es., i famosi luoghi di Cicerone, sono un espediente raffigurativo che sorge da questa nostra necessità, in quanto lui, per concatenare i discorsi senza dimenticare nulla, si raffigurava dei luoghi a lui familiari, come le stanze della sua casa, per mantenere l’ordine dei concetti e ragionamenti che esprimeva durante un’orazione tenuta davanti a un pubblico.

Con ciò, benché siano necessari i sensi esterni quando primariamente conosciamo qualcosa, per acquisirne «gli accidenti esterni»[xii], tuttavia, scrive San Tommaso, «soltanto l’intelletto attinge l’interno e l’essenza della cosa»[xiii].

Quando io vedo Socrate la prima volta, ne ricavo sì i dati sensibili che si fissano e si conservano in un’immagine, detta tecnicamente fantasma; ma è l’intelletto che, da questi dati sensibili ricava e imprime, per così dire, in se stesso l’essenza della cosa.

Con la seconda operazione, poi, l’intelletto, avendo, per così dire, ricevuto l’essenza della cosa, come l’occhio riceve il colorato, enuncia un giudizio attribuendo a quel dato soggetto quella data essenza che egli ha riscontrato osservando la cosa.

Di Socrate, per es., la prima volta che lo incontro, i sensi colgono solo il colore, l’odore ecc.; mentre l’intelletto dai dati sensibili, che vengono incamerati nell’immaginazione, ricava riguardo al soggetto Socrate, molto di più: prima di tutto che è un ente, un animale, un animale razionale e così via. Nella seconda operazione l’intelletto si pronuncia su quanto ha rilevato ed emette, si dice, un’enunciazione o giudizio. Cioè attribuisce a Socrate ciò che gli spetta da quanto l’intelletto ha rilevato esserci in esso. Da questa operazione provengono le frasi pronunciate dalle nostre corde vocali, quelle con la copula è: Socrate è (cioè: esercita l’atto di essere); Socrate è un’uomo ecc.

Ciò che accade nel ragionamento, invece, cioè nella terza operazione dell’intelletto, non riguarda più questo contatto immediato dei sensi e poi dell’intelletto, ma, scrive san Tommaso, una volta che ne ha ricavato l’essenza e ha stabilito che essa appartiene a un determinato soggetto e ad altri soggetti come quello, l’intelletto «a partire dalle essenze delle cose, svolge operazioni diverse attraverso il ragionamento e la ricerca»[xiv]. E quando svolge questa sua terza operazione, l’intelletto è meglio conosciuto con un altro nome, cioè quello di ragione.

4)    Cosa è accaduto nell’intelletto dei moderni

Nei moderni, tuttavia, viene a mancare il momento originario della conoscenza, quello per il quale l’intelletto si apre sul mondo delle cose attualmente esistenti. Anzi, i moderni, non solo iniziano le loro ricerche filosofiche, cercando di capire come funziona la ragione pura, cioè vuota di ogni dato esterno e indipendente dalla loro mente, ma essa è privata della prima operazione dell’intelletto, che permette il primo rapporto conoscitivo tra il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto. E nei moderni si giunge persino a negare fiducia, già con Cartesio, a quelle che abbiamo visto essere, nello stato della vita presente, delle finestre dell’intelletto: i sensi.

Emblematico, a questo riguardo l’incipit di una celebre pagina della filosofia moderna, quello della terza meditazione di Cartesio, che si apre con la seguente risoluzione: «Ora chiuderò gli occhi, turerò le orecchie, escluderò tutti i sensi ed eliminerò dal mio pensiero anche tutte le immagini delle cose corporee»[xv].

A partire da questa risoluta decisione, si assiste ad un gran dispendio di energie mentali da parte dei più riconosciuti pensatori degli ultimi secoli a ricostruire le strutture e gli schemi di una ragione che prescinde da ogni contenuto che le provenga dal mondo esterno degli enti. Ed è così che, da qualche secolo in qua, si molti pensatori fanno ricerche e analisi sul pensiero vuoto o puro.

