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Siamo nell’alto Medioevo, Anselmo nasce ad Aosta nel 1033 da nobile famiglia, da cui però si allontana presto per entrare nell’ordine benedettino, nell’abbazia di Notre-Dame du Bec nel 1060, di cui divenne in poco tempo priore e grazie al suo talento amministrativo nel 1079, esercitato nelle relazioni con l’Inghilterra, divenne Arcivescovo di Canterbury nel 1093. Nella sua vita si occupò di varie argomentazioni sul piano teologico e filosofico sostenendo sempre il primato della Ragione, ma considerando la Fede superiore ad essa, in quanto, laddove la ragione umana non riuscisse ad arrivare a causa dei limiti a cui il peccato originale l’ha condannata, la Fede doveva prevalere. Da qui la celebre frase “Credo ut Intelligam” dove prima viene la Fede e poi la Ragione. La traduzione di tale espressione non si distacca da quella utilizzata da Agostino. Il credo per capire è ribadito in Anselmo, ma a scanso di equivoci, non è la fede in sé che primeggia sulla ragione, ma è la ragione che alimenta un atto di fede e laddove, semmai ci fossero casi che la ragione non potesse spiegare, la Fede non andrebbe messa in discussione. La verità è che il fedele medioevale era convinto che senza la ragione non si poteva arrivare ad avere una fede cosciente. Anselmo è spesso ricordato per le sue prove, una apriori e una a-posteriori, dell’esistenza di Dio. Apriori intendeva prima dell’esperienza, dunque una prova a partire dal pensiero; per a-posteriori intendeva dopo l’esperienza, ossia partendo dalla realtà umana si poteva risalire a Dio. Vediamo nello specifico di cosa si tratta. La prova apriori consisteva nel fatto che se si può pensare Dio, lo si pensa certamente come qualcosa di “cui non si può pensar qualcosa di più grande”. Dal momento che l’idea di Dio è l’idea della perfezione espressa “come ciò di cui non si può pensare il maggiore”, bisogna ragionevolmente ammettere, che il perfetto non può mancare di qualcosa come l’esistenza. Se Dio è il Perfetto e il Perfetto non manca di nulla, allora Dio esiste perché la perfezione non può non esistere, in quanto mancherebbe in qualcosa, ossia nell’esistenza stessa. Interessante è l’obiezione che gli mosse un suo contemporaneo, il monaco Gaunilone. Egli sostenne che non deve per forza esistere una cosa per il semplice fatto che la pensiamo, cioè che sia nell’intelletto. Gaunilone, approcciando alla questione secondo una logica aristotelica, che a differenza di quella neo-platonica non fa coincidere essere e pensiero, vale a dire che il pensiero può essere una vuota rappresentazione della realtà, ritiene necessario dimostrare l’esistenza di un qualcosa prima di dichiarare che deve necessariamente esistere. Così porta l’esempio di un’isola che non esiste dicendo che non basta pensarla per dichiarare che esiste. Questo ragionamento verrà poi ripreso da San Tommaso d’Aquino che, introducendo la distinzione essenza-esistenza, per dimostrare come la tesi di Anselmo non possa essere accettata sul piano ontologico, in quanto, pur essendo vero che si possano avere idee per astrazione, dal particolare all’universale, è necessario dimostrare l’esistenza di tale idea partendo dai dati sensibili. Questo aspetto, necessita tuttavia di un ulteriore approfondimento, che verrà fatto nel prossimo articolo, dedicato proprio a San Tommaso. Cartesio, invece riproporrà la tesi di Anselmo, ma concependo Dio come ente perfetto. Kant contrasterà Anselmo con l’argomentazione dei cento talleri dicendo che la differenza tra cento talleri immaginari e cento talleri reali è l’esistenza, dunque, pur rimanendo cento talleri alcuni esistono altri no. Dio, anche se lo penso perfetto non è detto che esiste, poiché potrebbe essere come quei cento talleri immaginari. Si rende necessaria allora la prova pratica dell’esistenza di Dio. In questo dibattito la risposta di Anselmo, che aveva già confutato l’obiezione di Gaunilone nel suo primo ragionamento, sostiene che tale ragionamento vale solo per Dio, ma non in quanto pensato come “perfetto”, dunque al positivo, ma come Colui di “cui non si può pensare il maggiore”, dunque al negativo. Ciò significa, secondo Anselmo, che se Dio è pensato come “Colui della quale non può essere pensato il maggiore”, tale pensiero implica che il massimo non può mancare dell’esistenza, altrimenti non potrebbe essere pensato come il maggiore. Altro è invece dire che Dio è il più grande, il perfettissimo, perché questo non implica che esiste, in quanto potrebbe essere come i cento talleri immaginari, per dirla con Kant. In effetti, a rigor logico, Anselmo ha ragione. Solo in riferimento a Dio, la ragione trova la stessa importanza della fede, in quanto Dio è veramente il pensiero perfetto, poiché non vi è pensiero maggiore. San Bonaventura aveva intuito la grandezza di tale argomentazione, partendo da un ragionamento basilare: il pensiero dell’Essere non può contemplare la non-esistenza. Qui il piano logico è ancorato, platonicamente, alle parole, che rivelano un piano ontologico (la verità sta nelle parole sostiene Platone nel Cratilo). Tutto ciò fa notare l’errore in cui Cartesio, pur riprendendo il ragionamento di Anselmo, è caduto, affermando Dio come essere perfettissimo al positivo. Facendo così e non potendone dimostrare l’esistenza, a causa