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SEM IPC

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Blog Entries di SEM IPC

  1. SEM IPC
    Riprendiamo una pungente ma quanto mai verace riflessione di Eusebio Episcopo, tratta da "Lo Spiffero", il quale mette in fila date, circostanze e nomi di chi oggi versa lacrime di coccodrillo.
     
    Nel 1998 alla conferenza che tenne al Regio era assente tutta la nomenclatura della Chiesa locale, quella che oggi è al potere. In seminario i suoi saggi erano semiclandestini. Lo stringato messaggio dell'arcivescovo Repole. 
     
    Benedetto XVI se ne è andato l’ultimo giorno dell’anno così come ha sempre vissuto, con il suo inconfondibile stile, fatto di umiltà, dolcezza e innata eleganza. Avremo modo di parlare a lungo di lui e del suo magistero che ne fanno un moderno Padre della Chiesa. Il suo pensiero può essere considerato l’ultimo grande tentativo di fare incontrare tradizione e modernità. Joseph Ratzinger è stato il teologo, il prefetto della fede e il papa che si è posto in piedi di fronte alla modernità e ai suoi miti. Oggi la Chiesa è tornata ad essere, come scrisse Jacques Maritain nel 1966, «in ginocchio di fronte al mondo». Da quella prostrazione – frutto non del Concilio dei Padri ma del concilio dei media – la trassero Giovanni Paolo II e Ratzinger non per sfidare il mondo ma per mostrargli semplicemente Gesù Cristo. E per capire quanto Ratzinger fosse avversato bisogna leggere le rabbiose reazioni seguite alla pubblicazione della dichiarazione Dominus Jesus o al motu proprio Summorum Pontificum o il continuo tentativo dei vescovi tedeschi di infangarlo. Perché i suoi veri nemici erano tutti interni alla Chiesa, numerosissimi e adesso al comando. Pensiamo alla mafia di S. Gallo che per anni tramò alle sue spalle fino a farlo dimettere – Vatileaks rispetto agli scandali odierni non è niente – o ai teologi più in vista (molti di loro sono vescovi), uno dei quali, Peter Hünermann, arrivò a fondare un istituto teologico per contrastare il suo pensiero. Oggi i più ipocriti lo piangono, i più sinceri dicono che era un personaggio “complesso e contradditorio” e nei prossimi giorni ne sentiremo di tutti i colori. Ma perché Benedetto era tanto osteggiato? Per capirlo basta rileggere, ma è solo un esempio fra i tanti, il magistrale discorso di Ratisbona, centrato sulla de-ellenizzazione del cristianesimo o la proposizione dei “principi non negoziabili” che i vescovi boicottarono in tutti i modi, così come avvenne per la liberalizzazione del rito antico che il suo successore ha abrogato.
    Nell’avversione a Ratzinger/Benedetto XVI, la Torino progressista fu in prima fila. E poiché lo Spiffero ha la pretesa di dire quello che gli altri non dicono, ricordiamo a chi adesso ne tesse le lodi solo alcuni episodi, ma se ne potrebbe raccogliere una antologia.
    Nel 1998 il cardinale Ratzinger venne a Torino, invitato dall’arcivescovo Giovanni Saldarini. Visitò e parlò ai seminaristi e la sera tenne una conferenza al teatro Regio ove, platealmente e fragorosamente, era assente tutta la notevole porzione della Chiesa locale progressista, quella che oggi è al potere. I seminaristi del tempo presero a leggere i suoi libri, ma clandestinamente in quanto il rettore – che per la verità ne capiva poco – era contrario. Addirittura, il testo di una conferenza sulla liturgia tenuta da Ratzinger presso l’abbazia di Fontgombault– che oggi è nell’Opera Omnia – fu tradotta e poi stampata a spese di un privato e letta e diffusa quasi di nascosto. Da ricordare che, all’epoca, padre Eugenio Costa S.J. affermava che Ratzinger era l’esponente di un «pensiero nazista» e un vescovo da lui nominato, ora emerito liturgista “grillino”, non risparmiava critiche a Summorum Pontificum scagliando la sua bolla di nomina in latino addosso ai fedeli che gli chiedevano di fare ciò che Benedetto ordinava di fare. Enzo Bianchi, che però oggi – come sembrerebbe – si è addolcito, non lesinava critiche su tutti fronti. Alla proposta di invitare Ratzinger a parlare alla facoltà teologica, l’arcivescovo Severino Poletto si oppose preferendogli il cardinal Walter Kasper. Quando nel 2010 Benedetto XVI venne in visita a Torino, l’ufficio liturgico si oppose al canone romano in latino per la Messa in piazza S. Carlo, per fortuna invano. Uno dei più autorevoli esponenti del “cerchio magico” di S. Lorenzo disse che con l’elezione di Francesco la Chiesa «si era liberata di un peso». Per capire il mainstream basta entrare nel santuario di S. Giuseppe di via Santa Teresa retto dai Padri Camilliani dove troverà, sulla sua sinistra, una nicchia in cui attorno al Volto della Sindone, sono esposte le icone del cattolicesimo progressista: Lutero, Giovanni XXIII, Bonhoeffer, Che Guevara, Kennedy, Martin Luther King, il cardinale Martini, i martiri del razzismo e nessuna vittima del comunismo salvo, un po’ nascosto, Florenskij. In simile pantheon Benedetto XVI non troverà mai posto e questo, per chi non si è arreso alla «dittatura del relativismo», non è l’ultima delle sue glorie. Stringatissimo e di circostanza, il messaggio dell’arcivescovo Roberto Repole in occasione della morte di Benedetto XVI e forse è meglio così.
    Nessuno più lo ricorda, ma Benedetto XVI nel 2008 fu oggetto di una delle pagine più vergognose dell’accademia italiana quando, dopo averlo invitato, gli fu impedito di parlare alla Sapienza, avendo l’università accettato il diktat di un gruppo di professori tra cui – sembra incredibile – il premio Nobel per la fisica 2021 Giorgio Parisi e con il plauso del paladino di ogni libertà, Eugenio Scalfari, il quale scrisse che, secondo amici gesuiti, Joseph Ratzinger era «un modesto teologo». Invitiamo tutti a rileggere l’intervento che il papa avrebbe dovuto pronunciare e che è un inno alla libertà di ricerca.
    Ma come vedeva sé stesso Joseph Ratzinger? Qual era la funzione e l’immagine del vero teologo e, più in generale, del cristiano oggi? Lo scrive egli stesso all’inizio del primo capitolo del suo capolavoro, Introduzione al Cristianesimo, pubblicato la prima volta nel 1969 riferendosi al noto apologo del clown e del villaggio in fiamme narrato da Kierkegaard dove si racconta di un circo viaggiante in Danimarca, colpito da un incendio. Il direttore mandò subito il clown, già abbigliato per la recita, a chiedere aiuto al villaggio vicino, oltretutto perché c’era il pericolo che il fuoco, propagandosi attraverso i campi da poco mietuti e quindi secchi, s’appiccasse al villaggio. Il clown corse affannato al villaggio, supplicando gli abitanti ad accorrere al circo per dare una mano a spegnere l’incendio. Ma essi presero le grida del pagliaccio unicamente per un astutissimo trucco del mestiere, tendente ad attirare il maggior numero possibile di persone alla rappresentazione; per cui lo applaudivano, ridendo sino alle lacrime. Il povero clownaveva voglia di piangere e tentava inutilmente di scongiurare gli uomini ad andare, spiegando loro che non si trattava affatto d’una finzione, d’un trucco, bensì di una amara realtà, giacché il circo stava bruciando per davvero. Il suo pianto non faceva altro che intensificare le risate: tutti trovarono che egli recitasse la sua parte in maniera stupenda… La commedia continuò così finché il fuoco s’appiccò realmente al villaggio e ogni aiuto giunse troppo tardi: villaggio e circo finirono entrambi distrutti dalle fiamme. Benedetto XVI può apparire come quel clown, paludato in quegli abiti tramandati dal passato, e nella Chiesa di oggi di lui è rimasto poco. Ma la storia è lunga e soprattutto la Provvidenza è grande e il suo pensiero porterà i frutti domani.
     
  2. SEM IPC
    In punta di piedi e sommessamente, come colui che osa sussurrare qualche banalità mentre assiste alla discussione tra due giganti, mi intrometto nel dialogo tra Don Alberto Strumia ed il Prof. Gotti Tedeschi, ringraziandoli sin d’ora per le riflessioni che hanno condiviso. Don Alberto, in prima battuta, indica in modo chiaro la “radice del problema”, evitando che certe letture sociologiche, psicologiche o ecclesiologiche falliscano il bersaglio e non arrivino alla radice della questione. Primo auspicio: che tutti possano aver chiaro chi sia il nemico, come i medici che intendano combattere la malattia e non il sintomo. Trovo, personalmente, decisivo il richiamo nella citazione del Card. Biffi: “Gesù Cristo, per trionfare giustamente e ragionevolmente dell’Anticristo, ha bisogno della nostra collaborazione”. Secondo auspicio: che tutti sentano l’esigenza di collaborare alla battaglia. Il Prof. Gotti Tedeschi, raccogliendo la splendida indicazione, sospinge la riflessione sulla strategia della battaglia, ovvero sul come si possa offrire collaborazione e partecipare al trionfo di Cristo. Senza scordare che tutto ciò accade in tempi abbastanza apocalittici, per non dire escatologici e, secondo Don Alberto (che in parte risponde alla questione posta dal professore sulla direzione dell’operato della Chiesa), e accade quando "può dirsi ormai conclusa l’epoca dei movimenti con la morte dei loro fondatori”. In nulla volendo correggere, mi premono alcune considerazioni che contribuiscano, forse, ad integrare il quadro tracciato. Uno dei protagonisti della -usando la definizione di Don Alberto- “epoca dei movimenti”, ha affermato: “Non solo non ho mai inteso "fondare" niente, ma ritengo che il genio del movimento che ho visto nascere sia di avere sentito l'urgenza di proclamare la necessità di tornare agli aspetti elementari del cristianesimo, vale a dire la passione del fatto cristiano come tale nei suoi elementi originali, e basta”. Un altro fondatore, come sintesi di una immediata e chiara comprensione, intuisce “l’obbligo" di cercare la santità: “Avevo ventisei anni, grazia di Dio e buon umore. Null’altro. E dovevo fare l’opera”. Nella storia, come non ricordare il Crocifisso che si rivolge al giovane assisano: “Su di lui, veramente poverello e contrito di cuore, Dio posò il suo sguardo con grande accondiscendenza e bontà; non soltanto lo sollevò, mendico, dalla polvere della vita mondana, ma lo rese campione, guida e araldo della perfezione  evangelica e lo scelse come luce per i credenti…” (Leggenda maior). E prima di lui c’è chi, lasciando disgustato le dissolutezze romane, trascorse il suo tempo vivendo da eremita in una grotta in isolamento spirituale, generando una delle aggregazioni di cristiani più decisive per il nostro continente e per il mondo. Prima o dopo l’ultimo concilio, non credo esista, se non nel commento storico, “un’epoca dei movimenti” (…e cosa sia un movimento, quali formazioni rientrino della definizione, quali mantengano l’ortodossia, quali l’intuizione iniziale, quali l’afflato profetico… a posteri l’arduo giudizio). Esiste invece, dalla risurrezione di Cristo in poi, il tempo dei santi. Santi, ovvero pienamente uomini, che hanno involontariamente in comune, pur in epoche diverse, una strategia: un luogo preciso, una necessità precisa, alcuni volti precisi e una relazione al destino in Cristo. Nella storia del mondo e della Chiesa, il passo è segnato da Cristo attraverso i santi e i beati. Quando il buon Dio ne dona uno, in modo tanto imperscrutabile quanto imprevedibile, appare una luce per i credenti, che allora si aggregano, spiritualmente o fisicamente, intorno a quella grazia. Persino le questioni ecclesiologiche su movimenti, associazioni, opere… appaiono necessarie ma successive, per tempo e gerarchia. E poi fatico ad immaginare Benedetto nella grotta a chiedersi se il gregge debba essere piccolo o grande, o Francesco a La Verna ad arrovellarsi sul numero di possibili followers...  Questo anche perché, citando Von Balthasar, “Quale sia l’estensione della fecondità di un santo rimane, almeno sulla terra, un segreto di Dio“. Occorre, quindi, capire cosa ci aiuti nel cammino verso la santità (come riconoscimento attuale della presenza di Cristo), ovvero verso la nostra piena umanità. Ma non vorrei nascondermi dietro al generico richiamo alla santità. Oggi manca, nella stragrande maggioranza dell’umanità che incontro, la coscienza delle categorie fondamentali del pensiero cattolico. Parlo volutamente di coscienza: che lo si riconosca lucidamente oppure no, la natura della radice fondamentale di ogni uomo è sempre in ogni caso e in ogni epoca ordinata al medesimo logos, quindi sempre ordinata alla creazione e, pertanto, coerente con il pensiero cattolico. Ma la coscienza della natura del proprio cuore è, più meno gravemente, offuscata. E cosa forma rettamente la nostra coscienza? Dobbiamo ristudiare Caritas in Veritate, come propone il professore? O forse, ormai giunto il momento “ratzingeriano”, dobbiamo rifugiarci in piccole comunità come suggerisce Don Alberto? Mi permetto di citare Don Nicola Bux: prima dello studio (studium come zelo, passione, ricerca, lavoro) c’è un antefatto, l’amicizia. Si studia, innanzitutto, per una amicizia (la “teologia come amicizia”, nella riflessione di Don Nicola). Per una amicizia, anzitutto con Cristo, che poi è “il” soggetto che studiamo nei rivoli delle varie materie della vita. La piccola o grande comunità in cui cercar rifugio e studiare Caritas in veritate e non solo, è l’amicizia in e con Cristo (con le armi che Lui ci ha consegnato, a partire dai sacramenti). Collaborare con il Suo trionfo è, in primo luogo, gustare la Sua compagnia e la Sua amicizia, con la certezza che questa vince il “mondo, la carne e il maligno”. Lo si chieda al Card. Van Thuan, lo si chieda a padre Kolbe: il nemico non vince neppure quando sembra lo faccia. Sopporto l’idea di un nemico a cui dar battaglia (e del grande sacrificio che una battaglia richiede) solo nella certezza dell’amico, esattamente come uno scienziato inizia una lunga e faticosa opera di ricerca solamente nella convinzione, seppure remota, che esista l’oggetto del proprio cercare. Combatto perché Lui c’è e perché Lui è proprio Lui, quel bambino che tiene nel palmo della mano l’intero universo.  
  3. SEM IPC
    In questo nuovo intervento, don Alberto richiama l'importanza del metodo nel vivere la fede. Lo si trova descritto nella  "Forma d'insegnamento della Scuola Ecclesia Mater"
     
    Nel precedente contributo del Prof. Gotti Tedeschi che, innanzitutto ringrazio per l’apprezzamento che ha voluto esprimere per il mio intervento dal titolo  “Contro chi è la battaglia?”, apparso su Il Pensiero Cattolico, ho riconosciuto l’invito esplicito a precisare qualcosa in più in vista di una risposta alla domanda: «Che fare?».
     
    Ma mi fermerò a questa mia sola “aggiunta” al mio intervento precedente, per non  correre il rischio di avviare un ping pong tra noi, (magari poco opportuno per i lettori abituali del blog).
     
    1. Mi sembra di poter leggere tra le righe il suo legittimo timore «che ci rifugiamo nella passività di azione, che con la scusa di abbandonarsi  nelle mani di Dio, di fatto trasforma la speranza in  “pigrizia spirituale”» (cito le sue parole). Non è questo che intendo, ovviamente. Penso piuttosto sia necessario un modo di procedere non velleitario, ma proporzionato alle nostre effettive possibilità, consegnando poi il tutto nelle mani di Dio che provvederà come solo Lui sa fare, e agli spazi che si possono effettivamente creare senza essere schiacciati dai poteri di varia natura, dei quali pure, in questi tempi – abbastanza apocalittici, per non dire escatologici – il demonio sa abilmente servirsi.
     
    2. Quanto al rifiuto in blocco della prospettiva, prevista dall’allora Card. Ratzinger – delle piccole comunità vive che fanno sopravvivere la Chiesa in attesa di una sua risurrezione dopo la passione e la croce, come quella del suo Signore – rifiuto espresso con l’esplicita dichiarazione: «Non credo al rifugio nel  “piccolo gregge”  (una “setta “ di fatto)», non penso che Ratzinger intendesse una sua realizzazione così negativa.
     
    3. Penso che si possa tentare una risposta alla domanda «che fare?», seguendo una strada simile, pur tenendo conto della  differenza della situazione (che non è poi così grande…) a quanto vidi già realizzato, nel 1980 quando andai insieme ad alcuni amici, per una settimana in Ungheria, a Budapest, a trovare persone e gruppi solidamente cristiani, su indicazione di chi, pionieristicamente, era in contatto diretto regolare con loro da anni.
     
    4. Loro avevano adottato questa strategia:
     
    a) nelle parrocchie erano permessi dal regime, allora, solo gruppi per formare dei piccoli cori per il canto (liturgico e non solo). Per cui i cori erano numerosi. I parroci erano più o meno pubblicamente ossequienti al potere. Mentre lasciavano fare i giovani preti (cappellani: allora là ce n’erano…) i quali clandestinamente, formavano i giovani (all’epoca incontrai degli universitari davvero in gamba) ad una cultura alternativa a quella ufficiale, ad incominciare dalla dottrina cattolica e dalla rilettura intelligente e cristiana della storia della nazione.
     
    Noi non siamo ancora ad un livello così estremo (ma potremmo arrivarci anche presto!), ma per esempio già il condizionamento del “pensiero unico” c’è ed è sottile.
     
    Come facevano a non ridurre i loro gruppi in «sette» chiuse in se stesse? Ci pensavano i principalmente predetti cappellani, insieme ad alcuni laici, i quali, di nascosto, tenevano i contatti tra loro, per confrontarsi e avere un “metodo” formativo comune, evitando ogni forma di chiusura e settarismo. Qualcuno ogni tanto veniva scoperto dal regime e pagava di persona! Ma questo modo di procedere, sostanzialmente, funzionava.
     
    b) In Polonia un modo di procedere simile riuscì a formare Solidarnosc che, al momento opportuno, emerse pubblicamente come soggetto identitario della nazione intera.
     
    c) Per la formazione dei seminaristi (più o meno clandestini) non potevano certo mettere in piedi dei “mega istituti”, ma facevano riferimento ai pochi Vescovi fidati per formare e ordinare i nuovi preti (sappiamo che anche Wojtyla seguì questo tipo di formazione iniziale). Partendo dal “piccolo”, quasi invisibile, riuscirono ad ottenere, infine, anche il “grande”, perché Dio lo volle e loro ebbero fede.
     
    5. Mi sembra di vedere che quello che manca, normalmente, da noi è questa attenzione ad un’unità nel “metodo”, una “visione comune” della Chiesa che vada al di là delle lamentele contro il Papa e o il Concilio Vaticano II.
     
    Ma se questa unità nel “metodo” non c’è non possiamo pretenderla e allora dovremo accontentarci almeno di farci compagnia, di qualcuno che proponga contenuti sensati, e non immaginare di creare, per esempio, un movimento con un’unità di impostazione all’origine. Ho l’impressione che l’epoca dei movimenti si sia ormai conclusa, con la morte dei loro fondatori.
     
    E adesso, sembra essere giunto proprio il momento “ratzingeriano” delle piccole comunità, le cui guide si raccordano tra loro per garantire una certa unità di “metodo” come facevano i cappellani ungheresi. Occorre imparare a vedersi e sintonizzarsi meglio, nel rispetto delle rispettive storie e situazioni locali, evitando di andare avanti isolatamente.
     
    Diversamente si rischia il ripetersi dell’esperienza fallimentare dei discepoli di Gesù  che non riuscirono a scacciare il demonio («“Ho detto ai tuoi discepoli di scacciarlo, ma non ci sono riusciti” […] "«Perché noi non abbiamo potuto scacciarlo?". Ed egli disse loro: "Questa specie di demoni non si può scacciare in alcun modo, se non con la preghiera”», Mc 9,18.28-29). Ci riusciranno dopo, con una fede che li sosterrà fino nelle prove più estreme. Ma non saranno tanto loro a riuscirci, quanto il potere di Cristo che volle servirsi di loro.
     
    Per quanto mi riguarda, ho avuto, già ormai cinque anni fa, la richiesta di aiuto da un piccolo gruppo di persone da diverse città di fare con loro un’esposizione “dottrinale” ed “esistenziale” (una volta si sarebbe detto “spirituale") del Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, perché si rendevano conto di non conoscere seriamente il cristianesimo, pur essendo fedeli praticanti. Il materiale si trova tutto sul mio sito albertostrumia.it e sul mio canale YouTube . Il lavoro, svolto on line dai tempi del covid, si è dimostrato utile, non solo per evitare di spostarsi continuamente da un posto all’altro, ,ma anche per consentire a chi lavora oltre oceano, di esserci. Quelli che possono e vogliono possono anche ritrovarsi di persona.
     
    Anche la Messa domenicale, per coloro che stanno nella stessa città è divenuta possibile (in novus ordo, si può attuare anche una sorta di “riforma della riforma”, celebrando riservatamente, in una piccola chiesa o cappella, per garantire una modalità liturgicamente dignitosa).
     