Il punto di svolta davvero copernicana, com’egli stesso la chiama, viene raggiunto con Kant, il quale, partito con l’intento di indagare i limiti dell’intelletto, finisce per isolarlo in una sovranità assoluta rispetto agli oggetti conosciuti, i quali si ritrovano privi di qualsiasi esistenza autonoma e qualora ne avessero, l’intelletto non avrebbe nemmeno l’obbligo di regolarsi in base a questa loro autonomia, cioè adeguandosi al fatto che essi sono titolari di un loro proprio atto d’essere. Scrive, infatti, in un’altra pagina capitale del pensiero moderno: «Finora si è creduto che ogni nostra conoscenza debba regolarsi sugli oggetti; ma tutti i tentativi, condotti a partire da questo presupposto, di stabilire, tramite concetti, qualcosa a priori intorno agli oggetti, onde allargare in tal modo la nostra conoscenza, sono andati a vuoto. È venuto il momento di tentare una buona volta, anche nel campo della metafisica, il cammino inverso, muovendo dall’ipotesi che siano gli oggetti a doversi regolare sulla nostra conoscenza»[xvi].

Persino lo spazio è una nostra forma a priori e non ci dice nulla sulla reale estensione dei corpi, la loro impenetrabilità ecc. che pure sono prerogative della loro natura, tenendo conto delle quali l’uomo opera quotidianamente nel mondo e riesce a influire in molti modi su di esso.

Kant inizia la sua speculazione distaccandosi dagli autori che lo avevano preceduto, sia dagli empiristi che dai razionalisti. Tuttavia ciò che accomuna tutta la modernità è il rifiuto o il sospetto (per usare un termine cartesiano) che il mondo esistente indipendentemente dalla nostra mente ci inganni.

La novità dell’epistemologia di Aristotele e San Tommaso, invece, sta nel porre proprio nella capacità dell’intelletto di conoscere le cose esistenti al di fuori e indipendentemente da sé stesso il principio di ogni sapere e agire umano sulla terra.

 

 

5)    Attualità o meno di un pensiero (deve servire a qualcosa)

È fondamentale, per comprendere l’epistemologia e la metodologia di un autore, capire come utilizza le varie operazioni dell’intelletto, in quanto è in base ad esse che il suo pensiero è valido e, quindi, attuale, oppure no.

In che modo una epistemologia e una metodologia che misconosce l’esistenza delle cose esterne e indipendenti dalla mente, può aiutare l’uomo a conoscere il mondo in modo da poterlo anche governare e ricavarne i beni necessari alla sua sussistenza, ancor prima che alla sua conoscenza.

Se le cose non avessero una natura per se stesse sarebbe impossibile non solo l’agire quotidiano in vista di un certo scopo, ma sarebbe anche impossibile lo sviluppo tecnico e scientifico e quello filosofico. Anche il dialogo tra gli uomini, tra i popoli e tra le diverse scuole di pensiero sarebbe impossibile, in quanto la ragione di una certa scuola, tutta isolata e indipendente dalle cose reali e indipendenti da tale ragione, non troverebbe nessun punto di verifica esterno alle varie scuole, capace di costituire un metro di paragone delle verità che si sono costruite all’interno di una singola scuola di pensiero.

Quanto alla vita quotidiana, l’esempio è presto fatto. Infatti, quale contadino pianterebbe un chicco di frumento, invece di un sasso, se non fosse certo che nel chicco di frumento c’è una legge intrinseca alla sua natura, una legge che non dipende dall’intelletto che l’ha riconosciuta ed essa non dipende nemmeno dalle mani che piantano quel seme. Si tratta di una legge intrinseca al chicco di frumento ma che invece nel sasso non c’è, perché il sasso ha in se leggi diverse da quelle della materia organica.

Allo stesso modo, come potrebbero le scienze sperimentali progredire, se gli uomini non fossero certi che nel mondo ci sono delle leggi ad esso intrinseche che lo reggono sia nei singoli enti che in esso esistono che nelle loro correlazioni. Perché la storia dell’astronomia avrebbe dovuto veder contrapposti in fasi a volte contemporanee e a volte successive posizioni tanto diverse, come l’eliocentrismo e il geocentrismo, se non in base alla consapevolezza che queste teorie avevano qualcosa da dire non relativamente a ciò che c’era nella mente dei loro inventori, ma cercavano di parlare su come le cose stavano realmente all’esterno della loro mente.

Ed è questa l’attualità del modo di pensare di San Tommaso, cioè della sua epistemologia e della sua metodologia. L’intelletto, per lui, non è irrigidito e isolato in un mondo interiore, e ogni conclusione o teoria può essere modificata in base a nuove osservazioni e nuovi dati provenienti dal mondo esterno alla mente. Tanto che in San Tommaso troviamo persino gli strumenti con i quali e possibile superare anche gli stessi contenuti da lui insegnati, qualora nel frattempo la ricerca fosse venuta in possessi di nuove esperienze sul mondo esterno.