del rifiuto della logica tomista (che parte dal visibile per dimostrare l’invisibile), relegherà Dio, la Res Cogitans (la cosa pensata) solo nel mondo ideale separandola dalla Res Extensa (la cosa estesa) dalla materia. Questo modo di ragionare porterà all’errore hegeliano (idealista) che altro non è che l’eco di quello cartesiano, con l’aggravante che esso ha generato una ulteriore divisione tra realtà ed idea che, per esasperazione, ha condotto al positivismo logico nella sua doppia faccia, quella idealista in senso spirituale e quella idealista in senso materiale, ossia: da un lato si ritiene l’idea superiore alla realtà, ricadendo nella gnosi neo-platonica; dall’altro si ritiene la realtà superiore all’idea, cadendo nell’eresia materialista di matrice marxista (nel versante hegeliano di sinistra) che conduce all’esistenzialismo, all’esasperazione della terra, ad una gaia scienza (Nietzsche docet) che riduce Dio ad un modello puramente umano, un superuomo, un supereroe che fonda la nuova religione della terra, un dionisismo cristiano che altro non è che la morte del Dio Cristiano Vero (una sorta di nichilismo come fenomeno religioso avrebbe detto G. Scholem). Con tutto ciò si vuole dire che il ragionamento al negativo di Anselmo non è lo stesso di quello al positivo di Cartesio, di Kant e di Hegel, che son caduti nell’errore interpretativo di Gaunilone. San Tommaso, al contrario degli altri, non parte da questo presupposto, ma da un ragionamento che prevede una classificazione, una distinzione, persino nella terminologia, arrivando a dimostrare ciò che Anselmo, partendo da un ragionamento negativo, ha dimostrato per assurdo, ossia la falsità di chi nega l’esistenza di Dio pensandolo, poiché “non vi è” pensiero maggiore. Tutto questo, però, non può valere per il creato. Se pensiamo ad uno scultore che pensa, davanti ad un blocco di marmo, ad una statua, si può dire che ancora la statua non esiste se non nella sua mente. Questo perché quel pensiero non è perfetto in sé come il pensiero di Dio, in quanto ci sarà sempre qualcosa di maggiore sul piano del sensibile. Potrei pensare un’isola bella, ma non è detto che esista o se esistesse potrei pensare ad una ancora più bella una volta conosciuta. Fino a quando siamo sul piano delle creature (isole, persone, statue, dipinti, ecc…) l’argomento apriori non è valido, ma se pensiamo Dio, lo pensiamo come il non plus ultra che ovviamente non può mancare nell’esistenza altrimenti non sarebbe il maggiore pensabile e la mente potrebbe pensare qualcosa di migliore. Anselmo così dicendo afferma il primato della Ragione che pensa Dio. Ciò che invece può valere sul piano creaturale è la funzione che esso esercita per aiutarci a risalire a Dio. Qui vi è la prova a-posteriori. Anselmo fa notare che nella vita umana tutto procede per comparazione. Qualcosa sarà più o meno bella di un’altra, più o meno buona, più o meno alta, più o meno perfetta. Ora, se si accetta che vi è sempre il migliore o il peggiore, dobbiamo accettare logicamente che vi sarà un insuperabile, il perfetto, e questo è Dio che eccelle in tutto al di sopra di ogni creatura. Così dicendo abbiamo confermato la prova apriori partendo da quella a-posteriori, determinando che esse conducono alla fine, logicamente, allo stesso punto: Dio esiste perché non-superabile. Il ragionamento a-posteriori ha confermato quello apriori espresso al negativo. Abbiamo, dunque, due piani di dimostrazioni: uno apriori e uno a-posteriori, ed entrambi, cercano di dimostrare l’essere di Dio, dimostrarlo ontologicamente, ossia che esiste il suo Essere, e questo lo fa sul piano logico, sul piano della Ragione. Ci si potrebbe chiedere a questo punto: dove sta allora la priorità della Fede? La Fede, Cristiana per Anselmo, è l’ambito in cui l’umano si muove, poiché Dio è un pensiero che nasce da una fede: esiste la perfezione. Il pensare Dio è già credere che vi è una perfezione, anche solo come desiderio di perfezione, in quanto non si può desiderare ciò che si crede che non esiste. Dunque Anselmo pone la fede per prima, per ristabilire l’ordine a cui la ragione si sottomette, in quanto la fede in Dio abilita la ragione a muoversi in una direzione che conferma la fede che ti fa pensare, comprendere, che esiste il Dio Perfetto. La fede cristiana diventa per Anselmo l’espressione della perfezione assoluta di Dio. Si può anche dire che ciò che fa pensare l’Essere di cui maggiore non vi è, è la ragionevolezza delle fede cristiana stessa. Questo ovviamente non è detto a chiare lettere da Anselmo, ma a mio modesto parere ne è una conseguenza logica. Vediamo in che senso, seguendo sempre il suo ragionamento. Nel Medioevo si usava una espressione: Deus semper major. Dio sempre maggiore. Come può, ci si chiedeva, Dio che è perfetto, insuperabile, essere maggiore se è già ciò che non si può superare? La risposta è nell’incarnazione. Dio si è fatto maggiore facendosi il suo opposto, facendosi Uomo. Qui allora il ragionamento di Anselmo che sancisce la perfezione, non solo di Dio, ma della religione cristiana, che possiamo esprimere così: se Dio lo penso, penso la perfezione e il perfetto deve esistere e non può mancare di nulla. Il Dio perfetto, pensato e creduto prima del cristianesimo, mancava di qualcosa, aveva tutto, l’esistenza, la bontà, la