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Notre tour viendra bientôt d’être rassemblés dans votre grange et dans votre aire, Quand la gloire de Dieu vivant éclatera comme un coup de tonnerre! (Paul Claudel, Processional, 1910) Qual è lo scopo della Risurrezione di Cristo? La domanda è meno banale di quanto non appaia ad un primo esame. Se consideriamo l’evento con cui Gesù Cristo sconfisse nella Sua carne mortale la morte stessa il più grande miracolo operato nella Historia Salutis, allora dobbiamo anche chiederci quanto sia lecito parlare di “comprensione” di questo miracolo e del suo scopo. Il miracolo della Risurrezione Due distinte considerazioni si impongono qui. La prima è legata alla natura dei miracoli in generale. In genere ci accostiamo ai gesti operati da Gesù nella sua vita terrena (guarigioni, risurrezioni, esorcismi e segni profetici) interpretandoli con la categoria del “miraculum”, vale a dire come fenomeni che destano “meraviglia” perché esulano da una spiegazione naturale. Definiamo implicitamente quei fatti con una negazione: tutto ciò che non è soggetto alle leggi naturali. Così risparmiamo tempo, ma complichiamo la nostra posizione dispettatori del fenomeno. Se non disponiamo di strumenti capaci di spiegare le azioni soprannaturali di Gesù, allora le accogliamo senza comprenderle fino in fondo. Ci fermiamo alla loro superficie (la “meraviglia”) ma ce ne sfugge il senso. E il senso è il loro scopo. Possiamo comprendere un atto di cui non cogliamo il fine? Più da lontano, possiamo contemplare il fine di un atto che si situa al di fuori delle logiche naturali? La nostra nozione di finalità, sviluppata tutta dentro il cerchio della comprensione naturale delle cose, può guidarci oltre il confine dal quale si entra nel regno del soprannaturale? Soprattutto, può evitarci una deformazione naturalistica dei gesti soprannaturali di Cristo per guidarci ad una loro comprensione autentica? La seconda considerazione attiene più in dettaglio a quel particolarissimo tipo di miracolo che è la Risurrezione di Cristo. Risorgendo da morte, e sconfiggendo dunque l’estremo nemico della condizione creaturale, Cristo è in certo qual modo uscito tanto dall’ambito naturale (ciò che è proprio della nozione di miracolo) quanto dal cerchio chiuso della storia. La Risurrezione di Cristo è esterna alla storia umana. Entra in essa come evento, ma solo per trasfigurarla. È storica, ma non viene dalla storia. Non si lascia inghiottire da essa, non le cede il suo segreto. La vivifica proprio perché introduce in essa un principio che quella non conosce. Concedere alle nostre facoltà intellettive di comprendere fino in fondo la Risurrezione come evento (cioè come fenomeno reale con un’origine e un fine) significa ammettere che dobbiamo contemplarne il posto nell’ordine delle cose. Dobbiamo vederne il fine, e dobbiamo farlo rispettando la sua natura divina. Dobbiamo lanciare il nostro sguardo dove gli sguardi umani non possono arrivare. Contemplare il fine (ossia l’intelligibilità) della Risurrezione, ma con il caveat di rispettarne il carattere divino. È questa una delle doti della fede: riconoscere che il significato non si estingue con la storia né si lascia soffocare nelle pieghe della natura, ma continua -trasfigurato e finalmente condotto a pienezza- nell’eternità. «Ognuno al suo posto» L’estesa riflessione che san Tommaso d’Aquino dedica alla pericope di 1Cor 15, 20-28 (Super I Epistolam B. Pauli ad Corinthios, XV, L.3, 926-950) può aiutarci a trovare una risposta a queste domande. In riferimento al versetto commentato nella lectio precedente, 1Cor 15,13: Se non c’è risurrezione dei morti, neanche Cristo è risorto. che san Tommaso ritiene essere una dimostrazione della Risurrezione di Cristo secondo il procedimento logico della negazione del condizionato (modus tollens: è falso che Cristo non sia risorto, perciò è falso che non ci sia risurrezione dei morti), ora il v. 20 ci introduce alla stessa verità