Infatti, a differenza di quanto avviene per le verità rivelate, per le quali il suo insegnamento va affrontato a parte, per le verità e le conclusioni scientifiche, invece, egli insegna come esse possano nel tempo modificarsi o essere completamente superate.

Ciò emerge molto chiaramente in un suo testo riguardante la teoria tolemaica che, al tempo di San Tommaso, era pur sempre la teoria predominante. Ebbene, a proposito delle ipotesi (così le chiama) che si facevano a riguardo dei fenomeni celesti, qualche secolo prima delle appassionate ricerche di Galileo che misero in discussione proprio quelle ipotesi, San Tommaso scrive:

«Anche se, fatte queste ipotesi, si salvino i fenomeni, tuttavia non si può dire che esse siano vere, poiché, forse, i fenomeni celesti si potrebbero [ugualmente] salvare in qualche altro modo, non ancora noto agli uomini»[xvii].

 

 

[i] Cfr. Fernando Fiorentino, Attualità di San Tommaso, Napoli, EDI, 2017, p. 6).

[ii] Cfr. ib., p. 7, dove si cita Th. KUHN, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, tr. it. a cura di A. Carugo, Torino, Einaudi, 1978, p. 30.

[iii] George Berkeley, Trattato sui principi della conoscenza umana, tr. it. Mario Manlio

Rossi, Bari, Laterza, 1984, p. 98. Il Rossi, contrariamente ad altre traduzioni, traduce con scienziati l’originale filosofi. Infatti, «si chiamavano filosofi anche gli scienziati, in quanto la scienza era considerala una philosophia naturalis» (Giorgio Berkeley, Il Trattato sui princìpi della conoscenza umana, a cura di Adelchi Baratono, Milano, Mondadori, 1935, p. 116, n. 2).

[iv] Immanuel Kant, Critica della ragion pura, B xvi; tr. it. a cura di Pietro Chiodi, Torino, UTET, 1967, p. 44.

[v] Cfr. Ib.

[vi] Cfr. Ib. dove la metafisica viene posta in correlazione con il problema gnoseologico di queste pagine per ben due volte in poche righe (pp. 44 s.).

[vii] Arist., Metaph., IV, 1; 1003a, 21; tr. it. mia.

[viii] «Ciò che prima di tutto entra nella concezione dell’intelletto, quale cosa più di tutte nota e in cui risolve tutti i concetti è l’ente – Illud quod primo intellectus concipit quasi notissimum, et in quod conceptiones omnes resolvit, est ens» (Thom., De Ver., q. 1, a. 1). In effetti, ciò che sappiamo prima di una cosa e ciò che alla fine di tutti i ragionamenti rimane un punto fermo, è il fatto che ogni cosa è qualcosa. Nessun’altra nozione e Nessun ragionamento sarebbe possibile, se non iniziando con questo dato e finendo con questo dato. Il vuoto, per l’intelletto, non è concepibile, tanto che, per parlarne, abbiamo bisogno di immaginarcelo come un estensione buia o qualche altra vaga figura.

[ix] Arist., Metaph., IV, 1; 1003a, 22.

[x] Come ben interpreta la traduzione del Rossi (Bari, Laterza, 1982, p. 85), che però traduce sempre τὸ ὂν con l’essere, che è un concetto astratto, mentre τὸ ὂν si riferisce a ogni concreto soggetto dell’essere in quanto tale, a ciò che esercita attualmente l’atto d’essere visto sotto l’aspetto di ciò che esercita tale atto.

[xi] Untersuchung über die…, AA. II, p. 283 (trad. it., Bari, Laterza, 1982, p. 227).

[xii] Thom., De Ver., I, 12.

[xiii] Ib.

[xiv] Ib.

[xv] Cartesio, Meditazioni Metafisiche, a cura di Antonella Lignani ed Eros Lunani, Roma, Armando, 2008, p. 73.

[xvi] Immanuel Kant, Critica della ragion pura, B xvi; tr. it. a cura di Pietro Chiodi, Torino, UTET, 1967, p. 44.

[xvii] «Licet enim, talibus suppositionibus factis, apparentia salvarentur, non tamen oportet dicere has suppositiones esse veras; quia forte secundum aliquem alium modum, nondum ab hominibus comprehensum, apparentia circa stellas salvantur» (In Arist. de cael., lib. 2 l. 17, n. 2; ed. Marietti, Torino, 1952, n. 451, p. 226).

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