giustizia, tutto, tranne una cosa: l’umanità. Il Dio cristiano non manca di nulla, perché oltre ad essere il Dio Perfetto è anche l’Uomo Perfetto. La Fede nell’incarnazione è allora ragionevole e siccome l’incarnazione è oggetto della fede cattolica, allora per deduzione logica, la fede cattolica è ragionevole. Ed è proprio l’incarnazione che sancisce la ragionevolezza della logica aristotelica, in quanto il sensibile è ora assunto da Dio e da questo si può partire per risalire alla sua Perfezione. Il tomismo dirà logicamente che i sensi attraverso la quale conosco il reale, che mi conduce a Dio, sono gli stessi sensi che Dio ha assunto. San Tommaso fonda il suo ragionamento sulla fede nell’incarnazione, rendendo così ragione ad Agostino, ad Anselmo, pur non accettando il loro punto di partenza come definitivo. È questo ciò che distingue il pensare cattolicamente da tutti gli altri modi di pensare: nella cattolicità le verità si danno appuntamento nella Verità, poiché laddove si hanno dei dubbi, dare priorità alla fede non significa annullare la ragione, ma aspettare che essa si sforzi di comprendere ciò che crede in modo che quella fede non si spenga nell’ateismo radicale del pensiero stesso o nel fideismo cieco. È dovere del pensar cattolicamente, oggi soprattutto, ricucire il filo rosso, che lega il pensare di Agostino, di Anselmo, di Bonaventura, di Tommaso e di tutti quei pensatori che si sono messi sulla scia della Tradizione Cattolica, in modo che vengano confutati e annullati tutti quei modi di pensare che, seppur legittimi, hanno separato anziché unire, hanno disperso anziché raccogliere. Per far questo è necessario conservare la Fede, porre prima il Credo e poi Intelligam, esattamente l’opposto del pensiero eretico che pone prima la ragione per poi affermare di credere in ciò che i suoi limiti gli hanno imposto di credere. Per esprimermi al contrario di Kant, che definii illegittimo il metodo di Anselmo, ossia quello di passare dal piano logico al piano ontologico, dico che è lecito passare dal piano logico a quello ontologico, ma se e solo se si presuppone la Fede al comprendere, se e solo se non si limita la fede alla ragione, ma al contrario se si limita la ragione umana alla Fede Cattolica, ossia alla Vera Ragione. È sottile la distinzione, ma è fondamentale comprendere l’errore kantiano e prima di questo quello cartesiano, in modo che si riscopra la Verità della Fede Cattolica, ossia quella di essere la Vera Ragione che rende ragione ad ogni esistenza, al creato in tutte le sue manifestazioni. Credo per Capire è così l’invito di Sant’Anselmo a non smettere di avere fiducia nella Fede ricevuta, ma di sforzarsi di capire, con la ragione, che essa trova il suo Principio nella Ragione perfetta, che è il Dio fatto Uomo, che ha creato esseri ragionevoli a sua immagine e somiglianza e che si è fatto come loro. Le prove del Santo sono chiamate ontologiche, ossia essere-logico, discorso logico sull’essere, su Dio e sulla fede in Lui che ce lo fa pensare, dire, pregare e celebrare con la Ragione, con la ferma fede che essa è capace di Dio.
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Questo mio contributo è il primo di una serie di articoli attraverso cui si vuole render ragione del pensiero cattolico, il quale trova la sua fonte e il suo culmine nella Fede consegnataci dalla Chiesa Cattolica Apostolica Romana, professata nel Credo, espressa nella dottrina definitiva ed applicata nella morale definitiva. Lo scopo è quello di dimostrare come la Fede Cattolica sia una fede razionale perché il Dio che ne rivela i contenuti è in principio Logos, ossia Ragione e Ordine, Parola Sapiente. Nel sottotitolo ho riportato la celebre frase agostiniana: Credo ut intelligam intelligo ut credam. La traduzione più usata di questa espressione è Credo per comprendere, comprendo per credere. Mi si permetta di specificare il perché della scelta dei termini mediani “comprendere comprendo”. Agostino usa il verbo intelligere, da cui viene il nome “intelligenza”. Letteralmente intelligere, composto da inte (a propria volta da intus) e da legĕre, vuol dire “leggere dentro”. L’intelligente, dunque chi comprende pienamente, è colui che sa leggere dentro le cose, che sa andare oltre l’apparenza e questa capacità presuppone una fede: non esistono solo le realtà visibili, ma esiste qualcosa che non vediamo che supera ciò che vediamo e lo sorregge. Quando l’uomo intelligente crede, inizia a comprendere, e quando inizia a comprendere crede. Comprendere, a sua volta, viene dal latino cum-prendere, ossia prendere insieme, riuscire ad abbracciare la complessità del reale, universalizzare, ossia tendere verso l’unità superando la complessità. L’uomo intelligente è allora colui che, in base alla sua fede, comprende. Ecco allora giustificata la scelta dei termini “comprendere - comprendo” per tradurre “intelligam intelligo”. Veniamo ora al significato che Agostino ha voluto attribuire a questa lapidaria espressione. Prima di essere il Santo che tutti noi conosciamo, Agostino era un pagano in preda alla concupiscenza della carne, degli occhi e della superbia della vita. Tuttavia non ha mai smesso di cercare la Verità e, come è noto, chiunque cerchi la Verità, cerca Cristo. È certo che le preghiere della madre Monica siano state il sostentamento del suo