    Può essere ed è sicuramente poco, ma è già qualcosa e, soprattutto, c’è già da subito, e si cerca di farlo crescere con il dovuto «Timor di Dio» (richiamato nell’articolo che mi ha preceduto), che è anche da intendere come il “timore di rovinare” con qualche atto maldestro quanto di bello il Signore ha già fatto, con un rispetto dell’«autorità morale» che sa anche far capire, quando occorre, che «bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5,29).
     
    Se questa è una strada percorribile, certamente anche una via più pubblica e ambiziosa si può tentare, ed è bene che chi ne è in grado, senza venire “tarpato” lo faccia. Sarà la storia a valutare gli esiti dei due modi di procedere, quello più accorto e quello più ambizioso, entrambi guidati dal realismo della fede: non siamo noi da soli a sconfiggere il demonio, ma è chi lo ha già vinto perché è Signore!
     
  4. SEM IPC
    Nel suo splendido articolo su IPC  ( “Contro chi è la battaglia ?” ), don Alberto Strumia  ci indica l’avversario contro cui dobbiamo combattere  e ci invita a tenerne conto. Molto intelligentemente sintetizza l’ operato  del nostro avversario oggi, riferendosi a suor Lucia di Fatima che spiegò che Satana  sta costruendo una Anti-Creazione .  
    Esatto, perfetto. Satana sta riscrivendo la Genesi: non più il Creatore  li creò uomo e donna, non più disse loro andate e moltiplicatevi, non più li invitò a sottomettere la terra e ogni essere vivente. La nuova genesi blasfema dice esattamente il contrario: Genderismo, neomaltusianesimo, ambientalismo e  animalismo.  Lo capiamo anche  leggendo un paio di notizie oggi  sulla decisione del Presidente del Veneto di attuare  anche lui una  rivoluzione dei diritti civili finanziando una clinica che cambia il sesso  ( scelta di civiltà)  o  leggendo quanto succede nello stesso ambito, nella chiesa tedesca.   
    Vorrei tentare di integrare il pensiero di don Alberto, quando ricorda l’espressione di don Giussani sul fatto che “si deve tener conto della totalità dei fattori (in gioco)", specificando che    si deve tener conto   anche della totalità degli “attori in gioco”, dei loro obiettivi, dei loro mezzi, ecc. . Cioè noi cattolici di criterio dobbiamo “pensare strategicamente“ e strategicamente agire. Questo, secondo me, intendeva don Giussani con questa considerazione. Don Strumia lo specifica bene quando parla infatti dell’avversario  con cui dobbiamo  combattere. Ecco, riflettiamo un momento su questo avversario: Il diavolo. Tutta la storia dell’umanità, non solo la storia sacra, ne ha subito l’influenza. Oggi sembra agire con maggior malizia offrendo alla umanità la proposta di migliorare in tutto scientificizzandosi, e pertanto modificandone obiettivi  e mezzi, rivoluzionando pertanto la Genesi stessa e le sue indicazioni. Questa è la grande tentazione di questo secolo, Ma noi dovremmo ricordarci che il Signore ci ha dato tutti i mezzi per vincere sempre in ogni tempo e condizione  ogni tentazione. Proprio il  grande cardinale Caffarra (con altri tre Cardinali ) ce lo ha ricordato con i DUBIA riferiti ad Amoris Laetitia che sembrerebbe proporre qualcosa di diverso, di molto diverso.  Ma il Signore non ci ha proprio chiamato alla santità, ad esser perfetti come il Padre Nostro  è perfetto ?  Ed a esserlo anche  oggi e  nel nostro  stato. Proprio oggi e proprio nel nostro stato, non “nonostante” le tentazioni di oggi e le difficoltà del nostro stato. Conveniamo o no che la crisi di oggi è crisi di santità ? Benedetto XVI conclude Caritas in Veritate spiegando che queste crisi non si risolvono cambiando gli strumenti ,ma il cuore degli uomini. E nella parte da lui scritta di  Lumen Fidei spiega che chi ha responsabilità di cambiare il cuore degli uomini è la Chiesa, con tre strumenti: preghiera, magistero e sacramenti. I sacerdoti cattolici ed i laici cattolici  dovrebbero riflettere bene su questi due punti. Ma per cominciare è necessario tornare alle raccomandazioni di don Strumia: riconoscere  l’avversario   e  aborrire il peccato, che non è certo conseguenza  della  la miseria materiale  (“l’inequità“, nella  ripartizione delle risorse )   a generarlo, bensì la miseria morale genera la miseria materiale (come si sente la  mancanza dell’insegnamento del Tomismo nei seminari).
    Che fare ? certo il Signore non vuole che contiamo troppo sulle nostre capacità e abbiam troppa fiducia nello sforzo umano, ma neppure ( io credo  e chiedo conferma a don Strumia ) vuole  che ci rifugiamo nella passività di azione, che con la scusa di abbandonarsi  nelle mani di Dio, di fatto trasforma la speranza in  “pigrizia spirituale“ …Se ricordo bene San Tommaso scrisse nella Summa che la Grazia non sostituisce la  Natura e Dio ci ha messo in mano gli strumenti che servono  a non tralasciare di fare ciò che si può, aspettando l’aiuto di Dio. Perché, se ho ben capito, ciò equivarrebbe a  “tentare Dio “ e pertanto anche la Grazia non agirà .
    Ma ho una riflessione finale che è una domanda per don Strumia. Fino a ieri noi cattolici ci misuravano con i Misteri della fede. Oggi  abbiamo un ”mistero”  in più da affrontare, riuscire a capire dove la Chiesa di oggi vuole portare la fede cattolica e perché.  Un piccolo nuovo  sotto-mistero è anche  capire come  il Timor di Dio  ( che non è terror di Dio…) sia stato trasformato in Timor della autorità morale. Un tempo ci insegnavano a sentirci “figli di Dio”  ed agire come tali. Oggi sembrerebbe ci invitino a considerarci cancro della natura ed a vergognarci di non esser giardinieri o ortolani. Se il mondo cattolico oggi non ha pace non può seminare pace e fede con gioia. Non solo non credo al rifugio nel  “piccolo gregge”  (una “setta “ di fatto) o al passaggio a religioni più ortodosse (che è esattamente quello che il nostro avversario vuole!), credo invece che dobbiamo ristudiare Caritas in Veritate (e Lumen Fidei) di Benedetto XVI. Ci ha spiegato tutto quello che dobbiamo fare. Questo sarà il tema di volta che verrà discusso durante i prossimi appuntamenti della Scuola Ecclesia Mater. Benedetto XVI aveva già spiegato contro chi stiamo combattendo e come combattere oggi.
  5. SEM IPC
    Oggi è frequente, tra coloro – e non sono molti, pur non essendo neppure pochissimi – che si rendono conto della gravità situazione sia ecclesiale-ecclesiastica  (sbandamento dottrinale e morale, contrapposizioni tra i cosiddetti “progressisti” e i cosiddetti “tradizionalisti”, divisioni tra i laici e tra gli ecclesiastici, scandali di ogni genere, posizioni eretiche/ereticheggianti, scismatiche/scismaticizzanti, e forme varie di apostasia vera e propria, ecc.), che socio-politica… è frequente e urgente cercare di intervenire per correre ai ripari. Per farlo si vedono all’opera diversi modi di procedere che, alla prova dei fatti – pur potendo essere in sé, almeno in certi casi, anche parzialmente buoni, e animati da ottime intenzioni – risultano insufficienti, ultimamente inadeguati, non abbastanza “realistici”:
     
    – o perché non tengono conto della “totalità dei fattori” in gioco (per usare un espressione che era cara a don Giussani);
     
    – o perché sono “velleitari”, per l’illusione di poter realizzare in un solo colpo progetti grandiosi con forze insufficienti, in quanto solo troppo umane. Il rischio, in questo caso, è quello di un involontario “delirio di onnipotenza”, che finisce per essere il rovescio della medaglia di quello degli attuali “padroni del mondo”.  Sarebbe sempre meglio procedere gradualmente nella realizzazione di ciò che si è progettato!
     
    1. Di certo è inadeguato il limitarsi a cercare di “tamponare le falle”, come sul piano socio-politico tentano di fare i governi, pure quelli “più saggi”, e non conniventi con le ideologie del mondo. Non bastano, anche se sono necessari, gli interventi “dall’esterno” della coscienza dell’essere umano (le leggi, le strutture, i provvedimenti giudiziari, ecc.).
     
    2. Peggio ancora sono i tentativi di entrare mediaticamente (tv, social, articoli, spot pubblicitari, ecc.) nelle coscienze, manipolandole, per convincerle della bontà delle ideologie che dominano il mondo (“pensiero unico”) solo per interessi di potere ed economico-finanziari, di alcuni su tutti gli altri; e non per il bene comune. Si finisce in guerra e nell’autodistruzione, come vediamo accadere proprio in questi ultimi anni.
     
    3. Tutto questo modo di procedere è proprio di un “orizzontalismo” troppo mondano e “umano” per essere risolutivo.
    Domanda: la battaglia finale si gioca solo a livello umano, o c’è qualcosa d’altro in ballo?
     
    4. Internamente alla Chiesa si può rischiare di riprodurre, anche involontariamente, lo stesso “modello” di giudizio e di comportamento che vediamo al di fuori di essa.
     
    – i più convinti “tradizionalisti” tendono a vedere tutto il male a partire dal Concilio Vaticano II e tutto il rimedio nel riportare l’orologio e il calendario a prima del Concilio. Cosa per altro praticamente irrealizzabile e non corrispondente alla realtà.
     
    – i più convinti “progressisti” vorrebbero il totale adeguamento dell’insegnamento della Chiesa alle ideologie del mondo (ambientalismo/naturalismo fino al panteismo, pauperismo/migrantismo incontrollato, sovvertimento di tutte le discipline morali, ecc.).
     
    – Altri tentano la via intermedia tra le due posizioni: salviamo la Tradizione, senza rifiutare in blocco il buono, che riconosciamo nel Concilio, alla luce della “continuità” (in linea con Benedetto XVI). Una strada che si presenta come la più ragionevole, purché non si faccia conto solo delle nostre forze umane, ma si tenga conto che la battaglia non è solo tra uomini e dottrine umane. Non siamo al livello di chi, come già al tempo di san Paolo, si schierava dicendo: «“Io sono di Paolo”, “Io invece sono di Apollo”, “E io di Cefa”, “E io di Cristo!”» (1Cor 1,12). E oggi, potremmo dire: “Io sono di Francesco”, o “Io di Pio XII”, “Io di nessuno di loro” e “Io passo con gli Ortodossi”, ecc.
     
    5. Contro chi è la battaglia? È solo un’alternativa tra quella che un tempo si era definita come “la scelta religiosa” (oggi si parla di “ritorno nelle catacombe”, di “opzione Benedetto”, ecc.) e il “combattimento pubblico ad oltranza”, per ricostruire una “cristianità in grande”, imbarcandosi in grandi progetti di costruzioni che per ora rimangono a lungo solo sulla carta?
    Abbiamo a che fare con un avversario di natura umana, o di un’altra natura superiore?
     
    6. Mi hanno molto colpito, già da diversi anni, i “giudizi” sul nostro tempo espressi in diverse occasioni, da alcuni grandi uomini di fede e pastori, che considero come “maestri di vita cristiana”, e che ho avuto la grazia di avere vicini, fino a che erano con noi su questa terra, e ora ci vedono e penso ci proteggano dal Cielo.
     
    6.1. Uno di loro è stato il card. Carlo Caffarra.
     
    – In un’intervista rilasciata a Tempi  ebbe a dire: «Una legge che impedirà di dire che i maschi sono maschi e le femmine femmine è la fine della civiltà, della adaequatio rei et intellectus (corrispondenza tra realtà e intelletto), della Verità. Dopo questo, basta, potremo dire tutto: tutto sarà vero e falso insieme, perché se io posso dire che mi sento maschio, dunque sono maschio, vale tutto» (Tempi, 14-07-2020).
     
    È l’istantanea del relativismo odierno, della situazione attuale. Ma questa è ancora solo la presa d’atto degli “effetti” dell’azione di un nemico (come disse Gesù a proposito della zizzania: «Un nemico ha fatto questo», Mt 13,28). E chi è questo nemico?
     
    – In un’altra intervista (del 2017) riferendosi alla lettera con la quale gli rispose suor Lucia di Fatima, Caffarra andò direttamente dall’“effetto” alla “causa”.
     
    E non si fermò al livello delle “cause prossime”, come fanno oggi anche i migliori psicologi, sociologi, politologi, non essendo in grado di spingersi più in profondità, perché abituati a ragionare e vivere “come se Dio non esistesse”, e non esistesse neppure il suo primo oppositore (!). Ma andò fino alla radice del problema.
     
    Disse: «Qualche anno fa ho cominciato a pensare, dopo quasi trent’anni: “Le parole di Suor Lucia si stanno adempiendo”. […] Satana sta costruendo un’anti-creazione. […] Satana sta tentando di minacciare e distruggere i due pilastri [la “vita” e la “famiglia”], in modo da poter forgiare un’altra creazione. Come se stesse provocando il Signore, dicendo a Lui: “Farò un’altra creazione, e l’uomo e la donna diranno: qui ci piace molto di più”» (intervista al sito aleteia.org in occasione del quarto incontro del Roma life Forum il 19 maggio 2017).
     
    La battaglia, secondo Caffarra, è dunque, prima di tutto, contro Satana che è, per natura un angelo e quindi è superiore a noi, più potente di noi. Le nostre sole forze umane e i nostri progetti, per quanto belli e grandiosi, non sono sufficienti per vincerlo. Non possiamo cadere neppure noi nella tentazione di cedere a “deliri di onnipotenza”, come fanno i “padroni del mondo”, pur partendo da posizioni ad essi opposte. Ci vuole l’“umiltà del realismo” che ci fa ricorrere “più esplicitamente a Cristo” nelle valutazioni e nelle decisioni (e non solo quando siamo in chiesa), perché Lui è l’unico definitivo vincitore del demonio, perché è più potente, essendo Dio.
     
    6.2. Questo non è un motivo di sconforto e di senso di impotenza. Al contrario è motivo di certezza di vittoria. A questo proposito mi è venuta in mente, da tempo, l’insistenza con la quale un altro grande maestro di vita, il card. Giacomo Biffi, ricordava regolarmente ai suoi fedeli e ascoltatori che comunque vadano le cose, Cristo ha già vinto!
     
    «Il credente sa che Cristo ha già vinto; ma sa anche che la piena manifestazione di questa vittoria sarà un dono escatologico. Questo non lo scoraggia né lo disarma: per essere se stesso e accogliere totalmente nella verità la salvezza di Dio, egli instancabilmente si adopera a dar vita alla nuova società, alla nuova storia, alla nuova cultura» (Per una cultura cristiana. Da una lettera del 1985).
    E oggi dobbiamo aggiungere: in proporzione a quanto è realisticamente possibile nella condizione storica nella quale ci si trova. Non serve combattere contro i mulini a vento!
     
    In un altro testo ebbe a dire: «Solov’ev era anche sicuro che “Tuttavia, dopo una lotta breve e accanita, il partito del male sarà vinto e la minoranza dei veri credenti trionferà completamente” (cfr. Mt 24, 31: “Manderà i suoi angeli… raduneranno tutti i suoi eletti dai quattro venti, da un estremo all’altro dei cieli”). Ma, aggiunge: “La certezza del trionfo definitivo per la minoranza dei credenti non deve condurci a un’attitudine passiva. Questo trionfo non può essere un atto puro e semplice, un atto assoluto dell’onnipotenza di Cristo perché, se così fosse, tutta la storia del cristianesimo sarebbe superflua. È evidente che Gesù Cristo, per trionfare giustamente e ragionevolmente dell’Anticristo, ha bisogno della nostra collaborazione…”» (“L’ammonimento profetico di Vladimir S.~Solov’ev”, esercizi predicati in Vaticano a Benedetto XVI e alla Curia romana, nel 2007).
     
    E qual è la nostra parte, oggi?
    Si deve saper  valutare che ci sono momenti, nella storia, nei quali la parte principale tocca a Dio, direttamente, perché noi, ormai ci rendiamo conto di essere divenuti «servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17,10) e ora “il grosso” tocca direttamente al Signore.
     
    Penso che anche per noi sarebbe ingenuo e irrealistico non tenere conto di colui contro il quale si combatte la battaglia decisiva e di quali sono i principali soggetti e le forze a noi superiori che sono in campo. Dopo di che ciascuno potrà collocarsi con una vocazione più contemplativa o più attiva, a seconda della sua storia e della sua sensibilità, ma mai con un atteggiamento che dimentichi, nella concretezza, la centralità di Cristo, di Dio Padre Creatore, del Suo Santo Spirito e della “potenza attiva” insita nel pregarlo. Non siamo noi, con le sole nostre forze, a salvare il mondo e la Chiesa («Senza di Me non potete fare nulla», Gv 15,5). La compagnia che cerchiamo di farci, anche nelle occasioni di riunione serva per ricordarcelo sempre e ci sostenga nella fede che illumina e santifica la ragione.
     
     
  6. SEM IPC
    "La Chiesa dopo Benedetto XVI fra realtà ed utopia" è stato il tema dell’interessante incontro organizzato il 3 marzo 2023 dall’ Università Popolare Molfettese . La serata ha visto un folto pubblico assieparsi nella pur ampia sala “Don Tonino Bello” della parrocchia S. Pio X a Molfetta in provincia di Bari, ha visto protagonisti don Nicola Bux e  Aldo Maria Valli, già vaticanista RAI, moderati da Nicola Barile. Non si è trattato di un simposio sul pensiero di papa Benedetto, quanto di una riflessione, a partire dal contributo del suo pensiero, sul bivio in cui si trova la Chiesa attuale, come ricordato dal moderatore: da una parte il realismo, quello metafisico di S. Tommaso d’Aquino, dall’altra la deformazione dell’idea di utopia coniata da S. Tommaso Moro, per giustificare l’imposizione di idee e concetti del mondo contemporaneo. 
    Sia don Nicola, sia il dott. Valli hanno conosciuto Benedetto XVI e ne hanno ricordato entrambi il carattere mite e la profondità del pensiero; la loro interpretazione, tuttavia, diverge circa la valutazione  del suo magistero, prima come teologo, poi come papa. Se per Valli Benedetto ha ereditato le tensioni che discendono, secondo lui, dal Concilio Vaticano II, non risolvendole, secondo Bux, invece, Benedetto ha manifestato creatività e originalità, ma sempre sforzandosi di mantenersi nel solco della tradizione cattolica; da qui la sua lettura non traumatica del Concilio, secondo quel principio della vita della Chiesa noto come “ermeneutica della continuità”. Se si pensa ad esempio alla trilogia su Gesù di Nazareth, non sarebbero pertanto il Concilio e le sue interpretazioni il problema della Chiesa attuale, quanto la riduzione della figura di Gesù a maestro di moralità, sostenitore di valori in linea con il mondo contemporaneo, ma inevitabilmente in contrasto con la realtà: si pensi, ad esempio, al mito del pacifismo, smentito dal ricorso, ancora oggi, dell’uomo alla guerra.   
    Entrambi i relatori, tuttavia, hanno concordato in conclusione i rischi dell’attuale fase sinodale, che appiattisce la Chiesa alla sua dimensione burocratica, facendone dimenticare la natura sacramentale. Un dibattito reso breve dai tempi contingentati della serata ha comunque consentito alla partecipata assemblea di evidenziare i dubbi che, evidentemente, questo attuale corso della Chiesa non riesce a fugare. 
     
      
     
  7. SEM IPC
    Una nuova “scelta religiosa”
     
    Recentemente alcuni autori hanno pubblicato articoli e libri, diffusi soprattutto in ambiente cattolico conservatore e tradizionalista, che propongono una soluzione capace di favorire la sopravvivenza della Fede cristiana in una società che sta passando dalla indifferenza alla persecuzione della Chiesa. Questa strategia prevede che la comunità ecclesiale attui una strategia di emergenza compiendo una nuova “scelta religiosa”, dopo quella fatta dall’Azione Cattolica Italiana negli anni 1960-1970.
    La vecchia “scelta religiosa” spinse il laicato cattolico ufficiale a rinunciare a una specifica azione politica cristiana, al fine di contribuire alla costruzione di una “cristianità profana”, o meglio di una laicista “città dell’Uomo”. Quella scelta causò la sudditanza dei cattolici al progetto “progressista”, la loro irrilevanza politica e la consegna della società civile alle forze rivoluzionarie, come avevano vanamente ammonito intellettuali inascoltati del calibro di Del Noce e Baget-Bozzo.
    Oggi, i fautori della nuova “scelta religiosa”, pur ammettendo il fallimento di quella vecchia, credono che sia ormai irrealizzabile l’incompiuto progetto – sempre raccomandato dalla Chiesa al laicato militante – di riconquistare la società alla Fede e di restaurare una Cristianità. Pertanto, essi esortano i fedeli a rassegnarsi all’apostasia della secolarizzata società moderna, considerata ormai come persa e irrecuperabile, a rinunciare a riconquistarla a Cristo e a ritirarsi dal “pubblico” al “privato”.
    Essi propongono che la Chiesa non si ostini più a evangelizzare, o anche solo a risanare, la vita sociale, giuridica e politica delle nazioni, ma anzi eviti prudentemente di compromettersi in questo campo pericoloso rischiando di suscitare ripulse e persecuzioni. Bisogna semmai che la Chiesa si limiti a chiedere al potere laicista di tollerare benevolmente la sopravvivenza della presenza “religiosa” (ossia solo spirituale) cristiana nella sua qualità di umile contributo dato per facilitare il progresso dell’umanità e la tutela della natura.
     