affermata positivamente: Ora invece Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti. L’apostolo Paolo, riguardo a questa affermazione, sviluppa tre aspetti. Innanzitutto, mostra come la Risurrezione di Cristo sia collegata a quella degli altri. Poi mostra l’ordine in cui essa avviene («unusquisque autem in suo ordine»). Infine, mostra lo scopo ultimo della Risurrezione («deinde finis»). La relazione della Risurrezione di Cristo con quella di tutti gli altri è illustrata da san Paolo secondo una schemadi priorità ontologica e cronologica. Tutti risorgeranno. Ma la «primizia» che è Cristo precede «coloro che sono morti» («dormientium») secondo la successione temporale e secondo la dignità («tempore et melioritate, seu dignitate»): esiste una gerarchia dei risorti. Questa gerarchia è causa di speranza: se Cristo -la primizia di coloro che dormono in attesa della Risurrezione (cf Ap 1,5)- è risorto, allora anche gli altri risorgeranno dopo di Lui. San Paolo deve ora provare che la relazione tra la primizia e tutti gli altri passa attraverso la natura umana di Cristo. Per fare ciò, dimostra in generale che (v.21) se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti. Dio intendeva reintegrare la natura umana corrotta a causa dell’uomo stesso, perché a causa di Adamo la morte entrò nella creazione (v.22: «Come infatti tutti muoiono in Adamo»). Era dunque conveniente («pertinebat») alla dignità della natura umana che essa venisse restituita alla sua piena integrità da un uomo («reintegraretur per hominem»). La morte era stata causata da un uomo, e così doveva esserlo anche la sconfitta della morte. La prova particolare arriva subito dopo (v.22): Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita. Condannati in Adamo a subire la morte del nostro corpo, riceviamo in Cristo il dono della vita («vivificamur in Christo»), secondo il dettato di Rm 5,12. Tutti saranno reintegrati nella vita («vivificabuntur»), i buoni e i cattivi. Ma, come anticipato sopra, sussiste un ordine dei risorti (v.23): Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo. «Unusquisque autem in suo ordine»: è la gerarchia della Risurrezione. È vero, lo ripetiamo, che tutti in Cristo siamo vivificati. Ma non si può ignorare la duplice differenza che seziona l’insieme dei risorti: quella tra il capo e le membra non meno che quella i buoni e i malvagi. Questo taglio è per l’ordine (ossia per la relazione), non semplicemente per la separazione. Che cosa determina questo ordine? La dignità. La primizia, Cristo, precede i fratelli nella Risurrezione perché è il ricettacolo perfetto della Gloria del Padre. Da qui viene la Sua dignità preminente (cf Gv 1,14) di Figlio e capo del corpo dei risorti. Ma dopo di Lui (e a causa di Lui) vengono tutte le membra, che risorgono proprio perché appartengono a Lui («qui sunt Christi»). Costoro sono coloro che hanno vissuto la passione del loro Signore nel loro corpo, consegnandogli la loro vita nella fede e crocifiggendo il peccato nelle loro membra. Tra di essi, annota san Tommaso, non c’è ordine di tempo, perché la loro Risurrezione sarà istantanea («in ictu oculi»). Sussisterà invece un ordine derivante dalla dignità («quia martyr resurget ut martyr, apostolus ut apostolus...»). Veniamo dunque alla questione da cui abbiamo preso le mosse. Si può definire lo scopo della Risurrezione? San Tommaso ci introduce alla risposta: sì, e questo scopo è duplice. Il v.24 dichiara: Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo avere ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza. «Deinde finis»: l’intento dell’Apostolo è quello di mostrare che la Risurrezione trova il suo compimento non solo nel raggiungimento del bene supremo («adeptionem boni»), ma anche, correlativamente, nella eliminazione del male («remotionem mali»). Cristo, infatti, dovrà raccogliere in sé la signoria su tutte le cose (v.25: «oportet illum regnare»), senza eccezioni. Il bene supremo è il rimanere uniti a Dio («inhaerentia ad