cammino di vita, come egli stesso riconosce nelle sue Confessioni, ma è anche vero che il suo desiderio di verità ha contribuito alla sua conversione. Il primo approccio alla filosofia, che inizierà a fargli prendere le distanze da una vita sregolata, avviene grazie alla lettura di Cicerone. Qui inizia a prender forma il suo desiderio della Verità, ma sotto forma di verità filosofica, influenzata dal neoplatonismo del suo tempo, che non escludeva le realtà invisibili, di cui la più importante è l’Essere: anzi, tali realtà venivano indicate come modello perfetto rispetto alle realtà materiali visibili. Vigeva, infatti, la dicotomia anima-corpo. Inebriato dal grande retore latino, Agostino inizia a cercare una dottrina che possa render ragione di ciò che ha appreso e in un primo momento crede di averla trovata nella eretica dottrina del manicheismo, la quale sosteneva l’esistenza di due realtà antitetiche: il Bene e il Male. Due divinità in guerra la cui fine sarebbe stata segnata dal trionfo del dio del bene. Agostino non essendo come i fideisti che accettavano le dottrine ricevute senza ragionarci su, senza porsi domande, capì che la tanto amata verità, quella “Bellezza Tanto Antica” cui anelava ormai da tempo, non era in quella dottrina e se ne distaccò, grazie alla Rivelazione della Santa Dottrina Cattolica, propostagli dal Vescovo di Milano Ambrogio, di cui aveva sentito parlare in ambiente romano soprattutto dall’oratore Quinto Aurelio Simmaco: questi, resosi conto delle qualità oratorie di Agostino, lo aiutò ad andare a Milano per opporlo al vescovo suo nemico in campo politico e sociale. Lo scontro tra Ambrogio e Agostino fu vinto nettamente dal vescovo e tale vittoria vinse l’Agostino pagano e fece nascere l’Agostino cristiano che poi divenne Santo. Da questa brevissima sintesi della sua vita comprendiamo allora che la frase che dona il titolo a questo articolo è frutto di una presa di coscienza: la fede e la ragione sono in relazione tra loro, così come Dio e l’uomo. Qui fede e ragione devono essere considerate due realtà che costituiscono l’uomo, dove la ragione, l’intelletto, con le sue categorie, serve per comprendere il dato rivelato a cui ha deciso di credere per comprenderne sempre più la sua ragionevolezza. È necessario distinguere qui la fede oggettiva da quella soggettiva. La Fede oggettiva è il dato rivelato a cui ci viene chiesto di credere. La fede soggettiva è l’atto personale con cui ognuno di noi, con volontà e intelletto, crede nella fede oggettiva. Chiarito questo possiamo affermare come Agostino, quando dice Credo per comprendere, stia facendo riferimento alla fede soggettiva, quella sua, personale, che ha dato alla Fede oggettiva, offertagli da Sant’Ambrogio e grazie alla quale ha iniziato a comprendere veramente. Dunque, per Agostino la voglia di comprendere, la fame di verità, trova ora nella fede il suo compimento, la sua ragione: cioè, quella di render ragione della Verità Cristiana, di dare risposta alle problematiche culturali, sociali, morali e politiche del suo tempo. Precisiamo qui che Agostino andò a Milano spinto dal retore pagano Simmaco che sosteneva la veridicità della religione romana contro quella cristiana. Egli, dunque, doveva render ragione della superiorità, per l’impero, della religione romana, e finì per essere convinto da Ambrogio del contrario, ossia che l’unica vera religione è quella cristiana, mentre le altre religioni non hanno motivo di esistere. Quattro anni prima, nel 380, Teodosio aveva dichiarato la religione cristiana la Vera Religione dell’Impero, e successivamente allontanò tutti coloro che si opponevano a tale verità, fra questi Quinto Aurelio Simmaco. Capiamo così che Agostino da sempre aveva avuto a cuore la verità, e una volta che gli fu rivelata l’accolse e la difese con volontà ed intelletto, usando quegli strumenti che aveva appreso dalla filosofia pagana, dai grandi retori, con la differenza sostanziale che, mentre i retori desideravano farsi ragione esclusivamente attraverso l’abile uso delle parole, in Agostino la retorica, illuminata dalla Fede, si faceva strumento per la difesa della Verità di Cristo. Così il Santo generò la celebre frase che diede i natali, se così si può dire, alla ricchissima riflessione sul rapporto fede-ragione, che contraddistingue la Vera Religione da tutte le altre false religioni, il Cristianesimo Cattolico dalle dottrine varie e peregrine. “Credo per comprendere”, in Agostino, così come in ogni vero cristiano cattolico, è la consapevolezza che senza l’adesione di fede non si può essere veramente intelligenti, non si può comprendere pienamente, si rimane in qualche modo ciechi e monchi nella comprensione. Una volta compreso ciò, si può allora intendere il comprendo per credere, e cioè che la ragione che Dio ci ha donato è fatta principalmente per credere. Vorrei render ragione, con delle mie considerazioni personali, di queste ultime affermazioni servendomi di ciò che gli ebrei insegnano circa l’apprendimento della Sacra Scrittura. A tal riguardo essi individuano quattro momenti: Damanah che è star fermi e zitti. Nell’apprendimento della Verità non ci deve essere precomprensione, né pregiudizio. Nessuna attività umana deve interferire, bisogna solo ascoltare. Shemà Israel! Ecco il secondo momento. Gli ebrei esprimono questo