    Un preteso “ritorno alle origini”
     
    In concreto, questa nuova “scelta religiosa” prevede realizzare una sorta di “ritorno alle origini della Chiesa”. Infatti, si pretende che ormai la Chiesa possa sopravvivere al dominio laicista solo ritornando al (supposto) modo di vita dei primi cristiani, rinunciando a “propaganda” e “proselitismo” (ossia all’apostolato e alla conversione) e limitandosi a un’attività di testimonianza spirituale da tentare solo nel campo personale e familiare, o al massimo locale.  
    Poco dopo la chiusura dell’ultimo Concilio Ecumenico, questa strategia di rinuncia e di ritirata fu proposta da alcuni teologi progressisti moderati, spaventati dalla reazione anticristiana del Sessantotto e preoccupati dalla crescente crisi religiosa. Ad esempio, alcuni aspirarono che la Chiesa, rinunciando a privilegi e poteri, si riduca a una “piccola comunità interiorizzata e semplificata”, al fine di “ricominciare tutto daccapo” (J. Ratzinger, Fede e futuro, Queriniana, Brescia 1971, cap. V). Altri elaborarono addirittura una esplicita “teologia del fallimento”, sostenendo che il fallimento storico della Chiesa ne prova la nobile estraneità al mondo.
    Analoga soluzione viene oggi proposta al mondo cattolico dai fautori della nuova “svolta religiosa”. Essi esortano a disertare dalla fallimentare guerra in difesa della civiltà cristiana e di ripiegare in una “rivoluzione spirituale” che permetta ai cristiani di diventare “testimoni silenziosi e agenti segreti di Dio” e alla Chiesa di “sopravvivere nel privato” (Chantal Del Sol, La fine della cristianità e il ritorno del paganesimo, Cantagalli, Siena 2022, cap. V). Altri invitano i cristiani a “rifugiarsi in catacombe esistenziali” che permettano di “aprire condizioni di nicchia in terra ostile” (Boni Castellane, In terra ostile, La Verità, Milano 2023, pp. 90 e 125).
     
    Inevitabili e insuperabili obiezioni
        
    Tuttavia, questo programma di rinuncia, ritirata e nascondimento ecclesiale solleva inevitabilmente obiezioni insuperabili, sia storiche che pastorali che dottrinali.
    Dal punto di vista storico, la prospettiva “catacombalista” si rifà a una “comunità cristiana primitiva” che sembra tratta da certi romanzi, film e telefilm sentimentali del secolo scorso. Infatti, il rifugiarsi nelle catacombe fu solo un ripiego talvolta imposto da situazioni drammatiche, ma non fu mai concepito come vita ordinaria, tantomeno come modello ecclesiale da imitare.
    Oltretutto, l’attuale situazione della Chiesa non è paragonabile a quella di allora, se non altro perché Essa rimane erede e custode sia di un resistente prestigio culturale, sia di un cospicuo tesoro dottrinale, liturgico, giuridico, sociale e perfino materiale, che non è possibile nascondere e non è lecito liquidare fallimentarmente, tantomeno abbandonare al nemico.
    Dal punto di vista pastorale, la scelta “catacombalista” abbandonerà la comunità ecclesiale al crescente potere del nemico e annienterà quei movimenti che tutt’oggi perseverano eroicamente nel difendere ciò che resta della civiltà cristiana attaccata dalla Rivoluzione. Sia l’insegnamento che l’impegno politico-sociale verranno prima ostacolati e poi esclusi, nel timore di suscitare le reazioni dei nemici della Chiesa, perdere la (falsa) pace religiosa e peggiorare le meschine condizioni di sopravvivenza.
    Pertanto, questo “ritorno alle catacombe” non sarà una ritirata strategica, tentata nella speranza di raccogliere le forze rimaste per poi scagliarle contro gli avversari. Al contrario, essa diventerà una resa al nemico, nella illusione di far sopravvivere una Chiesa intimorita e silenziosa destinata a diventare complice di quelle forze tenebrose alle quali non vuole opporsi. Ciò favorirà la lenta e indolore estinzione di quella testimonianza cristiana che si vorrebbe salvare.
    Dal punto di vista dottrinale, infine, col pretesto di “tornare all’essenziale” per salvarlo dalla crisi, la scelta “catacombalista” elude i diritti di Dio come Creatore e Legislatore della società, quelli di Cristo come Re dei popoli e quelli della Chiesa come Mater, Magistra et Domina gentium, in particolare il suo insegnamento sociale. Per giunta, questa scelta presuppone una concezione di Dio che tende al deismo, riducendolo a un Essere supremo che non governa il mondo, o almeno che è non è capace d’intervenire risolutamente nella storia contemporanea, per cui Egli abbandona la sua Chiesa al destino di essere vinta e sottomessa al Nemico.
    Tutto ciò ci conferma una regola: ogni proposta che pretende di giustificare la viltà dei cristiani nel loro arrendersi alla Rivoluzione implica una offesa fatta alla divina Provvidenza e un tradimento della consegna affidata dal divin Redentore alla sua Chiesa: ossia quella d’“insegnare la verità a tutti i popoli”, “porre la fiaccola sopra il moggio” e “predicare il Vangelo sui tetti”, al fine d’“innalzarsi come vessillo tra le nazioni”.
    A questo tradimento bisogna opporre il coraggio e la tenacia di restare fedeli non solo all’astratta dottrina cattolica ma anche al fattivo impegno dell’azione cristiana di riconquista della società. Ad majorem Dei gloriam (etiam socialem).
  8. SEM IPC
    Proseguiamo qui la sintetica presentazione del tracciato del IV capitolo dell’Enciclica Fides et Ratio, frutto del lavoro, svolto in piena sintonia, di san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.
    II) Seconda parte - La progressiva separazione e contrapposizione tra fede e ragione
    A partire proprio dal tredicesimo secolo, dagli stessi contemporanei di san Tommaso, si comincerà a comprendere sempre meno la lezione dell’analogia dell’ente e del vero e, in nome di un maggior grado di certezza della conoscenza, ci si concentrerà sempre di più sull’univocità, più facile da comprendere, più agevole da controllare. Questo modo di procedere apparirà addirittura, ad alcuni, come un servizio alla verità, anziché una limitazione, un miglioramento della scienza anziché un suo impoverimento qualitativo.
    a) Univocità e nominalismo: il ruolo esclusivo della matematica
    Ma si tratterà di un potenziamento unilaterale di qualche aspetto della razionalità, soprattutto di quella matematica, a scapito degli altri.
    La ricaduta sulla teologia, della perdita dell’analogia, si farà sentire prima nell’univocità del pensiero protestante, poi nell’esasperazione quasi sofistica di certa tarda Scolastica e infine nella riduzione della stessa teologia a pura narrazione.
    «Con il sorgere delle prime università, la teologia veniva a confrontarsi più direttamente con altre forme della ricerca e del sapere scientifico. Sant’Alberto Magno e san Tommaso, pur mantenendo un legame organico tra la teologia e la filosofia, furono i primi a riconoscere la necessaria autonomia di cui la filosofia e le scienze avevano bisogno, per applicarsi efficacemente ai rispettivi campi di ricerca. A partire dal tardo Medio Evo, tuttavia, la legittima distinzione tra i due saperi si trasformò progressivamente in una nefasta separazione. A seguito di un eccessivo spirito razionalista, presente in alcuni pensatori, si radicalizzarono le posizioni, giungendo di fatto a una filosofia separata e assolutamente autonoma nei confronti dei contenuti della fede. Tra le altre conseguenze di tale separazione vi fu anche quella di una diffidenza sempre più forte nei confronti della stessa ragione. Alcuni iniziarono a professare una sfiducia generale, scettica e agnostica, o per riservare più spazio alla fede o per screditarne ogni possibile riferimento razionale.
    Insomma, ciò che il pensiero patristico e medievale aveva concepito e attuato come unità profonda, generatrice di una conoscenza capace di arrivare alle forme più alte della speculazione, venne di fatto distrutto dai sistemi che sposarono la causa di una conoscenza razionale separata dalla fede e alternativa ad essa» (n. 45).
    Gradualmente quegli aspetti della razionalità, che prima era concepita analogicamente, verranno a contrapporsi anziché integrarsi: ciò che prima era riconosciuto come, in certa misura, reale (l’universale) sarà considerato un puro nome (nominalismo). Il sapere passerà, un po’ alla volta, da una struttura organica e analogica ad una struttura univoca e dialettica: contrapposizione in luogo della integrazione dei diversi gradi di perfezione.
    b) Il pensiero moderno e contemporaneo
    L’enciclica continua, poi, la sua lettura della storia del pensiero occidentale riferendosi, allo sviluppo del pensiero filosofico e scientifico moderno e contemporaneo fino ai nostri giorni.
    «Le radicalizzazioni più influenti sono note e ben visibili, soprattutto nella storia dell’Occidente. Non è esagerato affermare che buona parte del pensiero filosofico moderno si è sviluppato allontanandosi progressivamente dalla Rivelazione cristiana, fino a raggiungere contrapposizioni esplicite. Nel secolo scorso, questo movimento ha toccato il suo apogeo. Alcuni rappresentanti dell’idealismo hanno cercato in diversi modi di trasformare la fede e i suoi contenuti, perfino il mistero della morte e risurrezione di Gesù Cristo, in strutture dialettiche razionalmente concepibili. A questo pensiero si sono opposte diverse forme di umanesimo ateo, elaborate filosoficamente, che hanno prospettato la fede come dannosa e alienante per lo sviluppo della piena razionalità. Non hanno avuto timore di presentarsi come nuove religioni formando la base di progetti che, sul piano politico e sociale, sono sfociati in sistemi totalitari traumatici per l’umanità.
    Nell’ambito della ricerca scientifica si è venuta imponendo una mentalità positivista che non soltanto si è allontanata da ogni riferimento alla visione cristiana del mondo, ma ha anche, e soprattutto, lasciato cadere ogni richiamo alla visione metafisica e morale. La conseguenza di ciò è che certi scienziati, privi di ogni riferimento etico, rischiano di non avere più al centro del loro interesse la persona e la globalità della sua vita. Di più: alcuni di essi, consapevoli delle potenzialità insite nel progresso tecnologico, sembrano cedere, oltre che alla logica del mercato, alla tentazione di un potere demiurgico sulla natura e sullo stesso essere umano» (n. 46)
    A questo punto, ormai, il processo ha invertito del tutto il suo senso di marcia. Si cerca:
    i) da un lato di estrapolare alcune categorie teologiche cristiane svincolandole dalla Rivelazione (considerata come un supporto mitologico surrettizio) e trapiantandole in sistemi filosofici sostanzialmente non più cristiani;
    ii) dall’altro di rimuovere anche i fondamenti puramente filosofici che sono serviti all’elaborazione di una teologia come scienza.
    Ma una simile operazione non poteva non finire per demolire anche gli elementi indispensabili alla ragione filosofica come tale. Così quest’ultima si è gradualmente trovata senza un fondamento su cui basarsi per poter procedere.
    «Come conseguenza della crisi del razionalismo ha preso corpo, infine, il nichilismo. Quale filosofia del nulla, esso riesce ad esercitare un suo fascino sui nostri contemporanei. I suoi seguaci teorizzano la ricerca come fine a se stessa, senza speranza né possibilità alcuna di raggiungere la meta della verità. Nell’interpretazione nichilista, l’esistenza è solo un’opportunità per sensazioni ed esperienze in cui l’effimero ha il primato. Il nichilismo è all’origine di quella diffusa mentalità secondo cui non si deve assumere più nessun impegno definitivo, perché tutto è fugace e provvisorio» (n. 46).
    E ancora:
    «Non è da dimenticare, d’altra parte, che nella cultura moderna è venuto a cambiare il ruolo stesso della filosofia. Da saggezza e sapere universale, essa si è ridotta progressivamente a una delle tante province del sapere umano; per alcuni aspetti, anzi, è stata limitata a un ruolo del tutto marginale. Altre forme di razionalità si sono nel frattempo affermate con sempre maggior rilievo, ponendo in evidenza la marginalità del sapere filosofico. Invece che verso la contemplazione della verità e la ricerca del fine ultimo e del senso della vita, queste forme di razionalità sono orientate – o almeno orientabili – come ragione strumentale al servizio di fini utilitaristici, di fruizione o di potere» (n. 47).
    Ai nostri giorni sembra essere ormai completa la parabola discendente, descritta nella seconda parte e si apre, come si è rilevato in precedenza, il problema di una rimessa a punto delle basi della razionalità, resasi urgente sia dal punto di vista esterno (problema delle conseguenze sulla vivibilità della società) che da quello interno (problema dei fondamenti della razionalità). È questo il quadro in cui oggi si viene a collocare il “problema dei fondamenti”: ciò che, a prima vista potrebbe apparire solo una questione per gli specialisti della filosofia delle scienze, si rivela essere, in realtà quello ben più profondo dei fondamenti metafisici della stessa razionalità della realtà e della conoscenza, e la condizione stessa della vivibilità della esistenza personale e sociale dell’essere umano.
    la prima parte disponibile qui
  9. SEM IPC

    fede e ragione
    In una società ancorata ad un pragmatismo materialistico hanno senso gli ideali nella convivenza umana ispirati a modelli di società o personaggi storici esemplari in termini etici?  La cultura attuale afferma l’ideale secondo criteri personalistici di successo e di affermazione sociale con richiami narcisistici ed egocentrici.
    Svelare l’inganno di una propaganda mediatica è un compito arduo ma doveroso per il riscatto di una umanità in cui l’essere umano possa credere ed esercitare una “Perfetta filantropia”.
     
    Il divenire dell’essere umano si manifesta nella storia in un percorso controverso di afflizioni, gioie e dolori, così da rendere significativo il valore della propria esistenza in termini di maturazione e possibilmente di saggezza.
     Le vicende liete e nefaste si ripercuotono nella persona per forgiare il temperamento quanto possa essere orientato alle mete della realizzazione del propri sogni e ideali.
    Il tempo assume una importanza innegabile nel compimento della crescita personale per consolidare l’esperienza, risorsa da cui attingere l’insegnamento per giungere ad un adeguata capacità di giudizio di fronte alle scelte da effettuare nella realtà.
    La realtà nella quale l’uomo ha sempre dovuto confrontarsi è circoscritta dai confini delle proprie ambizioni e possibilità oltre i quali ha sperimentato i propri limiti che hanno da sempre motivato la propria inquietudine proiettata in una dimensione in cui la sublimazione degli ideali scaturisce dall’ingannevole esaltazione dei miti.
    Resta nei confini dell’immaginario il fascino del mito a cui l’uomo può sentirsi attratto per dedicare particolare attenzione e rappresentare  un mondo confacente ai propri bisogni interiori appagabili  nell’ambito della propria convivenza sociale sul piano materiale o spirituale.
    Il mito è concepibile in termini essenziali come un evento esemplarmente idealizzato in corrispondenza di una carica di eccezionale e diffusa partecipazione fantastica o religiosa.
    L’ideale al quale l’uomo può suscitare particolare interesse è sempre in rapporto col proprio ambiente portatore di opportunità per la propria affermazione.
    Vale a questo punto citare l’esempio della così detta età classica quando Atene, grazie ad alcuni grandi uomini come Efialte e Pericle, elaborò una costituzione democratica a carattere diretto che rimase modello di perfezione in tutti i tempi: per essa sostanzialmente qualsiasi cittadino, anche il meno abbiente, poteva raggiungere le massime cariche pubbliche e teoricamente, almeno una volta nella sua vita, aspirare alla presidenza dello Stato per la durata di ventiquattro ore.
    A tal punto resta pertanto l’incognita di una società idonea a recepire gli ideali elevati dell’uomo.
    Il mito della società perfetta ha ispirato le varie ideologie: impostate alla pretesa di plasmare l’essere umano secondo criteri dogmatici lontani da una concezione naturalistica e umanitaria.
    Le tragedie del novecento hanno fatto naufragare i miti delle ideologie in utopie.
    Il confine sul quale la religione contrasta il mito è il richiamo alla sacralità della vita in una visione escatologica, che può influire in modo notevole sulla visione   del mondo e la condotta costante dell’essere  umano.
      L’ideale della società perfetta avrà i meriti di una convivenza fondata su valori prettamente spirituali esenti da impostazioni esaltanti di personalismi ed egocentrismi che sottendono ingannevoli ideali.                 
    Il vero ideale illumina la dignità umana degno di apprezzamento nella inclinazione disinteressa alla promozione umana quando si presentano ostacoli in una società a misura d’uomo quali la povertà, l’ingiustizia, la discriminazione, la violenza, la prevaricazione.
    Qual è il nodo cruciale della percezione ideale dell’uomo se non la concezione etica della perfezione.
    Secondo Parsifal, cavaliere della Tavola rotonda “L’ideale dell’uomo nuovo deve essere: un cuore puro come un cristallo, una mente chiara come il Sole, un’anima ampia come l’Universo, uno spirito come Dio e uno con Dio! »
    Al di là tali simbolismi l’ideale umano secondo la concezione etica quindi rispecchia la figura della perfezione.
    Etica
    Il problema dell’etica della perfezione non consiste nel determinare se l’uomo sia perfetto ma se dovrebbe esserlo e in che modo.
    Secondo Platone il concetto fondante nel suo pensiero corrisponde alla perfezione: supponeva che avvicinarsi all’idea della perfezione  rende perfette le persone.
    Gli storici attribuirono al concetto di perfezione il significato di armonia a cui tutti gli uomini potevano giungere introducendo una massima filosofica che nella cristianità divenne un valore religioso.
    La dottrina cristiana della perfezione è riscontrabile nei Vangeli. Il Vangelo di S. Matteo riporta il richiamo: "Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste" (Mt 5,48). Una simile raccomandazione è presente nel Vangelo di S. Luca in cui il termine “perfetti” viene sostituito da “caritatevoli”
    Una particolare citazione meritano un nutrito numero di scritti cristiani.
    Diversi scritti di San Paolo presentano richiami alla perfezione. Altri sono contenuti in un discorso di Sant’Agostino De perfectione iustitiae hominis. Essi sono però presenti anche nel Vecchio Testamento: "Tu sarai irreprensibile verso il Signore tuo Dio" (Deuteronomio 18:13). Sant’Agostino afferma che l’uomo perfetto non è l’uomo senza peccato ma una persona decisa a raggiungere la perfezione.
    In riferimento al concetto di perfezione la Sacra scrittura espone dubbi sulla possibilità dell’uomo a raggiungere la perfezione. In diverse fonti la perfezione è tradotta nei termini di incensurato, immacolato, senza difetti, senza peccato, santo, virtuoso.
    Se per gli antichi filosofi il valore intrinseco della perfezione riguardava l’armonia, per il Vangelo e i teologi cristiani riguardava l’amore o la carità.
    Citando quanto affermato da Egidio Romano la perfezione non ha solo fonti personali ma anche sociali. Sapendo che l’individuo si forma nella società, nella condizione sociale risiede quella personale.
    La perfezione sociale è vincolante per l'uomo, mentre quella personale è per lui solo confacente.
    Il condensato del messaggio evangelico riporta in sé il valore della sapienza nella quale risiede la lungimirante prospettiva della meta cristiana da realizzare nell’ideale di perfezione della Santità.
                                                                                              