Deum»), che si realizzerà totalmente e immediatamente con la riduzione a nulla di tutte le potenze angeliche(«cum evacuaverit omnem principatum, et potestatem, et virtutem»). La fine e il fine di cui stiamo parlando, precisa san Tommaso, non sono accostabili a quello che si figurano nelle loro speranze escatologiche gli ebrei e i musulmani. Essi immaginano la vita eterna come un’esistenza finalizzata ai piaceri corporei. In realtà, la fede ci insegna che la vita eterna consisterà nella unione a Dio per visione immediata e godimento di Lui. I credenti («fideles») saranno consegnati da Cristo al Padre: questo è il Regno che Egli si è acquistato a prezzo del proprio sangue (Ap 5,9), e che mette nelle mani di Dio, il Padre. San Tommaso distingue i due nomi («cum tradiderit regnum Deo et Patri»): Cristo consegnerà il Regno a Dio (nel senso di Creatore) in quanto possessore di una natura umana, e al Padre in quanto detentore della natura divina. Non è la natura divina ad essere duplice. È la particolare identità di Cristo a rendere necessario per Lui porsi di fronte a Dio in due atteggiamenti diversi. Un tale sdoppiamento dell’azione redentiva di Cristo può forse apparire cervellotico, ma non è fine a se stesso. Con questa distinzione san Tommaso si riserva un dispositivo ermeneutico che gli permette di chiarire la questione del fine della Risurrezione, mettendola in prospettiva e spingendola oltre la sfera umana, fin nel cuore della vita divina. La logica del ragionamento diverrà più chiara alla fine. «Tutto in tutti» Nella seconda metà del v.24 san Paolo proclama l’annullamento del potere delle gerarchie angeliche (Principati, Potenze e Virtù). L’unione a Dio dovrà realizzarsi senza la mediazione angelica. Seguendo Gal 4,1, san Tommaso riporta lo stato presente dell’umanità a quello del bambino che necessita di un pedagogo. Nella condizione presente gli uomini sono sotto la tutela e la guida degli angeli. Ma una volta che il Regno sarà consegnato a Dio Padre, quella tutela sarà assolutamente superflua. Tutte le potenze angeliche cesseranno le loro funzioni, e tutta la realtà si ritroverà immediatamente sotto la sovranità di Dio. La fine delle mediazioni non significherà la fine delle gerarchie angeliche, ma solo la fine della loro attività efficace nei nostri confronti. Allora sarà noto e sperimentabile da tutti che tutto, compresi gli angeli, trae la propria esistenza e la propria potenza da Dio, principio di tutte le cose («ex quo sunt omnia»). Ridotte al nulla tutte le realtà, cioè rivelata la loro totale dipendenza da Dio, dovrà essere completata la sottomissione di tutte le forze che Gli sono ostili (v.25): È necessario infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. La rimozione del male è il secondo lato del fine della Risurrezione. I nemici di Cristo verranno distrutti. Stanno già da ora sotto i piedi di Cristo, ma in due modi diversi: perché si sono convertiti a Lui oppure perché - nonostante la loro opposizione- Cristo compie comunque la Sua volontà. Perciò sono sconfitti, o in quanto conquistati da Lui, o in quanto puniti da Lui. Ciò che avverrà alla fine però si distacca qualitativamente dallo stato presente, poiché i nemici di Cristo staranno sotto i Suoi piedi nel senso che dovranno sottomettersi alla Sua umanità («sed in futuro ponet sub pedibus, id est sub humanitate Christi»). I reprobi saranno non solo sottomessi al capo (la divinità di Cristo), ma anche ai suoi piedi (la sua natura umana). La forma paolina «donec ponat» («finché abbia posto») significa che il Regno di Cristo crescerà gradualmente, manifestandosi in modo sempre più chiaro e indubitabile fino a che tutti i Suoi nemici non saranno stati sottomessi, cioè fino a quando ogni forza ostile a Cristo non avrà riconosciuto che Egli regna. Allora il Regno cesserà di crescere, perché avrà raggiunto la sua massima estensione manifestandosi in tutto e in tutti. La forza più ostile di tutte, la morte, sarà infine compresa in questo