momento con una parola la cui radice è formata da tre consonanti del loro alfabeto, Kaf-Vav-Nun. Questa radice indica l’atto dello star saldi in ciò che si è ascoltato, il credere, il prestar fede. Questi due momenti possiamo, per analogia, attribuirli a due fasi della vita di Agostino: il primo è consistito nell’ascolto prestato ad Ambrogio; il secondo nel prestare fede a ciò che ha ascoltato. Il terzo momento gli ebrei lo chiamano Darash, che significa ‘mettersi in cammino, alla ricerca’. È l’intelletto che si muove alla ricerca di Dio, ma non è lasciato solo, così come avviene per lo gnostico che cerca e ricerca, ma è un intelletto illuminato dalla fede, guidato, critico. Questo intelletto è quello di un uomo che cerca Dio, che vuole entrare in relazione con Dio, poiché crede che Egli sia, esista, pensi, parli, agisca. A quest’uomo viene donata la comprensione di Dio e la conoscenza per mezzo dello Spirito Santo. In questa fase Agostino sperimenta le parole del Vangelo “continuate a cercare e troverete, continuate a bussare e vi sarà aperto. Perché a chiunque chiede lo Spirito Santo nel mio Nome il Padre mio glielo concederà”. Lo Spirito Santo è la Persona della Trinità che conduce alla Verità, a Cristo. La quarta e ultima fase gli ebrei la chiamano Asah, il mettere in pratica, che per noi è l’abbandono del peccato, la crescita spirituale in Cristo, la vita cristiana che alla fine Agostino abbracciò e che lo condusse alla santità. Non posso comprendere senza prestar fede a ciò che mi è stato rivelato e consegnato come oggetto degno di fede, e se non comprendo non potrò realmente credere. Pensiamoci! Nel prossimo articolo approfondiremo come la Fede sia il fondamento della ragione, meditando su ciò che Sant’Anselmo d’Aosta ha voluto dirci nell’espressione Credo ut intelligam.
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Proseguiamo qui la sintetica presentazione del tracciato del IV capitolo dell’Enciclica Fides et Ratio, frutto del lavoro, svolto in piena sintonia, di san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. II) Seconda parte - La progressiva separazione e contrapposizione tra fede e ragione A partire proprio dal tredicesimo secolo, dagli stessi contemporanei di san Tommaso, si comincerà a comprendere sempre meno la lezione dell’analogia dell’ente e del vero e, in nome di un maggior grado di certezza della conoscenza, ci si concentrerà sempre di più sull’univocità, più facile da comprendere, più agevole da controllare. Questo modo di procedere apparirà addirittura, ad alcuni, come un servizio alla verità, anziché una limitazione, un miglioramento della scienza anziché un suo impoverimento qualitativo. a) Univocità e nominalismo: il ruolo esclusivo della matematica Ma si tratterà di un potenziamento unilaterale di qualche aspetto della razionalità, soprattutto di quella matematica, a scapito degli altri. La ricaduta sulla teologia, della perdita dell’analogia, si farà sentire prima nell’univocità del pensiero protestante, poi nell’esasperazione quasi sofistica di certa tarda Scolastica e infine nella riduzione della stessa teologia a pura narrazione. «Con il sorgere delle prime università, la teologia veniva a confrontarsi più direttamente con altre forme della ricerca e del sapere scientifico. Sant’Alberto Magno e san Tommaso, pur mantenendo un legame organico tra la teologia e la filosofia, furono i primi a riconoscere la necessaria autonomia di cui la filosofia e le scienze avevano bisogno, per applicarsi efficacemente ai rispettivi campi di ricerca. A partire dal tardo Medio Evo, tuttavia, la legittima distinzione tra i due saperi si trasformò progressivamente in una nefasta separazione. A seguito di un eccessivo spirito razionalista, presente in alcuni pensatori, si radicalizzarono le posizioni, giungendo di fatto a una filosofia separata e assolutamente autonoma nei confronti dei contenuti della fede. Tra le altre conseguenze di tale separazione vi fu anche quella di una diffidenza sempre più forte nei confronti della stessa ragione. Alcuni iniziarono a professare una sfiducia generale, scettica e agnostica, o per riservare più spazio alla fede o per screditarne ogni possibile riferimento razionale. Insomma, ciò che il pensiero patristico e medievale aveva concepito e attuato come unità profonda, generatrice di una conoscenza capace di arrivare alle forme più alte della speculazione, venne di fatto distrutto dai sistemi che sposarono la causa di una conoscenza razionale separata dalla fede e alternativa ad essa» (n. 45). Gradualmente quegli aspetti della razionalità, che prima era concepita analogicamente, verranno a contrapporsi anziché integrarsi: ciò che prima era riconosciuto come, in certa misura, reale (l’universale) sarà considerato un puro nome (nominalismo). Il sapere passerà, un po’ alla volta, da una struttura organica e analogica ad una struttura univoca e dialettica: contrapposizione in luogo della integrazione dei diversi gradi di perfezione. b) Il pensiero moderno e contemporaneo L’enciclica continua, poi, la sua lettura della storia del pensiero occidentale riferendosi, allo sviluppo del pensiero filosofico e scientifico moderno e contemporaneo fino ai nostri giorni. «Le radicalizzazioni più influenti sono note e ben visibili, soprattutto nella storia dell’Occidente. Non