  10. SEM IPC
    Son passati 75 anni dalla Mediator Dei, pubblicata il 20 novembre 1947, dal Venerabile Pio XII: il documento dottrinale più importante sulla liturgia prima del concilio Vaticano II, senza del quale la Costituzione sulla sacra liturgia, emanata solo sedici anni dopo, il 4 dicembre 1963, non si comprende appieno. Ne è la fonte principale, quanto ad impostazione classica e a contenuti dottrinali, e un termine di paragone con le istanze antiche e nuove della liturgia[…].
    La riforma liturgica, secondo Pio XII, risulta dunque dalla necessità delle cose, perché la liturgia stessa è una forma che continuamente tende a ri-formarsi nel senso dello sviluppo organico. Gli abusi non possono metterla in dubbio; perciò egli rammenta che “per tutelare la santità del culto contro gli abusi” esiste la Congregazione dei Riti. La liturgia è manifestazione della Chiesa corpo e Capo, organismo che produce energie sempre nuove pur conservando la sua forma fondamentale. Tutto questo sarà ribadito dalla Costituzione liturgica (cfr n 21)[…].
    Va tenuto presente quanto il cardinal Robert Sarah, prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, ha affermato in proposito: “Lungi dal riguardare solamente la questione giuridica dello statuto dell'antico Messale Romano, il Motu proprio pone la questione dell'essenza stessa della liturgia e del suo posto nella Chiesa. Ciò che è in causa è il posto di Dio, il primato di Dio. Come sottolinea il "papa della liturgia"(ndr Benedetto XVI): "Il vero rinnovamento della liturgia è la condizione fondamentale per il rinnovamento della Chiesa"[…]
    Ecco la vera e profonda ragione sottesa al Summorum Pontificum: rispondere in maniera più adatta ed efficace all’esigenza spirituale e pastorale di quanti, pur tributando il giusto ossequio e la giusta obbedienza a quanto stabilito dal Concilio Ecumenico Vaticano II, scossi e perplessi a causa delle “deformazioni” liturgiche che si verificarono nell’immediato post-Concilio - ed a cui ancora oggi siamo costretti in molti casi ad assistere - trovavano e trovano nella forma liturgica precedente il modo più adeguato e fruttuoso per coltivare il loro rapporto con Dio[…].
    Mediator Dei e Summorum Pontificum costituiscono il rimedio ad una concezione della liturgia privata della Presenza Divina, perché dinanzi all’archeologismo, alle deformazioni e agli abusi, riaffermano il diritto liturgico, quale tutela dei diritti di Dio nel culto[…].
    Lo studio e il dibattito sul primato dello ius divinum mi sembra essenziale per favorire la riforma della liturgia secondo la Costituzione conciliare compresa nel contesto della tradizione cattolica e porre fine al relativismo liturgico[…].
    Si deve constatare che nella liturgia nuova, non di rado sembra come se in essa Dio non c’è: è venuta meno la riverenza e il sacro, in una parola l'adorazione, perché non si è più consapevoli di stare alla presenza divina. Non si glorifica primariamente Dio, di conseguenza l'uomo non è santificato e il mondo non è “consacrato”. Basilio ricorda: “Tutto ciò che ha un carattere sacro è da lui – lo Spirito – che lo deriva”. Ecco che la riforma deve cominciare dalla rinascita del sacro nei cuori e parallelamente del timore di Dio[…]
    Di qui deve cominciare la riforma della riforma: “dalla presenza del sacro nei cuori, la realtà della liturgia e il suo mistero”. Un mistero che ha bisogno di spazio interiore ed esteriore. Joseph Ratzinger scriveva: «Questa, credo, è la prima cosa: sconfiggere la tentazione di un fare dispotico, che concepisce la liturgia come oggetto di proprietà dell'uomo, e risvegliare il senso interiore del sacro. Il secondo passo consisterà nel valutare dove sono stati apportati tagli troppo drastici, per ripristinare in modo chiaro e organico le connessioni con la storia passata. Io stesso ho parlato in questo senso di “riforma della riforma”. Ma, a mio avviso, tutto ciò deve essere preceduto da un processo educativo che argini la tendenza a mortificare la liturgia con invenzioni personali».[…]
    Nella comprensione del concilio Vaticano II e della riforma liturgica, è dunque fallita “l’ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto Chiesa”, che egli argomentò con spirito critico ma costruttivo, con i discorsi alla Curia Romana (22 dicembre 2005) e ai sacerdoti romani nel febbraio 2013? No, a mio modesto avviso, se non porremo ostacoli ai rimedi fin qui accennati, che stanno emergendo dal basso e dall’Alto: assecondiamoli con devozione e carità! San Carlo Borromeo, grande riformatore, era convinto che la Chiesa ha al suo interno le energie per rigenerarsi.
    Se taluni che la criticano, ritengono che la Chiesa troverà proprio da questa profonda crisi di fede uno sprone per rinnovarsi e purificarsi, allora non sostengano “l’ermeneutica della discontinuità e della rottura”, con la delegittimazione del concilio e del Novus Ordo, abbandonino posizioni pregiudiziali e oltranziste, quel radicalismo deleterio che finisce per dare ragione a quanti contrappongono due ecclesiologie, mettendo così in difficoltà tanti vescovi, sacerdoti e fedeli che, dopo gli ultimi documenti pontifici, non hanno cambiato il loro atteggiamento. Uno degli effetti, se non il più pernicioso, della negazione dell’ermeneutica della continuità e che certe posizioni estreme, radicali, finiscano poi per darsi idealmente la mano. Persistiamo invece con realismo, nel pensiero cattolico. E’ in movimento una nuova generazione: è un fiume sotterraneo che, con la pazienza dell’amore (cfr 1 Cor 13) sta riaffiorando, e vincerà.
    Il video e il testo completo della relazione disponibili  qui e
    qui N.Bux - Dalla Mediator Dei 16 settembre 2022.docx
     
  11. SEM IPC
    Saper percepire cosa  potrà  succedere nella nostra santa Chiesa  credo sia prerogativa dei  Santi. Ma i rischi  che si corrono ( certamente discutibili…) son percepibili anche da osservatori  sensibili.
    1°punto -Un  rischio  per un cattolico in questo XXI secolo è di sentirsi …“ poco coraggioso” e anziché impegnarsi a “fecondare “il mondo anche, o meglio, proprio oggi, in queste condizioni, secondo le aspettative di Gesù Cristo, accetti  a scatola chiusa  la profezia   di prevedere di  ridursi a “piccolo gregge” (molto molto creativo però …)   
    2°punto- Certo non è facile vivere la propria fede esemplarmente in modo di contagiare e fare apostolato, quando  ci si sente obiettare che ciò che  si propone, per evangelizzare, non è “esattamente” quello che  dicono e scrivono i massimi responsabili della Chiesa  ( la Gerarchia), facendo perdere credibilità  apostolica e crescendo persino i dubbi a chi pretende di aver capito meglio dei Capi ( la Gerarchia)  ciò che voleva il Fondatore della Chiesa. Ma chi avrà ragione ?  
    3°punto- Altro rischio conseguente  sta nei   contrasti comportamentali,  tra cattolici più ortodossi ( più rigidi ? ) e più progressisti  ( più  permissivi ? ) verso il  concetto di peccato. Ciò grazie  al  divario tra ideali spirituali e reali ( ci son tentazioni cui non si può resistere ?). In economia c’è una legge , la Legge di Gresham , che dice che la moneta cattiva scaccia quella buona. Vuoi vedere che la legge di Gresham si può applicare anche in materia religiosa sospettando che la morale cattiva scacci quella buona?  Risultato potrebbe essere eccessiva relativizzazione della morale.
    Conclusione: prospettive poco ottimistiche, contrasti nella evangelizzazione, relativizzazione della morale. Si deve riflettere come avrebbe fatto S.Tommaso ( se ci ricordiamo ancora chi è e cosa ha scritto).
     
    Cartesio, dopo quattro secoli, sarebbe soddisfatto (certo  non solo lui …), di come si sta finalmente riorganizzando  la dottrina cattolica spirituale,  in dottrina pratica di etica sociale. Il pontefice del Positivismo, Augusto Comte , dopo  poco meno di due secoli, sarebbe  altrettanto, o più, soddisfatto di aver ben profetizzato chi sarebbero stati i grandi riformatori  di detta dottrina .
    Ogni  cultura ha vissuto  negli ultimi  cinque secoli  il processo di  laicizzazione del sacro , ma  in modo diverso , sapendo conservarlo, ridurlo o  perderlo. Dopo l’illuminismo in Francia si assistette ad un rapido processo di "decristianizzazione". Nel Regno Unito, invece, di secolarizzazione della cultura. In Italia, dove la Chiesa cattolica apostolica romana  è  nata, vissuta  e  espansa  nel mondo tutto,  in più fasi e tempi,  si è assistito  ad un processo  molto diverso, più lento e progressivo, poi accelerato,  di destrutturazione . Questo processo   si è realizzata in modo   assolutamente originale e specifico,  che solo poteva esser concepito  per  la Chiesa di Cristo,  essendo la Chiesa l’unica autorità morale al mondo strutturata  secondo un modello di gestione assoluto e  accentrato  in una sola persona. Vorrei sottolineare questo punto: solo il Papa  può essere infallibile ( in materia di fede e morale ) , è un Dogma ( Concilio Vaticano I -18luglio 1870) .
    Conseguenza ?
    L’effetto specifico oggi, nel mondo cattolico,  sembra  essere   di “confusionalizzazione” su cosa sta accadendo e perché , con conseguente confusione sulla obbedienza, a chi e   su cosa. I cattolici sembrerebbero oggi  trovarsi  su una linea di confine  ( borderline ),  cercando di capire se e come adeguarsi al nuovo ordine dottrinale percependo la fine del vecchio ordine . In molti son convinti  che la civiltà cristiana  sia  morta e sepolta  e si debba  pertanto  spegnere la luce, altri son già disposti e pronti alla riconversione a  funzionari di  una onlus  che si occupa di sociale, altri  ancora  stanno pensando al ritorno nelle catacombe. Ma il pensare di doversi rassegnare a  ridursi a “piccolo gregge”, più o meno creativo, e pertanto rifiutarsi di pensare che Dio  si sia incarnato, sia stato crocefisso  e risorto,  e   2000 anni dopo debba  congratularsi per questa scelta coraggiosa  di diventare piccolo gregge  creativo, dovrebbe   pretendere una riflessione attenta ( appunto tomistica). Non solo perché  questo piccolo gregge  non inciderebbe in  quasi nulla e in nessun posto  e per  chissà quanti secoli, ma  considerando anche che  questo piccolo gregge, in questi tempi transumanisti, potrebbe anche esser  identificato come  una  “setta”  pericolosa da tener sotto osservazione , se non peggio… .
    Il Grande Joseph Ratzinger lo  spiegò profetizzandolo, è vero, ma nel lontano  1969, a fine Vaticano II, quando non era ancora Arcivescovo. Forse aveva ragione  e le ragioni che adduceva  sulla crisi in atto  sono condivisibili,  certo potrà risorgere una chiesa della fede, ma nel frattempo ?  Alla umanità chi racconterà la buona novella ? E qui vorrei proporre una riflessione .
    Anche la Chiesa, alla fine, è un mezzo, sacro perché voluto da GesùCristo, sacro perché  è  il mezzo di Redenzione, ma  non è la Chiesa  il Fine . Ma  se  la Chiesa è un mezzo, anziché  cambiarlo, o attendere che cambi , non è più logico  riferire la proprie attenzioni  a  chi lo utilizza  e potrà utilizzarlo?  Questa riflessione vale per ogni considerazione  su mezzi, fini  e utilizzo dei mezzi  per raggiungere un fine. Ma qui stiamo parlando di un fine ultimo :la salvezza.  
    Negli ultimi tempi gli errori fatti all’interno della Chiesa non son stati pochi . Il  rifiuto della scolastica e del  tomismo probabilmente è stato uno dei più importanti  .  Se non si  capisce  cosa conta e non si difende ciò cui si crede si è destinati a perderlo  e pertanto vivere di riserve spirituali  accumulate in precedenza e poi   di scuse e giustificazioni. Senza  le sue fondamenta  continuamente rinforzate  la civiltà  decade ,si corrompe inevitabilmente , perde la visione d’insieme naturale e soprannaturale, immanente e trascendente, perde la certezza del valore del libero arbitrio  accettando  un determinismo scientista, perde  il valore delle opere  legate alla fede  e permette a utopie di affermarsi, nella  dichiarata capacità di valorizzare e persino salvare l’uomo. Perdendo anche la speranza  e confondendo pertanto la certezza di  “che fare “ .
    Per decidere  ciò   che è opportuno fare, si  rifletta  secondo  san Tommaso - Aristotelico .
  12. SEM IPC
    Per un cattolico la fede è il compimento della razionalità e la ragione è il terreno naturale sul quale poggiare le basi della fede. Il cap.IV dell'Enciclica Fides et ratio, promulgata da Giovanni Paolo II nel 1998, non senza l'apporto dell'allora card.Joseph Ratzinger, viene proposto al nostro approfondimento dal reverendo professor Alberto Strumia.  Nella ricorrenza di san Tommaso d'Aquino, dottore della Chiesa (28 gennaio), costituisce una lettura davvero magistrale della storia del rapporto fede/ragione nei secoli della cultura cristiana – che un cattolico non deve ignorare, se non vuole finire per ripetere i luoghi comuni del pensiero dominante – indicando un “metodo” utile anche per il nostro presente “lavoro culturale”. 
     
    L’enciclica Fides et Ratio di san Giovanni Paolo II – frutto della stretta sintonia di pensiero e di operatività tra san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, recentemente transitato al Cielo – è tra i documenti ecclesiali più censurati e meno conosciuti. Mentre essa offre nel suo quarto capitolo una lettura davvero magistrale della storia del rapporto fede/ragione nei secoli della cultura cristiana – che un cattolico non deve ignorare, se non vuole finire per ripetere i luoghi comuni del pensiero dominante – indicando un “metodo” utile anche per il nostro presente “lavoro culturale”. Per un cattolico la fede è il compimento della razionalità e la ragione è il terreno naturale sul quale poggiare le basi della fede (credo ut intelligam, intelligo ut credam). Ogni contrapposizione è ingannevole: «Voi attaccaste la ragione. Questa è cattiva teologia», rispose il P. Brown di Chesterton al falso prete, il ladro Flambeau, smascherandolo.
    L’enciclica, in quel capitolo, focalizza le tappe fondamentali della storia dell’incontro di fede e ragione.
    – Nella prima parte del capitolo, si indicano i passaggi che sono stati maturati in vista della costituzione dello spazio teorico che ha reso pensabile il cristianesimo, fino all’elaborazione di una disciplina teologica sistematica.
    – Nella seconda parte si individuano le tappe del processo inverso che ha visto la progressiva separazione tra fede e ragione, fino alla disgregazione della stessa razionalità filosofica.
    Questa lettura di un percorso storico ha la funzione
    – di documentare un metodo di elaborazione culturale (nella prima parte) e
    – di indicare i punti nodali problematici che oggi vanno sbloccati (nella seconda parte)
    sia per l’utilità della fede, che per il recupero di una pienezza della razionalità come tale.
    *  *  *
    I) Prima parte - Il cammino comune di fede e ragione
    a) La liberazione della religione dal mito e la sua fondazione filosofica
    Innanzitutto l’enciclica evidenzia come nel corso della storia del pensiero, prima ancora della rivelazione cristiana, sia stato necessario compiere un passo preliminare, fondamentale per costruire la stessa razionalità dimostrativa: si tratta del passaggio dal mito alla filosofia.
    «Uno degli sforzi maggiori che i filosofi del pensiero classico operarono, infatti, fu quello di purificare la concezione che gli uomini avevano di Dio da forme mitologiche. Come sappiamo, anche la religione greca, non diversamente da gran parte delle religioni cosmiche, era politeista, giungendo fino a divinizzare cose e fenomeni della natura. Fu compito dei padri della filosofia far emergere il legame tra la ragione e la religione. Allargando lo sguardo verso i principi universali, essi non si accontentarono più dei miti antichi, ma vollero giungere a dare fondamento razionale alla loro credenza nella divinità. Si intraprese, così, una strada che, uscendo dalle tradizioni antiche particolari, si immetteva in uno sviluppo che corrispondeva alle esigenze della ragione universale. Il fine verso cui tale sviluppo tendeva era la consapevolezza critica di ciò in cui si credeva. La prima a trarre vantaggio da simile cammino fu la concezione della divinità. Le superstizioni vennero riconosciute come tali e la religione fu, almeno in parte, purificata mediante l’analisi razionale. Fu su questa base che i Padri della Chiesa avviarono un dialogo fecondo con i filosofi antichi, aprendo la strada all’annuncio e alla comprensione del Dio di Gesù Cristo» (n. 36).
    b) La costruzione dello spazio teorico per pensare il cristianesimo
    Giunti alle origini del cristianesimo la fede ha cercato di fondare la sua credibilità teoretica innanzitutto utilizzando gli strumenti della logica dimostrativa e della filosofia.
    Il primo lavoro da compiere, per garantire credibilità alla fede, riguardava la necessità di dimostrare la non contraddittorietà logica del contenuto della Rivelazione, la sua non irrazionalità e, anzi, la sua piena razionalità. E questo è stato uno dei compiti fondamentali degli Apologisti a partire dal secondo secolo cristiano. Il contenuto della Rivelazione può oltrepassare – e di fatto in alcuni dei suoi contenuti oltrepassa – le capacità della ragione di raggiungerlo da sola, ma non può essere accusato di essere contro le regole della logica e quindi ridicolizzato e screditato.
    Un secondo compito, più durevole nel tempo e impegnativo, ha richiesto il lungo lavoro di rielaborazione delle stesse categorie filosofiche per ampliarne la capacità di contenere, fino a poter accogliere, senza eccessive limitazioni, la ricchezza concettuale della Rivelazione che andava oltre ciò che il filosofo da solo poteva elaborare.
    «Nella storia di questo sviluppo è possibile, comunque, verificare l’assunzione critica del pensiero filosofico da parte dei pensatori cristiani. Tra i primi esempi che si possono incontrare, quello di Origene è certamente significativo. Contro gli attacchi che venivano mossi dal filosofo Celso, Origene assume la filosofia platonica per argomentare e rispondergli. Riferendosi a non pochi elementi del pensiero platonico, egli inizia a elaborare una prima forma di teologia cristiana. Il nome stesso, infatti, insieme con l’idea di teologia come discorso razionale su Dio, fino a quel momento era ancora legato alla sua origine greca. Nella filosofia aristotelica, ad esempio, il nome designava la parte più nobile e il vero apogeo del discorso filosofico. Alla luce della Rivelazione cristiana, invece, ciò che in precedenza indicava una generica dottrina sulle divinità venne ad assumere un significato del tutto nuovo, in quanto definiva la riflessione che il credente compiva per esprimere la vera dottrina su Dio. Questo nuovo pensiero cristiano che si andava sviluppando si avvaleva della filosofia, ma nello stesso tempo tendeva a distinguersi nettamente da essa. La storia mostra come lo stesso pensiero platonico assunto in teologia abbia subito profonde trasformazioni, in particolare per quanto riguarda concetti quali l’immortalità dell’anima, la divinizzazione dell’uomo e l’origine del male» (n. 39).
    Tutto questo lavoro ha significato la creazione dello spazio teorico per rendere pensabile il cristianesimo nel quadro storico-culturale del tempo. E quindi vivibile, a pieno titolo, nella società di allora. Basti pensare alla straordinaria opera di messa a punto di un linguaggio adatto ad esprimere i contenuti teologici e filosofici della Rivelazione, formulati prima nella lingua greca, poi ripensati e tradotti in quella latina. L’esempio più formidabile di ampliamento di significato è offerto, quasi sicuramente, da una parola come persona, che dal significato pagano originario di maschera teatrale è giunto ad indicare la persona umana, come ancora oggi la intendiamo, e addirittura le persone divine nella Trinità.
    c) I Padri della Chiesa e il confronto tra la filosofia greca e la visione contenuta nella Rivelazione
    Un passo ulteriore fu quello di non limitarsi solamente a mostrare la non contraddittorietà dei contenuti della Rivelazione (primo passo), né di accontentarsi di creare uno spazio teorico per la pensabilità di quei contenuti (secondo passo), ma di mostrare addirittura la superiorità della concezione cristiana della realtà (mondo, uomo, Dio) rispetto alle filosofie, riconoscendo nel contempo quelli che erano gli elementi comuni. Il cristianesimo viene concepito, oltre che come avvenimento storico dell’Incarnazione e della Redenzione, anche come portatore della vera filosofia.
    «Proprio qui si inserisce la novità operata dai Padri. Essi accolsero in pieno la ragione aperta all’assoluto e in essa innestarono la ricchezza proveniente dalla Rivelazione. L’incontro non fu solo a livello di culture, delle quali l’una succube forse del fascino dell’altra. […]
    Oltrepassando il fine stesso verso cui inconsapevolmente tendeva in forza della sua natura, la ragione poté raggiungere il sommo bene e la somma verità nella persona del Verbo incarnato. Dinanzi alle filosofie, i Padri non ebbero tuttavia timore di riconoscere tanto gli elementi comuni quanto le diversità che esse presentavano rispetto alla Rivelazione. La coscienza delle convergenze non offuscava in loro il riconoscimento delle differenze» (n. 41).
    Con sant’Agostino, nel quarto secolo cristiano, questa opera di elaborazione e sistematizzazione teologica, fondata sulla rielaborazione della tradizione platonica, raggiunge un vertice che sarà un punto di riferimento per i teologi successivi.
    d) La Scolastica e la teologia come scienza
    «Con la Scolastica, e in particolare con sant’Alberto Magno e specialmente con san Tommaso, viene addirittura compiuta la fondazione e la messa a punto di una teologia come scienza, dimostrativa e totalmente sistematica, basata sulla rielaborazione della filosofia aristotelica, ma non senza includere alcuni elementi importanti della tradizione platonica (soprattutto quelli provenienti dallo Pseudo-Dionigi e la dottrina della partecipazione).
    Più radicalmente, Tommaso riconosce che la natura, oggetto proprio della filosofia, può contribuire alla comprensione della rivelazione divina. La fede, dunque, non teme la ragione, ma la ricerca e in essa confida. Come la grazia suppone la natura e la porta a compimento, così la fede suppone e perfeziona la ragione. Quest’ultima, illuminata dalla fede, viene liberata dalle fragilità e dai limiti derivanti dalla disobbedienza del peccato e trova la forza necessaria per elevarsi alla conoscenza del mistero di Dio Uno e Trino. Pur sottolineando con forza il carattere soprannaturale della fede, il Dottore Angelico non ha dimenticato il valore della sua ragionevolezza; ha saputo, anzi, scendere in profondità e precisare il senso di tale ragionevolezza. La fede, infatti, è in qualche modo esercizio del pensiero; la ragione dell’uomo non si annulla né si avvilisce dando l’assenso ai contenuti di fede; questi sono in ogni caso raggiunti con scelta libera e consapevole» (n. 43).
    La chiave di volta, dal punto di vista logico-metafisico, di tutto l’impianto sistematico di Tommaso sta nella dottrina dell’analogia-partecipazione che permette alla ragione di compiere due grandi passi:
    i) innanzitutto quello di riconoscere modi e gradi di perfezione differenziati nella realtà (ente), nella sua conoscibilità (vero), nel suo essere desiderabile e amabile (bene), nell’organicità del suo essere un tutto (uno);
    ii) e insieme quello di elevarsi dall’esperienza dei gradi materiali e sensibili dell’essere alla conoscenza, pur limitata, ma vera, dei livelli superiori non immediatamente e adeguatamente conoscibili, ma neppure del tutto inaccessibili.
    E sembrano proprio questi i nodi verso i quali le scienze più avanzate paiono oggi, pur se ancora timidamente, aspirare nella loro ricerca di fondamenti.
    (segue)
  13. SEM IPC
    È un testo molto bello su Benedetto XVI, utile anche per i lettori italiani. Gabriele Kuby è
    cattolica. Tra tutto quello che abbiamo letto, sembra il più bello, più sincero e chiaro.
    Traduzione automatica (deepl.com) di seguito.
    Per me è sempre stato chiaro che sarei andata a Roma per i funerali di Papa Benedetto XVI. Volevo dare l'ultimo saluto al più grande spirito del nostro tempo, esprimere la mia gratitudine e dire addio nella mia anima partecipando ai rituali di morte. Joseph Ratzinger aveva sempre tenuto la mano su di me. "Grazie a Dio, lei parla e scrive", mi aveva detto quando mi era stato permesso di mettere nelle sue mani il mio libro La rivoluzione sessuale globale, la distruzione della libertà in nome della libertà, in Piazza San Pietro nel 2012 - che grande dono in un momento in cui tutti coloro che si battono per ciò che è vero e buono sono sotto tiro, nessuno più di Joseph Ratzinger/Papa Benedetto XVI.
    Ero anche a Roma quando Giovanni Paolo II fu sepolto sotto l'egida del suo fedele servitore Joseph Ratzinger, allora decano del Collegio cardinalizio. Che giorni luminosi per la Chiesa, quando due milioni di persone hanno dato l'addio al Papa polacco e il mondo ha ascoltato i grandi sermoni del cardinale Ratzinger e, undici giorni dopo, lo ha accolto come nuovo Papa sulla loggia della Basilica di San Pietro. Qui c'era una persona che aveva dato tutta la sua vita, i suoi doni spirituali insuperabili, il suo cuore di fede infantile al servizio di Dio e della sua Chiesa.
    Più volte ha rinunciato a seguire il proprio progetto di vita e a contribuire alla storia intellettuale come studioso di teologia e filosofia. Non volle diventare vescovo di Monaco Frisinga (1977), né prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede (1981 - 2005). Per tre volte aveva presentato le sue dimissioni, per tre volte gli erano state rifiutate da Papa Giovanni Paolo II. Era sicuro, ci ha detto in questi giorni a Roma il cardinale Koch, che il Papa appena eletto non avrebbe potuto rifiutare la sua richiesta, non sospettando che lui stesso sarebbe stato quel Papa. Joseph Ratzinger desiderava tutt’altro che diventare Papa. Quando il cardinale Meisner gli chiarì che l'elezione sarebbe toccata a lui e che avrebbe dovuto accettare l'elezione, divenne quasi categorico. Desiderava finalmente scrivere libri nella sua modesta casa di Pentling, vicino a Ratisbona, un desiderio così forte che lo realizzò anche quando era ancora Papa con la sua opera in tre volumi su Gesù Cristo. Quando il 19 aprile è salito sulla loggia e ha salutato il popolo acclamante, ha chiesto alla folla di pregare per lui affinché non scappi dai lupi.