Regno (vv.26-27a): L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi. Ostile alla vita in quanto tale, la morte dovrà essere la «novissima inimica», perché il suo posto è la fine. Essa infatti non può coesistere con la vita, e a fortiori con la vita reintegrata da Cristo. La Risurrezione è la morte della morte (cf Os 13,14 nella versione della Vulgata: «Ero mors tua, o mors!»). La rimozione della morte potrà avvenire solo alla fine, secondo l’ordine con cui la totalità delle cose viene da Dio («ut servet ordinem, quia quae a Deo sunt, ordinata sunt»). Completata la sottomissione, tutte le cose rimangono sottomesse a Cristo. Ma sono sottomesse a Dio Padre nella misura in cui Cristo stesso è sottomesso al Padre. Dobbiamo forse leggere in ciò una subordinazione del Figlio al Padre (vv.27b-28)? Però, quando dice che ogni cosa è stata sottoposta, è chiaro che si deve eccettuare Colui che gli ha sottomesso ogni cosa. E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anch'egli, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti. All’umanità del Figlio il Padre ha sottomesso tutto («subiecit omnia Filio, inquantum est homo»); è quindi all’umanità del Figlio che il Padre si rivela superiore («et sic Pater est maior Filio»), e non alla divinità, giacché il Figlio è pari al Padre e opera col Padre, facendo tutto ciò che Egli fa. Di conseguenza, l’umanità di Cristo è tanto sottomessa al Padre quanto è sottomessa alla natura divina del Figlio, e precisamente perché tutto -senza esclusione- sia sottomesso a Dio, e così Dio sia «omnia in omnibus». Ecco che infine lo sdoppiamento della consegna del Regno al Padre prende tutto il suo senso. San Tommaso suppone infatti che, affermando che tutto sarà sottomesso a Cristo (v.28: «cum autem subiecta fuerint illi omnia»), l’Apostolo volesse indicare che non è nell’umanità di Cristo che deve essere cercato il fine ultimo della Risurrezione. La creatura razionale sarà condotta oltre, fino alla contemplazione beata di Dio. In essa infatti, e in nient’altro, è la felicità dell’uomo («in ea est beatitudo nostra»). L’itinerario che dalla natura umana, assunta dal Verbo, conduce fino alla reintegrazione della dignità primigenia nella sconfitta della morte e del peccato, introduce ultimamente -e trova il suo riposo- solo nella visione di Dio, unione perfetta. Questo è il vero scopo della Risurrezione: la riconduzione di ogni bene alla sua origine divina, perché solo in Dio sia riconosciuta e sperimentata eternamente la vita, la salvezza, la virtù, la Gloria, e ogni cosa. Perché solo Dio sia la nostra felicità («solus Deus sit beatitudo») e l’esistenza, spogliata di tutto ciò che non è Lui, corra incontro al suo destino, che è quello di riceversi in pienezza per l’eternità dal Suo Redentore.
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In questo breve articolo vogliamo puntare l’attenzione su un punto problematico di una parte purtroppo non minoritaria dell’esegesi neotestamentaria contemporanea: l’interpretazione della storicità della Risurrezione di Cristo e il ruolo della comunità primitiva nell’elaborazione dei racconti della tomba vuota. La Risurrezione va intesa come un fatto storico vero e proprio oppure come una pura esperienza interiore degli apostoli? Se la seconda ipotesi fosse vera, si dovrebbe creare artificiosamente nell’insieme delle testimonianze pasquali del Nuovo Testamento una cesura ingiustificabile: quella tra storia e fede. Ma questa dicotomia non rivestiva nessun interesse per la prima generazione cristiana. Il programma esegetico del protestantesimo liberale seguiva, nei confronti del Nuovo Testamento, un precetto che non poteva essere messo in discussione: considerare ogni professione di fede nella Risurrezione di Gesù Cristo e ogni racconto delle visioni del Risorto presenti nei Vangeli e negli Atti degli Apostoli -ma anche in alcuni testi paolini- come il risultato di una lunga e intricata elaborazione letteraria e teologica. La funzione di un