è esagerato affermare che buona parte del pensiero filosofico moderno si è sviluppato allontanandosi progressivamente dalla Rivelazione cristiana, fino a raggiungere contrapposizioni esplicite. Nel secolo scorso, questo movimento ha toccato il suo apogeo. Alcuni rappresentanti dell’idealismo hanno cercato in diversi modi di trasformare la fede e i suoi contenuti, perfino il mistero della morte e risurrezione di Gesù Cristo, in strutture dialettiche razionalmente concepibili. A questo pensiero si sono opposte diverse forme di umanesimo ateo, elaborate filosoficamente, che hanno prospettato la fede come dannosa e alienante per lo sviluppo della piena razionalità. Non hanno avuto timore di presentarsi come nuove religioni formando la base di progetti che, sul piano politico e sociale, sono sfociati in sistemi totalitari traumatici per l’umanità. Nell’ambito della ricerca scientifica si è venuta imponendo una mentalità positivista che non soltanto si è allontanata da ogni riferimento alla visione cristiana del mondo, ma ha anche, e soprattutto, lasciato cadere ogni richiamo alla visione metafisica e morale. La conseguenza di ciò è che certi scienziati, privi di ogni riferimento etico, rischiano di non avere più al centro del loro interesse la persona e la globalità della sua vita. Di più: alcuni di essi, consapevoli delle potenzialità insite nel progresso tecnologico, sembrano cedere, oltre che alla logica del mercato, alla tentazione di un potere demiurgico sulla natura e sullo stesso essere umano» (n. 46) A questo punto, ormai, il processo ha invertito del tutto il suo senso di marcia. Si cerca: i) da un lato di estrapolare alcune categorie teologiche cristiane svincolandole dalla Rivelazione (considerata come un supporto mitologico surrettizio) e trapiantandole in sistemi filosofici sostanzialmente non più cristiani; ii) dall’altro di rimuovere anche i fondamenti puramente filosofici che sono serviti all’elaborazione di una teologia come scienza. Ma una simile operazione non poteva non finire per demolire anche gli elementi indispensabili alla ragione filosofica come tale. Così quest’ultima si è gradualmente trovata senza un fondamento su cui basarsi per poter procedere. «Come conseguenza della crisi del razionalismo ha preso corpo, infine, il nichilismo. Quale filosofia del nulla, esso riesce ad esercitare un suo fascino sui nostri contemporanei. I suoi seguaci teorizzano la ricerca come fine a se stessa, senza speranza né possibilità alcuna di raggiungere la meta della verità. Nell’interpretazione nichilista, l’esistenza è solo un’opportunità per sensazioni ed esperienze in cui l’effimero ha il primato. Il nichilismo è all’origine di quella diffusa mentalità secondo cui non si deve assumere più nessun impegno definitivo, perché tutto è fugace e provvisorio» (n. 46). E ancora: «Non è da dimenticare, d’altra parte, che nella cultura moderna è venuto a cambiare il ruolo stesso della filosofia. Da saggezza e sapere universale, essa si è ridotta progressivamente a una delle tante province del sapere umano; per alcuni aspetti, anzi, è stata limitata a un ruolo del tutto marginale. Altre forme di razionalità si sono nel frattempo affermate con sempre maggior rilievo, ponendo in evidenza la marginalità del sapere filosofico. Invece che verso la contemplazione della verità e la ricerca del fine ultimo e del senso della vita, queste forme di razionalità sono orientate – o almeno orientabili – come ragione strumentale al servizio di fini utilitaristici, di fruizione o di potere» (n. 47). Ai nostri giorni sembra essere ormai completa la parabola discendente, descritta nella seconda parte e si apre, come si è rilevato in precedenza, il problema di una rimessa a punto delle basi della razionalità, resasi urgente sia dal punto di vista esterno (problema delle conseguenze sulla vivibilità della società) che da quello interno (problema dei fondamenti della razionalità). È questo il quadro in cui oggi si viene a collocare il “problema dei fondamenti”: ciò che, a prima vista potrebbe apparire solo una questione per gli specialisti della filosofia delle scienze, si rivela essere, in realtà quello ben più profondo dei fondamenti metafisici della stessa razionalità della realtà e della conoscenza, e la condizione stessa della vivibilità della esistenza personale e sociale dell’essere umano. la prima parte disponibile qui
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Per un cattolico la fede è il compimento della razionalità e la ragione è il terreno naturale sul quale poggiare le basi della fede. Il cap.IV dell'Enciclica Fides et ratio, promulgata da Giovanni Paolo II nel 1998, non senza l'apporto dell'allora card.Joseph Ratzinger, viene proposto al nostro approfondimento dal reverendo professor Alberto Strumia. Nella ricorrenza di san Tommaso d'Aquino, dottore della Chiesa (28 gennaio), costituisce una lettura davvero magistrale della storia del rapporto fede/ragione nei secoli della cultura cristiana – che un cattolico non deve ignorare, se non vuole finire per ripetere i luoghi comuni del pensiero dominante – indicando un “metodo” utile anche per il nostro presente “lavoro culturale”. L’enciclica Fides et Ratio di san Giovanni Paolo II – frutto della stretta sintonia di pensiero e di operatività tra