    I branchi di lupi provengono principalmente dal suo paese d'origine, la Germania. Hanno mostrato i denti al "Panzerkardinal" e al "Rottweiler di Dio", qualunque cosa potesse fare. Il fatto che sia stato Joseph Ratzinger a dare un giro di vite agli abusi sessuali nella Chiesa come nessun altro, non li ha placati, il che dimostra che non era questo il loro scopo. Ratzinger è odiato perché non "appartiene al mondo" (cfr. Gv 15, 15-19) e ha predicato alla Chiesa la necessità di de-mondanizzarsi, già nel 1958 nella sua profetica conferenza sul "nuovo paganesimo che cresce inesorabilmente nel cuore della Chiesa" e di nuovo nel suo discorso nella sala da concerto di Friburgo nel 2011. Nemmeno nei giorni del suo ultimo addio sono state fermate le odiose vituperazioni della televisione di Stato. È come se un branco di pinscher assatanati attaccasse un gigante perché la sua luce non illumini il mondo, ma brillerà tanto più intensamente quanto più ne avremo bisogno dopo la sua morte.
    La Germania avrebbe potuto guardare a Benedetto XVI, che gode del massimo rispetto nella Chiesa universale e tra i leader delle altre religioni, ma non ha voluto farlo. "[Gerusalemme, Gerusalemme], quante volte avrei voluto raccogliere i tuoi figli intorno a me, come una gallina raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, ma tu non hai voluto" (Mt 23,37), lamenta Gesù poco prima della sua crocifissione. La Germania preferisce rimanere bloccata nel pantano della colpa e arrendersi a un libertinismo totalitario con un occhio solo. Alla Messa di Requiem in Piazza San Pietro del 5 gennaio 2023, c'erano bandiere bavaresi ma solo una tedesca. A differenza dei polacchi, a noi tedeschi non è permesso amare il nostro Paese, né il nostro Papa.
    Ciò che è sconvolgente è che non è amato nemmeno nel cuore della Chiesa cattolica. Alla sua morte, avvenuta il 31 dicembre 2022, le campane suonarono nella città di Roma e in molti Paesi, ma non in Vaticano. Le bandiere erano a mezz'asta - non così in Vaticano. I funerali sono stati fissati al quinto giorno dopo la sua morte, sebbene il protocollo per il Papa preveda nove giorni. La salma del Papa è stata trasferita in un furgone bianco dal monastero Mater Eccelsiae fino alla Basilica di San Pietro. Come faceva freddo in Piazza San Pietro al Requiem, così faceva freddo alla cerimonia. Gli uccelli sopra le nostre teste urlavano il dolore delle 50.000 persone riunite lì mentre noi recitavamo il Rosario. È stato impressionante vedere quanti giovani e quanti giovani sacerdoti, provenienti da tutto il mondo, siano accorsi in Piazza San Pietro.
    Papa Francesco, legato a una sedia a rotelle e vestito con un mantello fumante, non ha celebrato se stesso. Nel suo sermone di sette minuti, non si sapeva bene di chi stesse parlando, di Gesù, di Benedetto, di se stesso, perché ha citato il nome del suo predecessore solo nell'ultima frase. Un dotto teologo ha detto che Papa Francesco ha usato quattro citazioni di Ratzinger, ma non le ha indicate. Lo splendor veritatis, il fulgore della verità che irradia l'intera opera del "cooperator veritatis" non è stato lasciato brillare.
    Ma i segni parlano. Papa Benedetto XVI è morto il 31 dicembre 2022, ultimo giorno dell'anno, ultimo giorno dell'ottava di Natale, giorno della memoria di Catherine Labouré. Le letture e il Vangelo di quel giorno sembrano essere stati scelti per lui. La lettura dice: "Figlioli, è l'ultima ora. Avete sentito dire che l'Anticristo sta arrivando, e ora sono arrivati molti Anticristi. Da questo sappiamo che è l'ultima ora. Sono venuti da noi, ma non ci appartengono; perché se ci fossero appartenuti, sarebbero rimasti con noi. Ma dovrebbe risultare evidente che non appartengono tutti a noi" (1 Giovanni 2:18-21).
    Sullo sfondo del cosiddetto "Cammino sinodale" dei vescovi tedeschi in solidarietà con il Comitato centrale dei cattolici tedeschi, un organismo laico non rappresentativo, queste parole colpiscono nel segno, perché la maggioranza dei vescovi in Germania è in apostasia - si è allontanata dalla fede - secondo il giudizio del pubblicista statunitense George Weigel. In occasione di un incontro dell'"Initiative Neuer Anfang" tedesca, un movimento di raccolta di fedeli cattolici, con il cardinale Gerhard Müller in occasione del Requiem, gli chiesi se riteneva possibile che il cammino sinodale tedesco fosse l'avanguardia del cammino sinodale di tutta la Chiesa. Non ha risposto alla domanda. Presto sarà chiaro.
    Papa Benedetto non è fuggito dai lupi, ma questi gli hanno procurato le più grandi sofferenze con la loro "ostilità pronta a balzare" e durante la sua vita hanno ostacolato i suoi sforzi per riportare la Chiesa alla sua vera missione: la proclamazione del messaggio immutabile di Gesù Cristo e l’approntamento dei mezzi di salvezza per i fedeli al fine di raggiungere la vita eterna nella gloria di Dio.
    Il Vangelo del giorno della morte era il Prologo di Giovanni, il più grande condensato della rivelazione di Dio attraverso il suo Figlio Gesù Cristo. "Venne tra i suoi, ma i suoi non lo accolsero" (Giovanni 1:11). Joseph Ratzinger ha dispiegato instancabilmente il Prologo con la sua predicazione e con la sua vita. Ora è ricevuto dai suoi in cielo, di cui ha parlato così bene nella sua lunga vita.
    Il 31 dicembre è anche il giorno della memoria di Caterina Labouré, che fu incaricata da un'apparizione della Madonna di far coniare una medaglia che si diffuse nel mondo a milioni come "medaglia miracolosa" con la preghiera: "O Maria, concepita senza peccato, prega per noi che ci rifugiamo in te" - anche questo è un testamento.
    Ora è morto il KATECHON, che ha dovuto perseverare per dieci lunghi anni dopo le sue dimissioni e forse ha ancora impedito "all'avversario di sedersi nel tempio di Dio e di pretendere di essere Dio" (2 Ts 2,4). Ora saprà se le sue dimissioni sono state volute da Dio, come Benedetto sicuramente credeva. Joseph Ratzinger ha amato Gesù Cristo e lo ha servito con sacrificio e disponibilità con tutte le fibre della sua grande vita. Amava anche le persone e faceva di tutto perché la strada della Chiesa verso la salvezza rimanesse percorribile. Signore, ti amo, furono le sue ultime parole. Nella tribolazione che ci attende, possiamo attingere alla sua eredità, così come anche noi possiamo crescere e morire in questo amore.
    Fonte: kath.net
     
     
  14. SEM IPC
    È stato pubblicato, qualche giorno fa, il video dell’intervista fatta da Guido Horst (caporedattore del settimanale cattolico tedesco Die Tagespost) a mons. Gänswein, segretario privato di Ratzinger da prima che fosse eletto al Soglio petrino.
     
    Lo scambio, che ripercorre i gangli fondamentali della vita, dell’opera e del pensiero del teologo e Papa bavarese alla luce dell’esperienza di mons. Gänswein, è capace di illustrare le preoccupazioni e le angosce che hanno abitato il cuore e la mente del Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede prima e del Sommo Pontefice poi: la decadenza della fede e della società occidentale, il rapporto tra fede e ragione, le proteiformi problematiche specifiche delle chiese locali e via dicendo.
     
    Un punto particolarmente rilevante dell’intervista, che sta già facendo ampiamente discutere diverse anime all’interno della Santa Chiesa e che è destinato a rimanere fulcro di dibattito anche nel tempo a venire, è quello in cui l’ormai ex segretario privato di Benedetto XVI afferma che il motu proprio di Papa Francesco Traditionis Custodes, che impone diverse limitazioni alla celebrazione della santa Messa more antiquo, sia stato recepito negativamente dal Papa emerito. In particolare, mons. Gänswein ha dichiarato:
     
    «[il motu proprio Traditionis Custodes] è stato un punto di svolta. Io credo che leggere il nuovo motu proprio abbia addolorato il cuore di Papa Benedetto, perché la sua intenzione è stata quella di aiutare coloro che semplicemente hanno trovato una casa nella Messa antica per trovare pace interiore, trovare pace liturgica, col fine di portarli lontano da Lefebvre»
     
    Il prelato ha continuato, dicendo: «E se pensate per quanti secoli la Messa antica è stata fonte di vita spirituale e nutrimento per tante persone, compresi molti santi, è impossibile immaginare che essa non abbia più nulla da offrire. E non dimentichiamo che molti giovani – nati ben dopo il Vaticano II e che non comprendono davvero tutto il dramma che ha circondato il Concilio – che questi giovani, che conoscevano la Messa nuova, hanno nondimeno trovato una casa spirituale, un tesoro spirituale anche nella Messa antica».
     
    Mons. Gänswein ha concluso dicendo «Togliere questo tesoro alle persone… Bene, non posso dire di essere a mio agio con ciò».
     
    Per quanto la dichiarazione sulla reazione di Benedetto XVI al motu proprio Traditionis Custodes sia un’interpretazione personale del fatto (formulata iniziando con “io credo”), è chiara a tutti la sua attendibilità, a meno di voler mettere in dubbio la parola di chi ha potuto conoscere il pensiero e l’approccio di Benedetto XVI meglio di chiunque altro. Senza contare che il motu proprio Summorum Pontificum, che tolse tanti vincoli per la celebrazione della santa Messa in vetus Ordo, vede la paternità dello stesso Papa Ratzinger (il che pare scontato, ma forse è bene ricordarlo).
    Con don Nicola Bux, cerchiamo di fare il punto della situazione.
     
    Don Nicola, cosa dice al cattolico d’oggi, dal punto di vista ecclesiale, questa pesante dichiarazione di mons. Gänswein a riguardo della reazione di Benedetto XVI al motu proprio Traditionis Custodes? Quale portata e quali possibili conseguenze può avere?
    Non mi sorprende. Qualcuno si chiederà: perché non l’ha fatto prima. Forse per non accrescere la tensione o forse perché Benedetto non aveva più la forza di intervenire, come invece aveva fatto sul celibato, durante il sinodo dell’Amazzonia. La reazione però va meditata da parte di papa Francesco e dei fautori della rottura: a chi giova rompere la pace liturgica, come egli disse a Parigi? Per non dire dell’affermazione, priva di fondamento storico che una è la lex orandi della Chiesa. Se così fosse, si dovrebbero annullare le forme liturgiche orientali e occidentali. Chi non sa, che esiste diversità tra le chiese orientali fra loro e all’interno di ciascuna? La liturgia bizantina non ha tre forme: quella di S.Giovanni Crisostomo, quella di san Basilio e quella dei Presantificati? E la latina non può avere due forme: quella di Damaso-Gregorio Magno-Pio V e quella di Paolo VI? Mi auguro un ripensamento al Dicastero del Culto Divino e quindi nel papa. Ma, col tempo, siccome l’affermarsi della liturgia tradizionale è inarrestabile, si apriranno dei varchi. Bisogna pazientare, persistendo.
     
     
    È certamente situazione inedita quella in cui, vivente un Papa dimissionario, il Papa regnante emana un documento che contraddice un atto del predecessore, e questo brano di intervista ci fa scorgere un retroscena impressionante di ciò. In particolare, la questione si impernia sul tema della liturgia. È cosa nota che, nel tempo, si è tentato in ogni modo di comporre o contrapporre i due pontificati di Papa Benedetto XVI e di Papa Francesco. Parlando specificamente della visione liturgica, come sarà possibile parlare di continuità, tenendo conto di Traditionis Custodes e delle dichiarazioni di mons. Gänswein?
    Il magistero di un papa può modificare quello del predecessore, nel senso però di un approfondimento e non di una rottura. Effettivamente Benedetto XVI ha fatto un discorso alla Curia Romana, il 22 dicembre 2005, che rimane una pietra miliare: l’innovazione non può andare in discontinuità con la tradizione, sia quanto al modo di intendere il Vaticano II, sia alla liturgia. Altrimenti, chi assicura che un domani la Chiesa non finisca per negare quanto oggi afferma? Ciò renderebbe insicuro l’atto di fede. Quel che era sacro, perciò, come egli ha scritto nel Motu Proprio Summorum Pontificum, resta sacro e non può essere all’improvviso proibito o ritenuto dannoso. Del resto, un’affermazione analoga si trova nella Costituzione Apostolica Missale Romanum, con cui Paolo VI lo promulgò: esso voleva essere una “renovatio”, un nuovo libro liturgico, che esprime e alimenta la fede della Chiesa, che si poggiava su ciò che l’ha preceduto. Se si leva l’“appoggio”, il fondamento del Messale damasiano-gregoriano-tridentino, non sta in piedi nemmeno quello paolino.
     
     
    La sensazione che serpeggia nella Chiesa è quella di una rottura sempre più profonda tra (semplificando) due visioni liturgiche, ecclesiologiche, teologiche. L’ermeneutica della continuità propugnata da Benedetto XVI pare sfumare nella temperie ecclesiale odierna. Al contrario, i sostenitori dell’ermeneutica della rottura stanno uscendo allo scoperto con sempre maggior vigore. Quest’intervista e altre esternazioni di questi giorni sembrano far trasparire questa situazione. È così, o bisogna prendere in considerazione un’altra lettura?
     
    Nel 1999, Pietro Prini scrisse Lo scisma sommerso. L’anno scorso, Antonioli e Verrani Lo scisma emerso.Conflitti, lacerazioni e silenzi nella Chiesa del Terzo Millennio. La storia della Chiesa, sin dal tempo apostolico, ha visto eresie, scismi e para-sinagoghe, per dirla con san Basilio, eppure la Cattolica è qui ancora oggi. Il segreto? Nemmeno troppo: è fondata, anzi unita a Cristo, come il corpo al capo. Quando le membra si ammalano, bisogna prendersene cura tutti, a cominciare dai pastori. Cosi, ha fatto papa Benedetto col suo pensiero e la sua azione, in specie verso i sacerdoti e i seminaristi. La prima cura è la dottrina ovvero l’insegnamento della fede trasmessa dagli apostoli, via via arricchitasi e non depauperata. La seconda cura è la liturgia sacra: altrimenti, come egli ha scritto, dal crollo della liturgia dipende la crisi della Chiesa. Ora, anche grazie a lui, da tanti segni che emergono, il sacro sta rinascendo e il futuro della fede è assicurato.
     