tale lavorìo teologico sarebbe stata quella di costruire un racconto capace di restituire in termini narrativi la testimonianza di un’esperienza che non era strettamente storica, ma interiore e mistica. Il fatto che si trattasse di una interpretazione la cui logica rimaneva tutta interna alla testimonianza stessa rendeva impossibile -e in fondo sbagliato- cercare di ricostruire gli eventi storici soggiacenti a quei testi. I racconti pasquali non dovevano essere presi alla lettera. Il loro valore storico doveva considerarsi nullo. Ciò che contava era la loro interpretazione. Nel migliore dei casi, si ipotizzava che a questa elaborazione apostolica e subapostolica si accompagnasse una sostanziale buona fede; nel peggiore, si immaginava di aver a che fare con una dannosa sofisticazione dell’originaria esperienza cristiana. In ambedue i casi, tale elaborazione avrebbe avuto il suo punto di partenza in una intuizione “spirituale”, in un fenomeno puramente interiore. La fede degli apostoli, allo sguardo demistificatorio dell’esegeta, doveva perciò risultare indipendente dai racconti degli incontri sensibili col Risorto, come anche dai racconti della tomba vuota. Occorreva separare quella fede da qualunque concezione esplicitamente e crudamente “fisica” della Risurrezione di Cristo, e questo fin negli strati più arcaici della documentazione evangelica. Il modernismo cattolico (sia nella sua forma originale, tra fine ottocento e primi del novecento, sia nella sua incarnazione “progressista” postbellica) seguì il protestantesimo su questa strada. Una fede impossibile? L’impostazione era essenzialmente ideologica, e rispondeva a un presupposto storico e filosofico preciso, cioè alla postulata impossibilità di credere a una Risurrezione (intesa come rianimazione) reale di Cristo nella cornice della Weltanschauung moderna. Il significato dei racconti evangelici veniva quindi ridotto secondo la misura di una mancanza di fede che doveva essere ormai assunta come un dato inconfutabile ed irreversibile. Gli strumenti di questo programma di lungo corso -che arriva coi suoi più recenti epigoni sino a noi- si sono avvicendati e sovrapposti: lo storicismo romantico con la sua fascinazione per lo spessore poetante e trasfigurante della tradizione biblica, il sociologismo con il suo corollario di eziologie contestuali, l’esistenzialismo con la sua smania di attualizzare l’appello alla conversione -il kérygma - saltando a pie’ pari la concretezza storica dell’evento evangelico. Parlando della Risurrezione come di un «mito», Rudolf Bultmann fu in fondo onesto riguardo al suo programma teologico, e rivelò al di là di ogni ragionevole dubbio quale è l’esito a cui esso conduceva. Le cause prossime e quelle remote di un simile programma intellettuale (e pastorale: questa impostazione doveva tracimare immediatamente, con un entusiasmo degno di altre imprese, nella predicazione, la quale si imbottì in men che non si dica di richiami al «Sitz im Leben», alla «comunità primitiva pre e postpasquale» e alla «comprensione non mitica della Risurrezione») devono essere cercate nella inamovibile convinzione che sia assolutamente impossibile, all’uomo entzaubert (disincantato) dell’epoca tecnologica, credere ad eventi soprannaturali. Il rifiuto pregiudiziale del miracolo è la tara di questo atteggiamento spirituale. La Risurrezione del Signore è il più clamoroso tra i miracoli, e in quanto tale doveva essere espunta nella sua letteralità, per entrare in quel limbo fumoso e anfibio che è lo spazio interpretativo. A mediare tra l’evento storico concreto, la sua risonanza esperienziale nel mondo interiore degli apostoli e l’espressione linguistico-narrativa di quell’esperienza sarebbe rimasto solo il milieu esegetico di una modernità intellettualmente avara, che legifera tirannicamente sui confini della credibilità spostandone continuamente i paletti, ma senza rendersi mai conto fino in fondo della sua soffocante autoreferenzialità. All’interno di