san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, recentemente transitato al Cielo – è tra i documenti ecclesiali più censurati e meno conosciuti. Mentre essa offre nel suo quarto capitolo una lettura davvero magistrale della storia del rapporto fede/ragione nei secoli della cultura cristiana – che un cattolico non deve ignorare, se non vuole finire per ripetere i luoghi comuni del pensiero dominante – indicando un “metodo” utile anche per il nostro presente “lavoro culturale”. Per un cattolico la fede è il compimento della razionalità e la ragione è il terreno naturale sul quale poggiare le basi della fede (credo ut intelligam, intelligo ut credam). Ogni contrapposizione è ingannevole: «Voi attaccaste la ragione. Questa è cattiva teologia», rispose il P. Brown di Chesterton al falso prete, il ladro Flambeau, smascherandolo. L’enciclica, in quel capitolo, focalizza le tappe fondamentali della storia dell’incontro di fede e ragione. – Nella prima parte del capitolo, si indicano i passaggi che sono stati maturati in vista della costituzione dello spazio teorico che ha reso pensabile il cristianesimo, fino all’elaborazione di una disciplina teologica sistematica. – Nella seconda parte si individuano le tappe del processo inverso che ha visto la progressiva separazione tra fede e ragione, fino alla disgregazione della stessa razionalità filosofica. Questa lettura di un percorso storico ha la funzione – di documentare un metodo di elaborazione culturale (nella prima parte) e – di indicare i punti nodali problematici che oggi vanno sbloccati (nella seconda parte) sia per l’utilità della fede, che per il recupero di una pienezza della razionalità come tale. * * * I) Prima parte - Il cammino comune di fede e ragione a) La liberazione della religione dal mito e la sua fondazione filosofica Innanzitutto l’enciclica evidenzia come nel corso della storia del pensiero, prima ancora della rivelazione cristiana, sia stato necessario compiere un passo preliminare, fondamentale per costruire la stessa razionalità dimostrativa: si tratta del passaggio dal mito alla filosofia. «Uno degli sforzi maggiori che i filosofi del pensiero classico operarono, infatti, fu quello di purificare la concezione che gli uomini avevano di Dio da forme mitologiche. Come sappiamo, anche la religione greca, non diversamente da gran parte delle religioni cosmiche, era politeista, giungendo fino a divinizzare cose e fenomeni della natura. Fu compito dei padri della filosofia far emergere il legame tra la ragione e la religione. Allargando lo sguardo verso i principi universali, essi non si accontentarono più dei miti antichi, ma vollero giungere a dare fondamento razionale alla loro credenza nella divinità. Si intraprese, così, una strada che, uscendo dalle tradizioni antiche particolari, si immetteva in uno sviluppo che corrispondeva alle esigenze della ragione universale. Il fine verso cui tale sviluppo tendeva era la consapevolezza critica di ciò in cui si credeva. La prima a trarre vantaggio da simile cammino fu la concezione della divinità. Le superstizioni vennero riconosciute come tali e la religione fu, almeno in parte, purificata mediante l’analisi razionale. Fu su questa base che i Padri della Chiesa avviarono un dialogo fecondo con i filosofi antichi, aprendo la strada all’annuncio e alla comprensione del Dio di Gesù Cristo» (n. 36). b) La costruzione dello spazio teorico per pensare il cristianesimo Giunti alle origini del cristianesimo la fede ha cercato di fondare la sua credibilità teoretica innanzitutto utilizzando gli strumenti della logica dimostrativa e della filosofia. Il primo lavoro da compiere, per garantire credibilità alla fede, riguardava la necessità di dimostrare la non contraddittorietà logica del contenuto della Rivelazione, la sua non irrazionalità e, anzi, la sua piena razionalità. E questo è stato uno dei compiti fondamentali degli Apologisti a partire dal secondo secolo cristiano. Il contenuto della Rivelazione può oltrepassare – e di fatto in alcuni dei suoi contenuti oltrepassa – le capacità della ragione di raggiungerlo da sola, ma non può essere accusato di essere contro le regole della logica e quindi ridicolizzato e screditato. Un secondo compito, più durevole nel tempo e impegnativo, ha richiesto il lungo lavoro di rielaborazione delle stesse categorie filosofiche per ampliarne la capacità di contenere, fino a poter accogliere, senza eccessive limitazioni, la ricchezza concettuale della Rivelazione che andava oltre ciò che il filosofo da solo poteva elaborare. «Nella storia di questo sviluppo è possibile, comunque, verificare l’assunzione critica del pensiero filosofico da parte dei pensatori cristiani. Tra i primi esempi che si possono incontrare, quello di Origene è certamente significativo. Contro gli attacchi che venivano mossi dal filosofo Celso, Origene assume la filosofia platonica per argomentare e rispondergli. Riferendosi a non pochi elementi del pensiero platonico, egli inizia a elaborare una prima forma di teologia cristiana. Il nome stesso, infatti, insieme con l’idea di teologia come discorso razionale su Dio, fino a quel momento era ancora legato alla sua origine greca. Nella filosofia aristotelica, ad esempio, il nome designava la parte più nobile e il vero apogeo del discorso filosofico. Alla luce della Rivelazione