    Alcuni pensano che la morte di Benedetto XVI porterà ad un inasprimento e ad un’accelerazione di una determinata “agenda” all’interno della Chiesa, che avrebbe visto come tappa importante proprio l’abolizione del motu proprio Summorum Pontificum e la messa al bando della liturgia in vetus Ordo. È una preoccupazione fondata? Come si prospetta il futuro prossimo in questo senso?
    Dipende. Ma i pensieri di Dio non sono quelli degli uomini: questi non possono nulla, se un’opera viene da Dio. Sta avvenendo che molti sacerdoti, in tutto il mondo, nonostante le restrizioni, celebrando la Messa in Vetus Ordo, imparano a celebrare con devozione e ordine la Messa ordinaria. Dunque, è già in atto la “riforma della riforma”, auspicata da Joseph Ratzinger. Se nulla accade per caso, tantomeno la morte di papa Benedetto. Gesù, non ha detto che il chicco di grano se muore porta molto frutto? Dobbiamo pregare e procedere con la pazienza dell’amore.
    In allegato il video con sottotitoli in italiano
    Il_motu_proprio_Traditionis_Custodes_“ha_spezzato_il_cuore_a_Papa.mp4
  15. SEM IPC
    L’evangelista Luca, nel prologo del suo vangelo (1,1-4), dichiara: “Poiché molti si sono accinti a comporre una narrazione degli avvenimenti compiuti in mezzo a noi, come ci hanno trasmesso coloro che fin da principio ne sono stati i testimoni oculari, e sono divenuti ministri della parola, è parso bene anche a me, dopo aver fatto diligenti ricerche su tutte queste cose, fin dalle loro origini, narrartele per iscritto, con ordine, o nobile Teofilo, affinché tu riconosca la verità degli insegnamenti che hai ricevuto”. Egli, quindi, intende inquadrare storicamente Gesù e la sua nascita, pertanto fornisce subito la prima coordinata: “Al tempo di re Erode, re della Giudea, c’era un sacerdote chiamato Zaccaria, della classe di Abia…Mentre Zaccaria officiava davanti al Signore nel turno della sua classe, secondo l’usanza del servizio sacerdotale…Compiuti i giorni del suo servizio, tornò a casa. Dopo quei giorni Elisabetta concepì e si tenne nascosta per cinque mesi” (1,5-25). Luca, così, comincia il suo vangelo riportando una tradizione giudeo-cristiana di Gerusalemme, antecedente alla distruzione della città nel 70 d.C. E’ un fatto apparentemente marginale ma storicamente verificabile dai suoi contemporanei: l’angelo Gabriele aveva annunziato al sacerdote Zaccaria, – mentre «esercitava le sue funzioni davanti a Dio, nel turno (in greco taxis) della sua classe (in greco ephemeria)», quella di Abia (Lc 1,5) – che la sua sposa Elisabetta avrebbe concepito un figlio. L’evangelista, rimanda pertanto ad una rotazione disposta da David (cfr.1Cr 24,1-7.19): le ventiquattro classi sacerdotali si avvicendavano in ordine immutabile nel servizio al Tempio da sabato a sabato, due volte l’anno. Questo era noto tra i giudei e quindi nell’ambito dei giudei convertiti al cristianesimo: i giudeo-cristiani. Il turno di Abia a cui accenna Luca, cadeva quell’anno nella seconda settimana del primo mese, Tishri , tra il 22 e il 30 settembre  (il mese lunare non coincide con quello solare, perciò le altre due settimane in questo caso occupano la prima parte di ottobre).  Si veda l’apocrifo Libro dei Giubilei, nel saggio del professor Shemaryahu Talmon, studioso dei rotoli di Qumran  che conobbi a Gerusalemme alla fine degli anni ’90. Il calendario ebraico è suddiviso in dodici mesi lunari, che hanno nomi e durata diversi rispetto a quelli solari; pertanto, ogni due o tre anni, viene aggiunto un altro mese, ridotto quanto a numero di giorni, affinché l’anno abbia la stessa lunghezza di quello solare; esso ha inizio col mese di Tishri, corrispondente appunto al nostro settembre.
    Ma, in quale dei due turni Zaccaria riceve l’annuncio? Ecco che l’evangelista fornisce la seconda coordinata: “Nel sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria…” L’annuncio dell’angelo a Maria avviene nel “sesto mese” del calendario ebraico, Adàr, corrispondente a marzo, verso la fine (Lc 1,28), il 25, nei calendari bizantino e romano. Perché? Perché quel sesto mese è pure il “sesto mese” dalla concezione di Elisabetta. Dunque, quale ultima conseguenza, è attendibile la data del 25 di Kislèw (dicembre), nove mesi dopo il 25 di Adàr (marzo).
    Ma, ecco la terza coordinata di Luca: “Vedi: anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia, ha concepito un figlio e questo è il sesto mese per lei…”(1,26-38).Ora, abbiamo detto che il primo mese del calendario ebraico è Tishri, e che l’annuncio a Zaccaria era avvenuto nell’ultima decade, durante il secondo turno di Zaccaria al Tempio: al 23 settembre lo fisseranno i calendari bizantino e romano. In tal modo si dimostra storica anche la data della nascita di Giovanni Battista nove mesi dopo, corrispondente al 24 di Sivàn (giugno) : “Per Elisabetta intanto si compiva il tempo di partorire e partorì un figlio” (1,57-66).
    La quarta coordinata di Luca, riguarda la visitazione di Maria ad Elisabetta, appena dopo l’Annunciazione: “In quei medesimi giorni, Maria si mise in viaggio, in tutta fretta, per la montagna, verso una città di Giuda; ed entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta…Maria rimase con lei circa tre mesi, poi se ne ritornò a casa sua” (1, 39-56). Probabilmente dopo aver assistito alla nascita di Giovanni.
    La quinta coordinata che ci offre l’evangelista Luca per stabilire l’anno della nascita di Gesù è l’editto di Cesare Augusto: “In quel tempo fu emanato un editto da Cesare Augusto per il censimento di tutto l’impero…E mentre si trovavano là, si compirono i giorni in cui ella doveva avere il bambino, e diede alla luce il suo figlio primogenito…” (2,1-7). Quando è avvenuto il censimento? Ovvero, in quale anno del calendario romano? Il censimento è solo parte della questione della storicità della data del Natale. Non possiamo, ovviamente qui addentrarci nei dettagli su questa vicenda…Ma, anche in questo caso, si deve notare che con troppa facilità si è parlato di errore di calcolo del monaco Dionigi (fine V- inizi VI secolo): egli era stato incaricato dalla Chiesa di Roma di proseguire la compilazione della tavola cronologica della data di Pasqua preparata a suo tempo in Egitto dal vescovo Cirillo Alessandrino. Dionigi però non partì dalla data d’inizio dell’impero di Diocleziano (285 del nostro calendario cristiano) – data che ancora oggi la Chiesa Copta adopera per il computo del suo calendario, cioè l’inizio dell’era dei martiri – ma dall’incarnazione di Gesù Cristo. Sebbene non si conosca esattamente il metodo da lui seguito, come appena detto, da molti è data per assodata la tesi che si sarebbe sbagliato, ponendo la nascita di Gesù “dopo la morte di Erode”, ovvero quattro o sei anni dopo la data in cui sarebbe avvenuta, e che corrisponderebbe al 748 di Roma. Si può dimostrare che invece non è così, perché le obiezioni mosse ai suoi calcoli non tengono conto, per esempio, che Giuseppe Flavio, al quale normalmente ci si riferisce per questa ed altre datazioni, si è sbagliato, e proprio sulla morte di Erode il Grande, in base ad un’eclissi lunare da lui ricordata. Inoltre, gli si imputa di non aver usato lo zero nel computo, cifra che a quel tempo non era stata ancora inventata (Cfr. G.Fedalto, Quando festeggiare il 2000? Problemi di cronologia cristiana, Torino,1998). Dunque la cronologia deve essere ricostruita comparando tavole cronologiche differenti.
    Dionigi, in ogni caso, recepì la data del 25 dicembre che non era stata introdotta arbitrariamente dalle Chiese cristiane. Secondo Tertulliano, Gesù sarebbe nato nel 752 di Roma, 41° anno dell’impero di Augusto.
    Da quanto detto fin qui, ci domandiamo: la data della nascita di Gesù è veramente il 25 dicembre? Che cosa ci permettono di accertare le scienze storiche? Che Gesù sia nato il 25 dicembre, lo afferma con chiarezza per primo il sacerdote Ippolito di Roma nel suo Commento al libro del profeta Daniele, scritto verso il 204 d.C.: lo ha ricordato a tutti Benedetto XVI, nell’Udienza generale del 23 dicembre 2009. Si aggiunga un’omelia di Giovanni Crisostomo sul Natale, nel 386, in cui sostiene che la Chiesa di Roma conosceva il vero giorno (25), perché gli atti del censimento eseguito per ordine di Augusto in Giudea, si conservavano negli archivi pubblici di Roma.
    Ma, soprattutto nella prima metà del secolo scorso, si divulgò, da parte di liturgisti, come Duchesne e Botte, l’idea che il 25 dicembre fosse una data convenzionale, scelta dai cristiani di Roma per sostituire il Dies Natalis Solis Invicti: la nascita del Sole invincibile, perché col solstizio d’inverno, la giornata riprende ad allungarsi. In realtà, soprattutto dopo l’editto di Costantino(313), la Chiesa avrebbe pure potuto essere mossa dal desiderio di valorizzare qualche festa del paganesimo decadente, ma non inventare di sana pianta una data così centrale. Semmai avesse voluto cercare un nesso, sarebbe andata in direzione del 25 di Kislèw, il nostro dicembre, in cui si celebra la ri-dedicazione del Tempio, istituita da Giuda Maccabeo nel 164 a.C. (cfr 1Mac 4,59). Una coincidenza?
    Se Ippolito romano attesta nel 204, che Gesù è nato il 25 dicembre, e la festa del Sol invictus – forse il dio Mitra o l’imperatore – intorno al solstizio invernale, fu introdotta da Eliogabalo nel 218 e poi istituita da Aureliano nel 274, entrambe quindi successivamente, vuol dire che furono i pagani a tentare di oscurare la data del Natale cristiano. I cristiani subirono la celebrazione della festa del Sole invincibile, perché erano perseguitati. Dopo la libertà concessa da Costantino, i cristiani d'Occidente, poterono celebrare il Natale apertamente. Poi, la crisi del paganesimo fece sì che la festa del 'Sole invitto', fosse oscurata da quella del vero “Sole invincibile”, Gesù Cristo. In Oriente i cristiani continuarono a celebrarla il 6 gennaio, perché ritenuta più vicina al loro solstizio. Nel Medioevo si produsse lo scambio: il 25 dicembre fu accolto nel calendario bizantino, come festa di Natale, e il 6 gennaio dal calendario romano, come festa dell’Epifania. 
    Tornando all’annuncio a Zaccaria, nel calendario liturgico siriaco v’è il Subara, il tempo dell’annuncio, costituito da sei domeniche (v. Avvento ambrosiano) la prima dedicata all’annuncio della nascita di Giovanni al padre Zaccaria, celebrato al 23 settembre dal calendario bizantino e dal calendario di Gerusalemme, seguito dalla chiesa latina di Terrasanta. Così i bizantini e i latini conservano al 23 settembre una data storica quasi precisa. Altrettanto dicasi per la data delle feste della natività del Battista, dell’annunciazione a Maria e della natività di Gesù. Si pensi che nel rito bizantino la data dell’Annunciazione prende il posto della domenica e del giovedì santo, e se coincide con la Pasqua si canta metà canone – la composizione poetica propria della festa – dell’una e dell’altra. Dunque, la liturgia della Chiesa, ha fissato e commemorato queste date innanzitutto storicamente (v. la Circoncisione all’ottavo giorno dopo la nascita, la Presentazione al quarantesimo), in special modo il Natale del Signore al 25 dicembre.
    Che la data del Natale sia stata a volte assimilata a quella del 6 gennaio, è dovuto al fatto che il calendario bizantino ricordava un insieme di eventi epifanici (l’arrivo dei Magi, il battesimo al Giordano, le nozze di Cana), ma anche al fatto che le Chiese si comunicavano le date delle celebrazioni e avevano possibilità di verificarne l’attendibilità storica. Luca, infatti, osserva che Gesù al momento del battesimo «stava cominciando quasi i trent’anni» (Lc 3,23): dunque un compleanno di Gesù, il trentesimo. Se Gesù è stato battezzato il 6 gennaio, in quella data trent’anni prima è nato. In origine, come ancora attestano l’oriente bizantino e il breviario romano, il 6 gennaio era la Teofania del Signore alle acque del Giordano. Una tradizione trattenuta dai Padri, ad esempio san Massimo di Torino: «La ragione esige che questa festa segua quella del Natale del Signore, perché i due eventi si verificarono nel medesimo tempo anche se a distanza di anni» (Discorso 100 sull’Epifania, 1; CCL 23,398).
    Dunque, la memoria ininterrotta fu consacrata dalla liturgia, ma il vangelo di Luca, con i suoi accenni a luoghi, date e persone, vi ha contribuito in modo fondamentale.
    I moderni strumenti di indagine permettono di collegare i dati con gli elementi astronomici che ne garantiscono la precisione; si superano così i contrasti tra mondo ebraico e cultura cristiana che possono aver condizionato gli storici, anche per il fatto che gli ebrei non avevano un calendario fisso, ma lo formulavano in base all’osservazione diretta dei vari fenomeni astrali, in specie il novilunio che determinava le feste, per far corrispondere l’anno lunare a quello solare. Ma non di rado tale calendario differiva dalla realtà astronomica (cfr G. Ricciotti, Vita di Gesù (1941), Milano 2006, p. 178ss. Per altri approfondimenti; N. Bux, Gesù il Salvatore. Luoghi e tempi della sua venuta nella storia, Cantagalli, Siena 2009).
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    cattolicesimo e arte
    Sebbene da parte di molti teologi e liturgisti si richiami di frequente il celebre principio lex orandi-lex credendi, a ricordare che tra la fede e la preghiera, tra la dottrina e la liturgia che hanno prodotto la musica e l'arte sacre cristiane, vi sia un nesso indissolubile, assistiamo da decenni alla rottura e discontinuità tra essi. L'innovazione ha cancellato la tradizione, invece di mantenersi in equilibrio con essa, la riforma è diventata rivoluzione, in quanto non è stata condotta in base a criteri di scelta dell'antico. La Chiesa cattolica è a un bivio: o conservare innovando, cioè riproponendo mutatis mutandis, la tradizione delle immagini nel luogo di culto, o replicare malamente l'iconografia orientale oppure l'aniconicità protestante. Ad evitare tale rischio e riparare i guasti ove già consumati, urge la comprensione dell'unità sussistente tra simbolismo liturgico dei riti, loro interpretazione mistagogica e disposizione iconografica. Ne dipende la comprensione della verità cattolica. L'icona è la presenza divina, una finestra sul Mistero, dice l'Oriente slavo: serve per indicare all'uomo: qui c'è Dio. E se c'è Dio, cosa si fa: si deve coltivare il rapporto (colere) con lui: ecco il culto.
      Il card. Thomas Spidlik, uno dei noti teologi cattolici della spiritualità orientale, era contrario alle icone orientali nelle chiese occidentali, perché esse si possono comprendere perfettamente solo nella liturgia orientale; senza questa, le icone sono oggetti certamente belli, straordinari, ma, staccati dal contesto per il quale vengono creati, perdono il loro significato. Si capisce subito che da noi le icone sono estranee al contesto, ma inserite per esotismo. Certamente le icone non riempiono il vuoto creato dalla iconoclastia postconciliare e dalla confusione vigente nella liturgia, anzi, paradossalmente le aggravano; anche perché il popolo non le capisce e non le venera, e noi sappiamo che le icone esistono per essere venerate. Infatti una immagine sacra non è fatta per il gusto dell'artista, ma per la venerazione di colui che rappresenta: il Signore, la Vergine, i Santi. Simbolismo e raffigurazione non sono la stessa cosa, nell'arte come nella liturgia. Così si andarono definendo tre tipologie di immagini cristiane: simbolica, allusiva ai sacramenti e parabole; narrativa, di episodi biblici, evangelici o di santi; iconica, cioè immagini per il culto. Proprio su quest'ultimo tipo si aprì la discussione nell'VIII secolo, sfociato nell'iconoclasmo, con conseguenze drammatiche sulla tenuta della Chiesa d'Oriente; ma fu gradualmente confutato riaffermando il dogma dell'incarnazione, col concilio Niceno II(787), che tra i suoi principali attuatori ebbe san Giovanni Damasceno.  Il padre Rupnik, non so se si sia posto il quesito: dai miei mosaici, il fedele è indotto a venerare i prototipi che rappresentano, o si ferma solo all'ammirazione estetica? Se poi dinanzi ad essi si svolge la liturgia, questa non diventa una "danza vuota intorno al vitello d'oro che siamo noi stessi"(J.Ratzinger)? Si pensi ai mosaici della cripta dove è esposto san Pio da Pietrelcina, che hanno portato ad etichettarla come "tomba di Tutankhamon". C'è un modo, invece, di fare arte sacra, che Dio stesso ha rivelato, che mantiene in unità il rito, l'arte e l'interpretazione della liturgia, per non scadere in "un imparaticcio di usi umani"(Is 29,13), cioè nell'idolatria. L'incarnazione del Verbo - non quella dell'artista - è la condizione senza la quale non ci può essere liturgia e nemmeno iconografia. Ecco delineato lo spirito della liturgia, non solo orientale, collegato al concetto di culto e di liturgia celeste e terrena, al mondo visibile come segno dell'invisibile. Ecco il mistero della presenza sacra nell'icona come, seppur ad altro livello, nell'Eucaristia. Così la presenza divina guarisce l'uomo e lo trasforma in santo, lo santifica. La teologia orientale sostiene la deificazione dell'uomo in Cristo. Se si prescinde da questo e dall'incarnazione del Verbo, la liturgia e l'iconografia scadono nella mitologia. Lo sviluppo in essa dell'allegoria, vuol rendere presente il mistero di Cristo, dal suo ingresso nel mondo al suo ritorno per giudicare il mondo. La liturgia è capace di velare e svelare, di celare e di far capire, perché non è possibile comprendere tutto nello stesso tempo; molte cose si capiranno solo successivamente, dice Gesù agli apostoli. La liturgia e le immagini servono a sentire il "Dio vicino", che è il cuore del cristianesimo, a differenza dell'ebraismo che lo attende ancora o dell'islamismo che lo considera irraggiungibile. Gesù è il Dio vicino, che entra nella vita dell'uomo. Quindi la liturgia e l'iconografia cristiana non possono essere mitologiche o tendenti all'astrazione. Si guardino gli occhi nelle figure di Rupnik: sono indefiniti come quelli dei personaggi disneyani; ciò condiziona le figure, facendo scadere la scena quasi a raffigurazione gnostica.  L'iconofilia che ha preso i latini sa di patologia. Avendo abbandonato o addirittura distrutto la tradizione figurativa occidentale, si cerca di riempire il vuoto, prendendo le icone orientali e mettendole nel nostro contesto culturale: una de-culturazione. L'icona orientale nella liturgia romana è un pesce fuor d'acqua! Eccezion fatta per quelle icone arrivate a noi nel Medioevo quando la liturgia romana era più simile alla bizantina e che hanno avuto la fortuna di godere della venerazione dei fedeli. Si dirà che non favoriamo lo scambio tra l'oriente e l'occidente. Non è così: deve svilupparsi la conoscenza delle rispettive tradizioni, ma rimanendo nella loro differente ricchezza; proprio questo e non il bricolage favorisce lo scambio.
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    Il cristianesimo è un avvenimento, un incontro d'amore.
    E' una esigenza irrinunciabile dell'Incarnazione il continuo scambio tra l'istituzione o autorità e il carisma, tra grazia e libertà.
    Chi ha incontrato questa compagnia, sa che essa è la modalità con cui il mistero di Gesù ha bussato alla sua porta e lo ha portato nella Chiesa: una "compagnia guidata al destino", diceva Giussani.
    Il carisma perché sia pienamente vissuto e realizzato, non può essere gestito in modo intimistico, e l'autorità contribuisce ad assicurare la strada giusta.
    Senza autorità si rischia di andare fuori strada, in una direzione sbagliata.
    Il carisma della compagnia è mantenuto sulla via giusta dal servizio dell'autorità, per la presenza missionaria della Chiesa, per promuovere il cammino cristiano e la formazione umana e spirituale.
    Questi giudizi, in qualche modo, traspaiono anche da alcune delle parole del papa nel discorso a CL il 15 ottobre scorso.
    Peraltro, il discorso nel suo insieme sembra prevedibile nella lode a don Giussani, politico nei riferimenti a Don J. Carròn, deludente dove loda il carisma per normalizzarlo.
    Come altrimenti intendere le affermazioni sull'impoverimento della missione e della presenza? Oppure sulle diverse sensibilità da rispettare perché da esse è fatta l'unità?
    Se, come dice il papa, "i giovani hanno un grande fiuto", bisogna riconoscere, ad esempio, che tanti, provenienti da CL, hanno recuperato il magistero dei grandi padri della Chiesa, stanno riscoprendo il valore della tradizione, frequentano la Messa tradizionale, tutti atteggiamenti figli dell’intuizione del fondatore del movimento.
    Giussani, in controtendenza, amava e formava alla tradizione, per esempio del canto sacro, il gregoriano, la lauda medievale, la polifonia.
    Il papa della Traditionis custodes o l'ha dimenticato o, come in molte occasioni rilevato, si esprime in modo ambiguo.
    Eppure Francesco ha dichiarato di aver letto i libri di Giussani.
    Lo stesso rapporto tra carisma e autorità, che non può essere separato anzi quasi istituzionalizzato, richiama la dottrina del rapporto tra lex credendi e lex orandi, che è alla base della restitutio ad integrum compiuta da Benedetto XVI col motu proprio Summorum Pontificum: «Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso».
    Nella storia della Chiesa c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura.
    Giussani infatti, non sarebbe ‘servo di Dio’ se non avesse tenuto insieme tradizione e innovazione.
    Dunque, o si riconosce che chiunque faccia questa esperienza rivive l’esperienza di CL (e consente che questa sia ancora oggi sperimentabile) – ne sono sorte diverse in Italia e nel mondo – oppure, diversamente da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, ci si adegua alla normalizzazione dei movimenti ecclesiali ai quali in realtà non si crede più, nonostante il gran parlare di sinodalità e di "inediti" dello Spirito Santo.
  18. SEM IPC
    La Conferenza episcopale degli Stati Uniti è solita riunirsi annualmente nel tardo autunno a Baltimora (nel Maryland), prima diocesi cattolica d’oltre oceano (6 novembre 1789). L’appuntamento di quest’anno era particolarmente atteso, perché i vescovi avrebbero scelto il loro nuovo presidente: mons. Timothy Broglio, ordinario militare per gli USA, la cui elezione ha subito scatenato le reazioni della stampa liberal, che ne ha stigmatizzato le posizioni conservatrici. A parte ciò, vorrei richiamare l’attenzione dei lettori italiani sul discorso di commiato tenuto lo scorso 15 novembre dall’arcivescovo di Los Angeles, José Gómez, che ha guidato i vescovi americani dal 2019 fino ad oggi, su come l’evangelizzazione possa contrastare la crescente secolarizzazione della società con una passione ed un ottimismo salutari per la vecchia Europa. Il monsignore, infatti, è convinto che «Non è inevitabile che il nostro Paese cada nel secolarismo. La stragrande maggioranza dei nostri vicini crede ancora in Dio. Decine e decine di milioni di cattolici servono ancora Dio ogni giorno e stiamo facendo una bella differenza nella vita di questo paese. Il nostro popolo cattolico è maestro e guaritore, cercatore di giustizia e di pace. Stiamo servendo i poveri e i vulnerabili, crescendo uomini e donne virtuosi, costruendo comunità e famiglie forti. In tutta questa terra, i cattolici testimoniano la promessa dell'America che tutti gli uomini e le donne sono creati uguali, che siamo fratelli e sorelle sotto un Dio che ci ama». Penso valga la pena, pertanto, scorrerne il testo, segnalando che il testo integrale dell’arcivescovo Gómez, non nuovo in verità a trattare questo tema (si veda, ad esempio, Come si deve comportare il cristiano nella vita pubblica oggi? Una riflessione dell’arcivescovo di Los Angeles Gómez ), è disponibile QUI.
    Nel corso di questo suo ultimo discorso come presidente della Conferenza episcopale degli Stati Uniti, pertanto, l’arcivescovo José Gómez ha esordito sottolineando la rumorosa cultura mediatica che favorisce quella che papa Francesco ha definito «non un'era di cambiamento, ma il cambio di età». Questo cambio di età è «una lotta in corso per il cuore umano», è la riflessione di Gómez, un momento in cui siamo chiamati a una conversione più profonda, alla santità e ha continuato: «La sfida del ministero in questo momento è come mantenere un qualche tipo di prospettiva. Le prove di questa epoca sono spirituali. C'è una lotta in corso per il cuore umano. Questo cambio di età è un momento apostolico, è una nuova apertura per il Vangelo. Tutti noi nella Chiesa siamo chiamati a una conversione più profonda. Tutti noi siamo chiamati a farci avanti e ad aprire ogni porta a Gesù Cristo, a far risplendere la sua luce in ogni area della nostra cultura e società; per portare ogni cuore a un nuovo incontro con il Dio vivente. Nei suoi discorsi di ritiro alla nostra assemblea speciale di giugno, l'arcivescovo Anthony Fisher di Sydney ci ha ricordato la nostra identità e missione di vescovi. Ci ha ricordato che siamo successori degli apostoli, pastori e predicatori, missionari ed evangelizzatori della cultura. E il nostro ruolo è cruciale».
    L’arcivescovo Gómez ha, a questo punto, presentato la testimonianza di due donne e un uomo, ciascuno dei quali ha una causa di beatificazione in corso. Il loro esempio, ha detto, può insegnarci oggi cosa significa far risplendere la luce di Cristo «in ogni ambito della nostra cultura e società».
    La prima è quella della serva di Dio Dorothy Day (1897-1980), che ha scritto una volta: «Ora c'è uno spazio per i santi più grande che mai. Il mondo non è mai stato così organizzato - stampa, radio, istruzione, ricreazione - da distogliere le menti da Cristo. … Siamo tutti chiamati ad essere santi». L’arcivescovo di Los Angeles ha ricordato che «Dorothy Day ha scritto queste parole nei primi anni ‘40, molto prima della grande tecnologia e di Internet, quindi comprendiamo [che] le sfide che affrontiamo oggi non sono una novità». La Serva di Dio Dorothy Day è tra i beniamini di mons. Gómez e la citazione che ha usato tra le sue preferite, avendola usata in precedenza in altri discorsi pubblici. «Ciò che mi colpisce anche delle sue parole è la sua sicurezza», ha detto il presule. «Dorothy Day era convinta che solo i santi possono cambiare il mondo. E aveva ragione. La santità è sempre stata la forza guaritrice nella storia umana. Il Regno cresce attraverso uomini e donne che amano appassionatamente il mondo, come Dio ha tanto amato il mondo». La necessità di oggi, ha detto Gómez, è «creare una nuova generazione di santi, uomini e donne santi in ogni area della vita americana».
    L’arcivescovo si è poi rivolto a quello che ha definito «uno dei momenti più commoventi nella storia di questa conferenza episcopale»: il discorso del giugno 1989 della serva di Dio suor Thea Bowman (1937-1990) all’assemblea, in cui la religiosa esortava all'unità della Chiesa, per «costruire insieme una città santa, una nuova Gerusalemme, dove sapranno che siamo Suoi perché ci amiamo». Gómez ha commentato: «Fratelli, ecco di cosa tratta questo momento; si tratta di ricordare che siamo in questo insieme, che apparteniamo a Dio e che siamo chiamati ad essere santi. Si tratta di ognuno di noi che fa ciò a cui Dio ci chiama per costruire il Suo regno».
    L’unità della Chiesa si fonda sull’Eucaristia, ha continuato l’arcivescovo. «Ciò che ci tiene uniti, ciò che ci rende uno, è l’Eucaristia, motivo per cui il nostro movimento di revival eucaristico è così importante. L’Eucaristia è il mistero dell’amore del nostro creatore, del suo desiderio di condividere la sua vita divina in amicizia con ciascuno di noi; quindi apriamo le porte in tutte le nostre chiese, invitiamo la nostra gente a tornare, per vedere quanto Gesù li ama».
    L’ultima riflessione dell’arcivescovo Gómez a Baltimora è stata ispirata dalla testimonianza del venerabile Frederic Baraga (1797-1868), primo vescovo di quella che oggi è la diocesi di Marquette (in Michigan). Incisa sul muro di una cappella nella basilica del santuario nazionale dell’Immacolata Concezione c’è questa sua preghiera: «Questo è tutto ciò che desidero, essere dove Dio vuole che io sia». «Fratelli», ha quindi concluso Gómez, «abbiamo un solo desiderio, essere dove Dio vuole che siamo, e fare ciò a cui Dio ci chiama».
  19. SEM IPC
    La nostra rivista Liturgia culmen et fons ha trattato di una questione grave e di sempre più urgente considerazione: la disciplina liturgica.
    Infatti sembra che il dettato conciliare, che nella Costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium si esprime con queste precise parole:
    … Di conseguenza assolutamente nessun altro, anche se sacerdote, osi, di sua iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica (SC 22).
    sia largamente sconosciuto e quindi disatteso, anzi pare che da alcuni sia ormai ritenuto inadeguato e del tutto superato in nome di una creatività libera, relativa ai mutevolissimi contesti ‘pastorali’ in cui si celebra. Da ciò la confusione liturgica in cui versa una larga parte delle comunità cristiane, ma soprattutto il danno di una mentalità libertaria ormai pervasiva nel tessuto ecclesiale.
    L’articolo di fondo della suddetta Rivista, corredato dalle successive integrazioni nelle risposte al lettore, richiede alcune considerazioni previe, che qui esponiamo.
    1.         Per ritus et preces (SC 48)
    Con la breve locuzione per ritus et preces la Chiesa riconosce la necessità intrinseca della disciplina liturgica per l’identità stessa del culto cattolico, che non può realizzarsi in una libera creatività soggettiva, ma deve sottostare al rigore di preci precise e riti ben definiti.
    Se ben si pensa l’espressione per ritus et preces non fa che ricondurre ad altre analoghe e ben note locuzioni: gli eventi e le parole che costituiscono la storia della salvezza (DV 2); la materia e la forma dei Sacramenti; le rubriche e i testi dei libri liturgici, ma ancor più in radice il gesto e la parola del linguaggio umano.
    Come non è possibile prescindere da queste leggi della comunicazione, basate sull’indissolubile legame tra il gesto e la parola, che lo definisce ed interpreta, così non è concesso di poter celebrare un culto liturgico vero e pieno, senza l’apporto congiunto dei riti e delle preci.
    A questa legge si sottopose il Signore che, mediante l’Incarnazione, assunse il linguaggio umano con gesti e parole intimamente connessi. La liturgia infatti attualizza continuamente quei gesti salvifici e quelle parole di grazia, che il Kyrios, ora nel suo corpo glorificato, pone e pronunzia nell’‘Oggi’ del nostro tempo.
     