questo spazio cangiante può regnare solo il sospetto, che non a caso è stato coltivato come una virtù cardinale. Non parliamo in questo caso di quel sospetto metodologico che è parte insostituibile della dimensione critica della ricerca esegetica. Parliamo di un sospetto che si insedia nel campo in cui normalmente dovrebbero prosperare l’amore al testo, l’obbedienza alla verità e la serietà nei confronti della rivelazione; parliamo di una diffidenza pervicace e prevenuta verso qualunque affermazione soprannaturale, che smette di essere una precauzione metodologica per farsi -sotto la maschera austera dell’onestà intellettuale- postura teoretica e atteggiamento esistenziale . Due tipi di testimonianza? Su di un piano strettamente metodologico, questo genere di esegesi comporta l’introduzione di una rottura, di una disomogeneità nella interpretazione delle testimonianze apostoliche. Avremmo così, secondo questa impostazione, due tipologie di racconti: quelli in cui si riferiscono fatti reali, storici, e quelli in cui si riferisce -sotto una veste narrativa che sarebbe in realtà una protointerpretazione teologica- l’esperienza propriamente indicibile del Gesù vivo nello Spirito. Che uno schema simile sia -come detto- di natura ideologica lo dimostra il fatto, molto chiaro, che non sia affatto questa l’intenzione dei testi neotestamentari. Prendiamo, a titolo di esempio, il discorso di Pietro a Cornelio riportato in At 10, in particolare ai vv.39-41. Gli apostoli sono testimoni tanto delle cose compiute da Gesù nella regione dei giudei e a Gerusalemme quanto della sua Risurrezione. Non c’è soluzione di continuità tra i due generi di testimonianza; non sono riferiti l’uno a fatti esteriori -sensibili- e l’altro ad un’esperienza interiore del Cristo vivente e glorioso, che poi debba essere tradotta nei termini immaginativi di una narrazione. Sono invece le due parti di una testimonianza omogenea, che si riferisce in tutti e due i casi a eventi storici. Non abbiamo a che fare con due esperienze eterogenee, che avrebbero come oggetto l’una il Gesù della storia e l’altra il Cristo della fede. Distinzioni di questo genere rispondono molto bene alla mentalità dell’esegeta moderno, ma di sicuro non si riscontrano nella natura specifica della testimonianza degli apostoli e nell’intenzione autentica dei testi in cui essa si è depositata (cf. At 4,20). Le apparizioni non sono dunque l’esplicitazione immaginativa di una qualche esperienza interiore con cui Cristo si sarebbe rivelato come vivente. Non è questo che intendono i nostri testimoni. Una simile affermazione sarebbe una pura invenzione a posteriori, che rifletterebbe la mentalità dell’esegeta, non quella degli apostoli e dei discepoli. [...] “Risuscitato” non può avere due sensi. O significa che il corpo del Cristo non è rimasto nella tomba, ma è stato vivificato dalla potenza di Dio ed ha così potuto essere visto e toccato, allo stesso modo di prima, dai testimoni, o non significa niente. (Jean Danielou, La Risurrezione, 1969) Intendere la Risurrezione di Cristo come la pura “interpretazione” di una “esperienza interiore”, prescindendo dalla sua natura di fatto concreto, rende di fatto impossibile comprendere o anche solo giustificare la predicazione apostolica così come ci è trasmessa in testi come quello di At 2,29-31, in cui il discorso sul corpo, sulla «carne» di Cristo, diventa il criterio di verifica della profezia. Di questo parlavano gli apostoli. Questo volevano testimoniare al mondo. Non è la fede della comunità primitiva in quella “esperienza interiore” ad aver generato i racconti evangelici come affabulazione e mitopoiesi; piuttosto, è la testimonianza delle apparizioni sensibili del Risorto offerta dagli apostoli di fronte alla comunità a costituire il senso di quei racconti. Racconti che la Chiesa ha sempre recepito come resoconti di eventi reali. La Risurrezione di Cristo non è il prodotto della fede: è la fede ad essere la conseguenza della Risurrezione.