cristiana, invece, ciò che in precedenza indicava una generica dottrina sulle divinità venne ad assumere un significato del tutto nuovo, in quanto definiva la riflessione che il credente compiva per esprimere la vera dottrina su Dio. Questo nuovo pensiero cristiano che si andava sviluppando si avvaleva della filosofia, ma nello stesso tempo tendeva a distinguersi nettamente da essa. La storia mostra come lo stesso pensiero platonico assunto in teologia abbia subito profonde trasformazioni, in particolare per quanto riguarda concetti quali l’immortalità dell’anima, la divinizzazione dell’uomo e l’origine del male» (n. 39). Tutto questo lavoro ha significato la creazione dello spazio teorico per rendere pensabile il cristianesimo nel quadro storico-culturale del tempo. E quindi vivibile, a pieno titolo, nella società di allora. Basti pensare alla straordinaria opera di messa a punto di un linguaggio adatto ad esprimere i contenuti teologici e filosofici della Rivelazione, formulati prima nella lingua greca, poi ripensati e tradotti in quella latina. L’esempio più formidabile di ampliamento di significato è offerto, quasi sicuramente, da una parola come persona, che dal significato pagano originario di maschera teatrale è giunto ad indicare la persona umana, come ancora oggi la intendiamo, e addirittura le persone divine nella Trinità. c) I Padri della Chiesa e il confronto tra la filosofia greca e la visione contenuta nella Rivelazione Un passo ulteriore fu quello di non limitarsi solamente a mostrare la non contraddittorietà dei contenuti della Rivelazione (primo passo), né di accontentarsi di creare uno spazio teorico per la pensabilità di quei contenuti (secondo passo), ma di mostrare addirittura la superiorità della concezione cristiana della realtà (mondo, uomo, Dio) rispetto alle filosofie, riconoscendo nel contempo quelli che erano gli elementi comuni. Il cristianesimo viene concepito, oltre che come avvenimento storico dell’Incarnazione e della Redenzione, anche come portatore della vera filosofia. «Proprio qui si inserisce la novità operata dai Padri. Essi accolsero in pieno la ragione aperta all’assoluto e in essa innestarono la ricchezza proveniente dalla Rivelazione. L’incontro non fu solo a livello di culture, delle quali l’una succube forse del fascino dell’altra. […] Oltrepassando il fine stesso verso cui inconsapevolmente tendeva in forza della sua natura, la ragione poté raggiungere il sommo bene e la somma verità nella persona del Verbo incarnato. Dinanzi alle filosofie, i Padri non ebbero tuttavia timore di riconoscere tanto gli elementi comuni quanto le diversità che esse presentavano rispetto alla Rivelazione. La coscienza delle convergenze non offuscava in loro il riconoscimento delle differenze» (n. 41). Con sant’Agostino, nel quarto secolo cristiano, questa opera di elaborazione e sistematizzazione teologica, fondata sulla rielaborazione della tradizione platonica, raggiunge un vertice che sarà un punto di riferimento per i teologi successivi. d) La Scolastica e la teologia come scienza «Con la Scolastica, e in particolare con sant’Alberto Magno e specialmente con san Tommaso, viene addirittura compiuta la fondazione e la messa a punto di una teologia come scienza, dimostrativa e totalmente sistematica, basata sulla rielaborazione della filosofia aristotelica, ma non senza includere alcuni elementi importanti della tradizione platonica (soprattutto quelli provenienti dallo Pseudo-Dionigi e la dottrina della partecipazione). Più radicalmente, Tommaso riconosce che la natura, oggetto proprio della filosofia, può contribuire alla comprensione della rivelazione divina. La fede, dunque, non teme la ragione, ma la ricerca e in essa confida. Come la grazia suppone la natura e la porta a compimento, così la fede suppone e perfeziona la ragione. Quest’ultima, illuminata dalla fede, viene liberata dalle fragilità e dai limiti derivanti dalla disobbedienza del peccato e trova la forza necessaria per elevarsi alla conoscenza del mistero di Dio Uno e Trino. Pur sottolineando con forza il carattere soprannaturale della fede, il Dottore Angelico non ha dimenticato il valore della sua ragionevolezza; ha saputo, anzi, scendere in profondità e precisare il senso di tale ragionevolezza. La fede, infatti, è in qualche modo esercizio del pensiero; la ragione dell’uomo non si annulla né si avvilisce dando l’assenso ai contenuti di fede; questi sono in ogni caso raggiunti con scelta libera e consapevole» (n. 43). La chiave di volta, dal punto di vista logico-metafisico, di tutto l’impianto sistematico di Tommaso sta nella dottrina dell’analogia-partecipazione che permette alla ragione di compiere due grandi passi: i) innanzitutto quello di riconoscere modi e gradi di perfezione differenziati nella realtà (ente), nella sua conoscibilità (vero), nel suo essere desiderabile e amabile (bene), nell’organicità del suo essere un tutto (uno); ii) e insieme quello di elevarsi dall’esperienza dei gradi materiali e sensibili dell’essere alla conoscenza, pur limitata, ma vera, dei livelli superiori non immediatamente e adeguatamente conoscibili, ma neppure del tutto inaccessibili. E sembrano proprio questi i nodi verso i quali le scienze più avanzate paiono oggi, pur se ancora timidamente, aspirare nella loro ricerca di fondamenti. (segue)