    2.         Il Soggetto della liturgia
    Qual è il soggetto agente nelle azioni liturgiche? Dalla risposta a questa domanda dipende la promozione o la dissoluzione dell’intero complesso liturgico.
    La risposta è inequivocabile: la liturgia ha come Soggetto Cristo Gesù, indissolubilmente unito alla Chiesa, sua sposa. Ogni atto liturgico è perciò un atto di Cristo e della Chiesa. Questo distinto ed inscindibile Soggetto stabilisce i riti e le preci. Nessun altro potrà creare o mutare quei riti e quelle preci che ha stabilito direttamente il Signore o che nel suo nome avrà stabilito la Chiesa.
    Se si accetta questa verità, si libera la mente da ogni tentazione di voler creare un culto soggettivo conforme alle sensibilità effimere delle persone e delle contingenze. La Chiesa sa che soltanto il culto del Figlio unigenito e della Chiesa sua sposa gode dell’accesso alla maestà divina ed ottiene il balsamo della santificazione. Il fedele ben formato sa che la sua preghiera individuale ha un unico accesso a Dio, quello di fondersi umilmente nell’unico culto valido ed efficace, quello di Cristo e della Chiesa. Qui sta il segreto profondo della actuosa participatio (SC 11) alla liturgia.
    In tal senso emerge il carattere teocentrico della liturgia e decade la sua mistificazione nell’antropocentrismo imperante.
    Coloro che hanno compreso questa verità accettano di buon grado la disciplina liturgica, perché sanno che in tal modo ricevono il pensiero di Cristo e offrono un culto autentico in mistica unione con la preghiera del sommo nostro Sacerdote, che officia perennemente sull’altare celeste.
     
    3.         La Tradizione liturgica
    Allo stesso modo che noi veniamo a contatto col depositum fidei, consegnato una volta e per sempre agli Apostoli e trasmesso di generazione in generazione nella perenne Tradizione apostolica, riceviamo pure dalla medesima Tradizione il depositum gratiae, ossia quel culto immacolato che il Signore ha consegnato alla sua Chiesa perché glorifichi la Trinità divina con il medesimo culto, puro e santo, che fu il Suo qui sulla terra ed ora arde perenne sull’altare d’oro del Cielo.         
    La Tradizione è dunque intrinseca alla liturgia cattolica, al punto che, fuori di questa, si esce dal contatto vivo col flusso soprannaturale della Grazia, che pervade unicamente il culto del Figlio di Dio, incarnato e glorificato.
    Come non è possibile aggiungere alcunché alla divina Rivelazione dopo la sua chiusura con la morte dell’ultimo Apostolo, così non è possibile ricreare o modificare oggi la liturgia su basi umane ed effimere. Il dogma della fede e la sostanza della liturgia sono perenni e si attingono unicamente con la recezione fedele della loro forma nella continuità della Tradizione apostolica.
    Il rigetto della Tradizione è dunque il rigetto di Cristo, che dalla Tradizione ci è consegnato e nella Tradizione opera nel tempo la sua azione santificante. Lo Spirito Santo stesso interviene soltanto lì dove è annunziato ed opera il Logos ed agisce sempre in conformità a quel depositum fidei et gratiae, che il Signore Gesù Cristo ci ha consegnato una volta e per sempre nella pienezza del tempo della sua vita sulla terra.
    In tale senso si deve intendere il carattere tradizionale della liturgia.
    Ogni sviluppo liturgico è legittimo se nella fedeltà al depositum apostolico e ogni apporto nei secoli deve esibire la sua conformità ad esso. Effettivamente grande fu lo sviluppo della liturgia cattolica, ma soltanto nella linea di quella verità più piena e di quella esplicitazione coerente suscitate dallo Spirito Santo nel cammino della Chiesa verso il compimento definitivo.
    Tali apporti, vagliati dal Magistero autentico della Chiesa, rappresentano tappe imprescindibili nell’organismo vivo della liturgia e, nella loro più intima sostanza (SC 21), non possono regredire, ma solo ricevere una maggior purificazione in vista di una più splendida maturazione.
    Ed ecco che il monumentum secolare della disciplina liturgica, nella complessità e nell’ordine dei suoi ingredienti, definisce con rigore, conserva con cura e difende con ardore la presenza, il pensiero e il culto del Kyrios, immolato e glorioso.
     
    Fatte queste tre considerazioni previe vi invitiamo alla lettura e alla riflessione sul tema della disciplina liturgica, offerto nella rivista Liturgia culmen et fons (n. 3 del 2022 qui in allegato).
    La disciplina liturgica.docx
  20. SEM IPC
    I “nostri vecchi” – tra i quali anche i nostri genitori, se erano come si diceva una volta
    persone “religiose”, che non perdevano mai una Messa alla domenica e magari neanche in
    giorno feriale – avevano una grande fiducia in quella che chiamavano “la Provvidenza”. E
    questa arrivava puntualmente, quasi cronometricamente, sempre al momento giusto, per
    aiutarli a risolvere una situazione delicata, materiale o di coscienza che fosse. Loro non
    avevano la pretesa di pilotarla; semplicemente si fidavano, perché sapevano che il Signore
    c’è e “provvede”; anche quando fa in modo diverso da quello che a noi sembrava dovesse
    fare. Alla fine si vedeva che aveva avuto ragione Lui. Non c’erano dubbi.
    La loro fede, come ogni fede cristiana seria, insegnava loro che non esistiamo solo noi “di
    qua”, come se il mondo fosse solo una faccenda di materia. O di energia cosmica (oggi fin
    troppo di moda), che è una “roba pagana”, che identifica Dio con il cosmo, mentre Dio è
    spirito trascendente, infinitamente superiore all’universo, che è opera della Sua creazione e
    gli è inferiore e sottoposto, non potendo neppure esistere se Dio non lo volesse e non lo
    “tenesse su”.
    Per i “nostri vecchi” era normale tenere sempre presente che noi, qui sulla terra, siamo
    “quattro gatti”, e la maggior parte dell’umanità è quella che vive “al di là”, ed è stata “di qua”
    solo negli anni, nei secoli passati della storia. E poi si ricordavano sempre, in ogni momento,
    e non solo qualche volta (magari quando pregavano), ma sempre che ci sono gli Angeli, che
    per ognuno di noi c’è l’Angelo Custode che ti sta vicino sempre, senza distrarsi, per
    proteggerti. Capita anche a noi di essere acciuffati per i capelli e risparmiati da un incidente
    che stava per succederci, o di venir fuori da una malattia seria che poteva portarci via. O di
    essere stati guidati, diciamo pure illuminati, a prendere la decisione giusta al momento giusto.
    Magari non ci pensiamo e non ce ne accorgiamo e tutto ci sembra essere avvenuto per caso o
    per un ignoto “meccanismo”. Loro, invece, i “nostri vecchi” sapevano bene che dietro tutto
    c’è “la Provvidenza”; e ne ringraziavano il Signore. E poi con gli esseri umani che sono “di
    là” e con gli Angeli, ci sono Dio, Padre, Figlio (Gesù Cristo, il Verbo fatto carne) e lo Spirito
    Santo, e la Madonna, la Madre di Gesù Cristo, la Madre di Dio. Per loro era normale avere
    presente che la “realtà” comprende tutti questi – che ci sono per davvero e ci fanno
    compagnia anche quando siamo soli in casa – e non c’è appena quello che vediamo,
    tocchiamo, ascoltiamo, mangiamo, respiriamo, in quei pochi anni della nostra esistenza
    terrena.
    Quello che c’è qui non è che la punta dell’iceberg; il “grosso” è “di là” ed è su quello che
    occorre imparare a contare.
    Per cui non sarà poi così tragico se un giorno ci andremo anche noi: basta essere ben
    consapevoli e preparati, per non perdere “il treno giusto” che ci porta alla beatitudine eterna.
    Se qui ragioni e vivi come se Dio non ci fosse, dopo un po’ finisci per stare male, perché ti
    manca il Fondamento di tutto, il senso delle cose; e se non te ne accorgi per tempo sarà così
    per l’eternità e ti mangerai per sempre le mani per avere voluto prendere la strada delle sole
    apparenze. Per te sarà per sempre come se Dio non ci fosse, perché saprai che c’è, ma non
    l’hai voluto e hai diritto, anzi l’obbligo, di continuare a non averlo… ma è l’Inferno!
    Allora i “nostri vecchi” avevano ragione e conviene imparare a ragionare e a vivere con la
    stessa visione delle cose che hanno avuto loro, che è più cristiana e più umana. Provare per
    credere!
  21. SEM IPC
    Ettore Gotti Tedeschi interviene circa il libro di Stefano Fontana "Ateismo cattolico?". Parte da un testo di Marcello Pera che legge S. Agostino e Kant, ritenendo che quest'ultimo volesse unire Ragione e Scrittura. Kant era un uomo religiosissimo ma non cattolico. Un utile stimolo alla riflessione.
    Mi riferisco all’articolo di Nicola Barile, con cui commenta il libro di S.Fontana, (non ancora letto : "Ateismo cattolico?"). Barile riprende  opportunamente una considerazione di Fontana su Kant (“l’esaltazione della religione  in Kant non è veramente tale essendo essa non altro che un nome diverso per una morale pienamente autonoma , una esigenza  o una condizione della morale . ”) lasciando  intendere ( se son riuscito a ben capire ), che questa affermazione avrebbe fatto inorridire Kant, che credeva in una morale oggettiva ,non in una morale  autoprodotta  dall’individuo . Appunto.
    Non entro nella valutazione per "incompetenza filosofica" e senza volere minimamente offrire una  mia alternativa di pensiero, ma, al fine di capire meglio e approfondire il rapporto tra Kant e cristianesimo,  propongo al lettore de Il Pensiero Cattolico , la lettura dell’ultimo  libro  scritto  dal  prof. Marcello Pera , filosofo  e amico ( già  Presidente del Senato, autore del libro “Senza Radici” , scritto nel 2005 con J.Ratzinger  e del libro “Perché dobbiamo dirci cristiani “ del 2008 , con prefazione di Papa Benedetto XVI    ) ,  che è parcheggiato nel “Cortile dei Gentili “ da qualche tempo  , aspettando di esser invitato ad entrare… ,ma  non trova più neppure il custode del  cosiddetto  Cortile. Cortile  che  forse è stato chiuso definitivamente da qualche anno …
    Marcello Pera  ha pubblicato nel settembre 2022 (con Morcelliana ) il saggio “Lo sguardo della Caduta . Agostino e la superbia del secolarismo”, dove affronta anche l’influenza di S.Agostino su Kant ( i commenti che seguono son frutto solo del mio tentativo di comprensione dello scritto di MarcelloPera). Ciò esplorando il rapporto che Kant aveva con il cristianesimo, che non pretendeva di correggere, bensì di presentarlo alla ragione, di spiegarlo e comunicarlo,  perché (secondo Kant) se il cristianesimo venisse  ricondotto nei limiti della ragione,  la fede cristiana potrebbe trovare la capacità di  esser universalmente condivisa in modo convincente. Kant  riconosceva che il cristianesimo era la miglior religione  e più adeguata, poiché la morale della -ragion pratica- è deontologica e si fonda sul dovere di essere santo, in un regime di libertà personale . Poiché per Agostino lo “Sguardo sulla Caduta “ è l’essenza del Cristianesimo, la strategia di Kant si direbbe esser stata quella di portare il peccato originale a esser inteso per mezzo della ragione , con aiuto della grazia . Kant intendeva razionalizzare il Cristianesimo, sinergizzandosi  con il progetto di Agostino di  cristianizzare la Ragione.
    L’intenzione di Kant appare essere quella di provare l’unità tra Ragione e Scrittura .
    Marcello Pera  ricorda al lettore che le diffidenze verso Kant son spesso state diffidenze anche verso Agostino . Kant  è troppo ottimista e confida troppo nella ragione , mentre  Agostino è troppo pessimista e confida “troppo” nella fede .  Ma Agostino vinse la battaglia fondando (grazie alla sua fede ) una dottrina e cultura cristiana (“ La Carta dell’Occidente “), Kant invece non riuscì nel suo progetto di unire Ragione e Scrittura .
    EttoreGottiTedeschi
  22. SEM IPC
    Il nuovo libro di S. Fontana, Ateismo cattolico? Quando le idee sono fuorvianti per la fede (Fede & Cultura, Verona 2022), propone la nozione di «ateismo cattolico» per spiegare una certa deriva della fede cattolica: lo fa attraverso nove capitoli, più o meno della stessa lunghezza, anche se non di uguale importanza. Il lettore può leggere il cuore della proposta di Fontana nell’introduzione e, soprattutto, nei primi due capitoli, che definiscono cosa sia appunto l’«ateismo cattolico» (pp. 5-48).
    I capitoli successivi sono più che altro una applicazione del concetto di «ateismo cattolico» a una serie eterogenea di vicende e protagonisti del mondo cattolico (dal magistero sociale postconciliare alla scuola parentale, da Dante a Chesterton), non selezionati secondo un criterio evidente (per esempio, quello cronologico), né sempre chiaramente connessi con l’argomento principale dell’«ateismo cattolico» (si veda, ad esempio, il capitolo sul magistero sociale postconciliare, pp. 125-143), sicché si ha piuttosto l’impressione di scritti  ripubblicati per l’occasione di questo volume.
    Ma cos’è l’«ateismo cattolico», secondo Fontana? E perché è seguito nel titolo da un punto interrogativo? In effetti, il punto interrogativo si rende necessario per la contraddizione della nozione proposta, che mette insieme due elementi apparentemente in contrasto fra loro (la fede e la sua negazione, ovvero l’ateismo). Questo accade, secondo Fontana, quando la fede, per costruire la sua teologia, si avvale di uno strumento filosofico inadeguato o addirittura fuorviante, che deforma dall’interno la comprensione delle verità di fede, svuotandola dei suoi contenuti e mantenendola così solo nel suo aspetto soggettivo, senza che ci sia la possibilità di recedere da tale tentativo, perché si tratta di gesto condiviso, in quanto ritenuto in conformità con lo spirito del tempo.
    Viene immediatamente da pensare al filosofo ed economista Karl Marx, ritenuto ancora in pieno XX secolo «uno degli ultimi pensatori scolastici», per la sofisticata articolazione del suo metodo dialettico, in realtà incompatibile con la fede cristiana. Fontana, invece, si sofferma su autori già da lui considerati, come l’illuminista Immanuel Kant, perché «l’esaltazione della religione in Kant non è veramente tale, essendo essa non altro che un nome diverso per una morale pienamente autonoma, una esigenza o una condizione della morale» (p. 56). È un’affermazione che sconta ancora una interpretazione dell’illuminismo come età ostile al cattolicesimo, non del tutto supportata, tuttavia, dalla storiografia. Fontana, mettendo praticamente sullo stesso piano la morale elaborata da Kant e l’autonomia proclamata dal liberalismo contemporaneo, avrebbe semplicemente fatto inorridire il filosofo illuminista, che credeva pur sempre in una morale oggettiva («ragione pratica») che l’autonomia ci dà i mezzi e l’opportunità di seguire, non già in una morale autoprodotta dalle scelte private dell’individuo.
    La più sofisticata analisi delle tracce di ateismo cattolico, se l’ho intesa rettamente, si trova forse nel capitolo su Dante (pp. 108-124) o, meglio, su come lo storico della filosofia cattolico Étienne Gilson ha interpretato un passo della Monarchia del grande poeta medievale (III, 16), là dove si legge che l’uomo possiede due fini ultimi, uno da conseguire in questa vita, prima della morte, l’altro nella vita futura, dopo la morte. Gilson nota giustamente che, secondo il De regimine principum di San Tommaso d’Aquino, l’uomo ha invece un solo fine ultimo: la beatitudine eterna, cui è chiamato da Dio e che può attingere solo per mezzo della Chiesa, fuori della quale non c’è salvezza. Questa è, appunto, la ragione per cui i prìncipi di questo mondo sono sottomessi al papa, come a Gesù stesso, di cui questi è il vicario.
    Dante rifiuta questa conclusione; per questo motivo, eleva anche il fine della vita politica alla dignità di fine ultimo, facendo così del potere imperiale una autorità senza appello nel proprio ordine, come lo è il pontefice romano. Ha dunque Dante anticipato la laicità e l’autonomia della politica, emancipando l’imperatore dal papa?
    Credo che la contraddizione rilevata da Gilson, e sottolineata da Fontana, tra San Tommaso e Dante si possa risolvere se si pensa che, nel medioevo, era generalmente ammessa l’origine del potere imperiale dai bisogni umani e dall’umana convivenza, come insegnato dal diritto romano; per San Tommaso era però pericoloso ammettere l’esclusione dell’origine immediatamente divina del potere ecclesiastico per quel che riguardava il papato.
    Non la pensa così Dante, la cui Monarchia, invece, di tomistico conserva le distinzioni del diritto in divino, naturale ed umano, i concetti di beatitudine terrena ed eterna come finalità dello stato celeste e di quello terreno, l’ideale monarchico, l’idea cattolica della dominazione universale e, soprattutto, l’intero apparato della dimostrazione teologica e deduttiva, ma non la fede politica. Ma questo è, evidentemente, un altro discorso, che riguarda l’interpretazione della Monarchia.    
    A parte questi rilievi, suggeriti dalla stimolante lettura dell’Ateismo cattolico?, per i numerosi spunti di riflessione e le occasioni di approfondimento offerti, il lettore, pertanto, può ben rendersi conto della fecondità del libro di Fontana, che racchiude, in definitiva, il senso della stessa fecondità della risposta positiva della filosofia di San Tommaso alla domanda se esista qualcosa; rispondendo negativamente, l’ateismo cattolico nasce invece già morto.
     
  23. SEM IPC
    Il libro di K. La vera obbedienza nella Chiesa come gli altri suoi scritti su OnePeterFive, è un testo battagliero, scritto con piglio polemico e vivace, di sicuro ambito tradizionalista (anche se riflette un certo tradizionalismo), ma non privo dei consueti difetti dell'autore. Ovvero una certa superficialità e la tendenza a semplificare. Un premessa è d'obbligo. K. dice che l'obbedienza ai propri superiori nella Chiesa deve essere subordinata alla 1) fiducia riposta o meno in essi e 2) alla legittima subordinazione ovvero al riconoscimento dei costumi e delle tradizioni (sic! vedi pp. 8-9). Dove ricavi questi due criteri molto personali, non lo spiega chiaramente: certamente, non appartengono al Magistero, che dice altro a tal proposito, ma, piuttosto, sembrano due principii molto arbitrari o, meglio, scelti per tirare certe conclusioni.   
    Sorvolando quindi sui temi della liturgia, dove il rito nuovo è interpretato in termini esclusivamente negativi in chiave lefebvriana (p. 26), bisogna soffermarsi sul luogo comune del "bene comune" (si scusi il bisticcio) contrapposto all'autorità che scientemente vìola tale bene, così come esposto da S. Tommaso (pp. 16-17). E', a sua volta, un luogo comune ricorrere a questo argomento ma, se si legge con attenzione il filosofo medievale, senza estrapolare frasi dal ricco contesto, si vede bene come il bene comune (in senso politico, va aggiunto, ovvero la famiglia e l'individuo) ha bisogno dell'autorità e della responsabilità della legge umana e del governo per prosperare, che ne assicurino cioè la protezione. Dunque non si possono contrapporre tout court bene comune e autorità. Anche perché ai tempi di S. Tommaso, contrapporsi all'autorità significava ribellarsi  ai potenti baroni feudali.  
    Lo stesso vale per un altro esempio portato dall'autore e cioè quello del rapporto fra l'autorità e il fedele e la subordinazione del figlio nei confronti del padre (pp. 7-8, 11-12). Secondo K. il modello è il medesimo. Il fedele/figlio può disobbedire all'autorità/genitore se il comando ricevuto va contro la legge divina o naturale. Ma questa interpretazione di Ef 6, 1, a ben vedere, non ha nulla di rivoluzionario: il comando di obbedire non è mai assoluto ma, diversamente da quanto la gente pensa di solito, condizionato: va cioè sempre confrontato con il contenuto della legge divina e/o quella naturale: perché «dobbiamo ubbidire a Dio, piuttosto che agli uomini», come dice san Pietro (At 5,29).
    Allo stesso modo, allora, siamo obbligati ad accettare l'insegnamento non infallibile del romano pontefice (perché è di questo che si vuol parlare, sostanzialmente) solo a condizione che agisca nell'ambito della sua autorità secondo la legge divina. Se insegnasse qualcosa di contrario a una legge superiore in cui credere, allora l'obbligo di dare il consenso religioso a questo insegnamento cederebbe all'obbligo più severo che obbliga i fedeli a credere alla parola di Dio e - punto assai cruciale, trascurato da K. - ad attenersi all'insegnamento infallibile della Chiesa. Questo è il punto. Non ribellarsi tout court e basta. Se no veramente l'obbedienza non è più una virtù, per parafrasare un altro testo d'altri tempi.
     
    A queste puntualizzazioni vanno aggiunte queste altre di tipo canonistico.
    K. sembra distaccarsi dalla nozione di comunione ecclesiale, concependo il rapporto tra fedeli e Pastori in termini puramente dialettici e di contrapposizione. Il can. 212 del Codice di Diritto Canonico offre norme di sapiente equilibrio. Il primo paragrafo ricorda che i fedeli, in modo responsabile, ossia "consapevoli della propria responsabilità" sono tenuti ad osservare "con cristiana obbedienza" ciò che i sacri Pastori, in quanto (e nella misura in cui) "rappresentano Cristo", dichiarano "come maestri della fede o dispongono come capi della Chiesa". D'altra parte il secondo paragrafo sancisce che i fedeli sono liberi di manifestare ai Pastori della Chiesa le proprie necessità, soprattutto spirituali, e i propri desideri. Il terzo paragrafo poi addirittura prevede che i fedeli, in rapporto alla scienza, alla competenza e al prestigio di ciascuno, abbiano non solo il diritto, ma addirittura il dovere di manifestare ai sacri Pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa e di renderlo noto agli altri fedeli, fatti salvi l'integrità della fede, dei costumi e il rispetto verso i Pastori, tenendo presente l'utilità comune e la dignità delle persone.
    Come si vede, la stessa normativa è piuttosto larga nel riconoscere ai fedeli non solo il diritto ma addirittura il dovere di intervenire nelle discussioni relative al bene della Chiesa, avendo però come presupposti "scienza, competenza e prestigio" (evitando le chiacchiere da bar), ed usando modalità che siano rispettose non solo per i Pastori, ma per la dignità di ogni persona, e naturalmente nei limiti di una fede e di costumi integri. L'obbedienza non si oppone quindi alla coscienza e alla responsabilità, che incombe a ciascuno, che sia però dotato di una adeguata scienza e competenza e che sappia mantenersi nell'ambito di uno stile di autentica comunione. Questa norma deve esser poi letta con quelle successive, relative ai diritti e ai doveri dei fedeli, ossia fino al can. 223 compreso. Atti di ribellione, di disprezzo delle norme e dei provvedimenti, al di fuori dei legittimi canali di impugnazione, non solo non appartengono ad una logica di comunione, ma si distaccano anche dal principio di realtà, perché portano inevitabilmente all'applicazione di sanzioni, anche gravi e gravissime, che è utopico pensare possano essere superate in un fantasioso prossimo futuro. Purtroppo molti tendono a farsi una Chiesa immaginaria, contrapposta a quella reale, fatta di santi e peccatori, come noi tutti siamo.
    Insomma: K. va letto perché ha sovente buoni spunti di riflessione, ma non andrebbe consigliato, soprattutto a chi non dispone delle chiavi di lettura adeguate per affrontare un autore che è un sincero cristiano, indubbiamente coinvolgente, in quanto schiettamente militante, ma non sempre edificante per il suo piglio rivoluzionario, soprattutto per i tanti perplessi di oggi. 
  24. SEM IPC
    L’uomo come componente del sistema naturale e sociale esprime il bisogno di  benessere e libertà nel proprio mondo di appartenenza. L’ambiente sarà capace di rispondere a tali bisogni fintanto che le risorse messe a disposizione sono impiegate fruttuosamente con gli strumenti offerti dalla conoscenza scientifica. Sarà possibile superare i vincoli dello spazio e del tempo con i vettori di locomozione e con le comunicazioni on-line, inoltre lo stato di salute è sempre stato oggetto di interesse da una medicina in continua evoluzione. Dai risultati finora ottenuti è necessario chiedersi se il progresso della scienza ha dato delle risposte 
    confacenti ai bisogni umani e quali certezze occorre trovare per dare fiducia alla scienza. L’esperienza mette in gioco la ragione per giudicare quanto i risultati della scienza siano limitati.
     
    L’uomo non può sottrarsi agli interrogativi sulla  vivibilità  in rapporto con la realtà. Per la sua stessa natura è portato a orientare il pensiero come determinato alla vita consona ai bisogni dell’esistenza.
    Il confronto con la realtà circoscritta all’ambiente circostante ha reso l’essere umano capace di percepire e individuare gli elementi che determinano  tale realtà come componenti di un sistema vitale. Quanto più il sistema ambiente viene investito da una conoscenza profonda tanto più si evolve la percezione di un sistema dinamico rivolto a trasformare le stesse condizioni di vita dell’uomo.      
    In termini espliciti l’ambiente è riconosciuto come un sistema in quanto è composto da un insieme di elementi tra essi collegati e in continua interazione quali le specie viventi, il clima e le risorse naturali che influenzano il ciclo della vita.
    Il termine ambiente viene inoltre utilizzato in senso ampio: l’ambiente viene definito non solo in riferimento a un singolo organismo, bensì a tutti gli organismi che vivono sul pianeta Terra, pertanto non è inteso solo ad una zona circoscritta bensì all'intero pianeta e alle sue particolari caratteristiche che permettono l'esistenza della vita.
    L’essere umano, parte integrante dell’ambiente, esprime il relativo rapporto con diverse modalità tra i quali assume una notevole rilevanza il lavoro.
    Il lavoro, artefice di mutamenti ambientali, ha subìto nel tempo una evoluzione così da assumere una funzione determinante in termini di efficienza nella realizzazione dei programmi della produzione di beni e servizi.
    Questa evoluzione si è manifestata prevalentemente sul piano tecnologico attraverso l’automazione.
    A questo punto il confronto con l’ambiente naturale ha subìto un notevole  cambiamento nel tempo passando sul piano operativo da una attività prettamente artigianale ad una attività tecnologicamente avanzata al punto da configurare un proprio ambiente tecnologico ampiamente digitalizzato.
    Attraverso il lavoro quale posizione può assumere l’uomo in rapporto con l’ambiente?
    Sembra definito un rapporto di dominio rimarcando un ambiente naturale percepito come una realtà esterna da cui ricavare quanto necessario per il nutrimento, il vestito, la costruzione di abitazioni, di quanto ci si sente padroni sfruttandone materiali ed energia.
    Questo rapporto con l’ambiente, inteso in senso ampio col mondo circostante, viene espresso in termini di opportunità per stabilire un equilibrio che  collochi l’essere umano in una posizione di vantaggio in termini di potere e di dominio sulle risorse che il mondo può riservare.
    Occorre comunque riscoprire il valore dell’aforisma attribuito a Charles Darwin “ il lavoro nobilita l’uomo”.
    Letteralmente significa “elevare al rango di nobile, conferendo o trasmettendo un titolo di nobiltà”, in senso figurativo indica “sollevare spiritualmente, conferire dignità morale”.
    A tal proposito, riguardo al lavoro, occorre citare la sacra scrittura: Genesi 2,1-4 “Così furono portati a compimento il cielo e la terra e tutte le loro schiere.
    Dio, nel settimo giorno, portò a compimento il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro”.
    Dio si rivela all’uomo per mezzo del suo lavoro. Tramite la rivelazione naturale, l’esistenza di Dio viene resa nota ad ogni uomo sulla Terra.   Dio creò l’uomo a sua immagine e gli affidò il compito di lavorare responsabilmente il giardino di Eden. Osserviamo che le due cose, creazione a immagine di Dio e lavoro, sono strettamente collegate. Infatti, a nessuno degli animali il Creatore affidò un compito così importante, solo all’uomo, dal momento che questi soltanto è stato creato a sua immagine e somiglianza.
    Il  lavoro, dunque, rivela qualcosa della persona che lo svolge: ne espone il carattere, le motivazioni, i talenti, le capacità e i tratti della personalità.
    La giusta dimensione del faticare dell’uomo viene ristabilita nella riflessione biblica. Il lavoro viene presentato come una necessità per l’uomo e va interpretato alla luce di un corretto rapporto con Dio: non deve diventare un idolo, il solo scopo della vita, un valore assoluto.
    Sorge l’interrogativo: quale significato può assumere il lavoro quando viene orientato esclusivamente al profitto e al progresso scientifico?
    In questo orientamento quale ruolo può assumere il lavoro nel contenuto manuale e intellettuale?
    Non va sottaciuto che il lavoro manuale ma prevalentemente  intellettuale è interessato, per diversi gradi, dagli effetti della innovazione tecnologica  o dalla scienza applicata.
     Le innovazioni tecnologiche vanno ricercate nelle cause delle incalzanti applicazioni scientifiche responsabili di attribuire un nuovo rapporto tra l’uomo e la realtà in cui vive.
    La pervasività degli effetti scientifici nell’attività umana ha raggiunto limiti inimmaginabili al secolo scorso nell’ambito biologico e, in termini ampi, in quello sanitario e delle comunicazioni sociali interessando gli aspetti essenziali della vita umana e della libertà.
    Pertanto è necessario citare i ritrovati della genetica giunta alla clonazione di una pecora, il trapianto di tessuti degli organi di feti abortiti, senza ignorare la diffusione delle comunicazioni  via social che  ha reso possibile una intrusione nella vita privata degli individui, quale esempio la comparsa degli strumenti digitali sempre più sofisticati che finiranno ad  assumere una configurazione estesa inglobata nel così detto Metaverso
    Restano pesanti dubbi sulla liceità dei processi scientifici rivolti a perseguire orientamenti in contrasto con l’inviolabilità dei principi etici.
    Questo scenario rispecchia l’attuale conoscenza scientifica: prefigurando lo sguardo sulla natura e sulla realtà sociale come  un atteggiamento da spettatore con cui vengono studiate le leggi sul piano  qualitativo e quantitativo, relegando l’aspetto morale dell’esperienza umana come un fatto privato e personale, del tutto avulso dalla ricerca scientifica.
    Cosa ne deriva da questa impostazione?
    La risposta viene evidenziata da Erich Fromm: “ la scienza attuale ha un carattere necrofilo, cioè distruttivo nei confronti della natura. Il dramma ecologico ne è la più evidente espressione. Il principio analitico ha in sé un processo di divisione, un insieme viene fatto a pezzi e poi mi restano in mano le parti. Se tento di ricomporle ottengo una macchina, una sintesi artificiale, ma non una realtà vivente.”
    A tal punto la ragione può rivelare quale criterio può determinare la vivibilità nella società quando la scienza è al servizio dell’uomo?
    Per una risposta occorre chiarire quali siano gli orientamenti della scienza rispetto alle attese della società.
    Secondo Pierluigi Barrotta, nel libro “Scienza e democrazia: verità, fatti e valori in una prospettiva pragmatista”, in una società coesa e ordinata scienziati e cittadini partecipi della stessa comunità hanno lo scopo della ricerca della verità e la condivisione degli stessi valori.
    La scienza orientata a indagare la realtà secondo leggi universali (del sistema ambientale) non è l’unico strumento di conoscenza della verità al fine di garante una vivibilità sociale. La scienza, pertanto, non ha garantito questo scopo.
    Quante congetture non paiono funzionare, quante teorie sono state rielaborate, quante sono tutt’oggi incomplete? Occorre tenere presente che Il termine SCIENZA: dal latino “scire” (conoscere), comprende un insieme delle discipline che hanno per oggetto la natura e gli esseri viventi, tuttavia non è l’unico strumento di verità.
     Se cresciamo nella conoscenza del mondo in cui viviamo ci aspettiamo che la scienza raggiunge la meta della verità per rendere più confacente l’ambiente e la società ai principi della legge naturale.
    In che senso la scienza persegue la verità o deve esserne al servizio?
    Secondo gli assertori di una verità scientifica La Scienza è composta da tre elementi:
        Un particolare modo di lavorare, basato sul più acceso scetticismo, il cosi detto  “metodo galileiano”.
        Un insieme di modelli teorici del mondo e dei suoi fenomeni, le cosiddette “teorie”.
        Un insieme di esperimenti o di osservazioni che servono per convalidare i modelli ed ancorarli alla realtà.
    La verità scientifica funziona in un certo modo:
    -         se dall’osservazione di un problema si coglie un aspetto interessante di solito si tratta di qualcosa già conosciuto e l’osservazione riguarda qualche incongruenza in un modello già esistente.
    -         L’osservazione forma un modello del fenomeno e tenta di spiegarlo mettendo a punto una teoria. Questa teoria deve fare previsioni sul comportamento del sistema in esame. Le previsione devono esporre la teoria ad una confutazione.
    -         Se l’esperimento confuta la teoria questa viene annullata, in caso contrario viene sottoposta ad altre verifiche.
    -         Il team di ricercatori originali descrive l’esperimento e la teoria nei dettagli e chiede ad altri ricercatori di eseguire di nuovo l’esperimento e di confrontarlo con la teoria. Se  l’esperimento viene replicato da altre persone, e continua a verificare la teoria, la teoria viene considerata scientificamente vera.
    In breve la scienza è una  conoscenza di tipo dimostrativo ed esplicativo Cfr “Scienza e teologia a confronto”. Alberto Strumia pag. 82
    La verità scientifica resta al centro dell’analisi filosofica  e teologica.
    Quando la scienza è incline a spiegare i fenomeni della realtà le spiegazioni sono valide se riguardano un principio che non richiede alcuna spiegazione che richiude in se la propria verità pertanto è un principio assoluto, in questo caso la spiegazione è inutile. Se il principio è al di fuori della scienza è evidente che deve trarre la conoscenza  di questo principio da un’altra scienza cioè  la metafisica.
    La scienza è quindi una disciplina che spiega una verità relativa. Secondo quanto evidenziato da Alberto Strumia nel Capitolo terzo in “Scienza e teologia a confronto”
      Così enunciata, incontra un diniego nel pensiero filosofico e teologico.
    Dalla pubblicazione “Fede e scienza” di Benedetto XVI si evince che … «La scienza, tuttavia, pur donando generosamente, dà solo ciò che deve donare. L’uomo non può riporre nella scienza e nella tecnologia una fiducia talmente radicale e incondizionata da credere che il progresso scientifico e tecnologico possa spiegare qualsiasi cosa e rispondere pienamente a tutti i suoi bisogni esistenziali e spirituali. La scienza non può sostituire la filosofia e la rivelazione rispondendo in modo esaustivo alle domande più radicali dell’uomo: domande sul significato della vita e della morte, sui valori ultimi, e sulla stessa natura del progresso.      In conclusione  La prevedibilità scientifica solleva anche la questione delle responsabilità etiche dello scienziato. Le sue conclusioni devono essere guidate dal rispetto della verità e dall’onesto riconoscimento sia dell’accuratezza sia degli inevitabili limiti del metodo scientifico» 
     
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