Search the Community
Showing results for tags 'kwasniewski'.
-
Il libro di K. La vera obbedienza nella Chiesa come gli altri suoi scritti su OnePeterFive, è un testo battagliero, scritto con piglio polemico e vivace, di sicuro ambito tradizionalista (anche se riflette un certo tradizionalismo), ma non privo dei consueti difetti dell'autore. Ovvero una certa superficialità e la tendenza a semplificare. Un premessa è d'obbligo. K. dice che l'obbedienza ai propri superiori nella Chiesa deve essere subordinata alla 1) fiducia riposta o meno in essi e 2) alla legittima subordinazione ovvero al riconoscimento dei costumi e delle tradizioni (sic! vedi pp. 8-9). Dove ricavi questi due criteri molto personali, non lo spiega chiaramente: certamente, non appartengono al Magistero, che dice altro a tal proposito, ma, piuttosto, sembrano due principii molto arbitrari o, meglio, scelti per tirare certe conclusioni. Sorvolando quindi sui temi della liturgia, dove il rito nuovo è interpretato in termini esclusivamente negativi in chiave lefebvriana (p. 26), bisogna soffermarsi sul luogo comune del "bene comune" (si scusi il bisticcio) contrapposto all'autorità che scientemente vìola tale bene, così come esposto da S. Tommaso (pp. 16-17). E', a sua volta, un luogo comune ricorrere a questo argomento ma, se si legge con attenzione il filosofo medievale, senza estrapolare frasi dal ricco contesto, si vede bene come il bene comune (in senso politico, va aggiunto, ovvero la famiglia e l'individuo) ha bisogno dell'autorità e della responsabilità della legge umana e del governo per prosperare, che ne assicurino cioè la protezione. Dunque non si possono contrapporre tout court bene comune e autorità. Anche perché ai tempi di S. Tommaso, contrapporsi all'autorità significava ribellarsi ai potenti baroni feudali. Lo stesso vale per un altro esempio portato dall'autore e cioè quello del rapporto fra l'autorità e il fedele e la subordinazione del figlio nei confronti del padre (pp. 7-8, 11-12). Secondo K. il modello è il medesimo. Il fedele/figlio può disobbedire all'autorità/genitore se il comando ricevuto va contro la legge divina o naturale. Ma questa interpretazione di Ef 6, 1, a ben vedere, non ha nulla di rivoluzionario: il comando di obbedire non è mai assoluto ma, diversamente da quanto la gente pensa di solito, condizionato: va cioè sempre confrontato con il contenuto della legge divina e/o quella naturale: perché «dobbiamo ubbidire a Dio, piuttosto che agli uomini», come dice san Pietro (At 5,29). Allo stesso modo, allora, siamo obbligati ad accettare l'insegnamento non infallibile del romano pontefice (perché è di questo che si vuol parlare, sostanzialmente) solo a condizione che agisca nell'ambito della sua autorità secondo la legge divina. Se insegnasse qualcosa di contrario a una legge superiore in cui credere, allora l'obbligo di dare il consenso religioso a questo insegnamento cederebbe all'obbligo più severo che obbliga i fedeli a credere alla parola di Dio e - punto assai cruciale, trascurato da K. - ad attenersi all'insegnamento infallibile della Chiesa. Questo è il punto. Non ribellarsi tout court e basta. Se no veramente l'obbedienza non è più una virtù, per parafrasare un altro testo d'altri tempi. A queste puntualizzazioni vanno aggiunte queste altre di tipo canonistico. K. sembra distaccarsi dalla nozione di comunione ecclesiale, concependo il rapporto tra fedeli e Pastori in termini puramente dialettici e di contrapposizione. Il can. 212 del Codice di Diritto Canonico offre norme di sapiente equilibrio. Il primo paragrafo ricorda che i fedeli, in modo responsabile, ossia "consapevoli della propria responsabilità" sono tenuti ad osservare "con cristiana obbedienza" ciò che i sacri Pastori, in quanto (e nella misura in cui) "rappresentano Cristo", dichiarano "come maestri della fede o dispongono come capi della Chiesa". D'altra parte il secondo paragrafo sancisce che i fedeli sono liberi di manifestare ai Pastori della Chiesa le proprie necessità, soprattutto spirituali, e i propri desideri. Il terzo paragrafo poi addirittura prevede che i fedeli, in rapporto alla scienza, alla competenza e al prestigio di ciascuno, abbiano non solo il diritto, ma addirittura il dovere di manifestare ai sacri Pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa e di renderlo noto agli altri fedeli, fatti salvi l'integrità della fede, dei costumi e il rispetto verso i Pastori, tenendo presente l'utilità comune e la dignità delle persone. Come si vede, la stessa normativa è piuttosto larga nel riconoscere ai fedeli non solo il diritto ma addirittura il dovere di intervenire nelle discussioni relative al bene della Chiesa, avendo però come presupposti "scienza, competenza e prestigio" (evitando le chiacchiere da bar), ed usando modalità che siano rispettose non solo per i Pastori, ma per la dignità di ogni persona, e naturalmente nei limiti di una fede e di costumi integri. L'obbedienza non si oppone quindi alla coscienza e alla responsabilità, che incombe a ciascuno, che sia però dotato di una adeguata scienza e competenza e che sappia mantenersi nell'ambito di uno stile di autentica comunione. Questa norma deve esser poi letta con quelle successive, relative ai diritti e ai doveri dei fedeli, ossia fino al can. 223 compreso. Atti di ribellione, di disprezzo delle norme e dei provvedimenti, al di fuori dei legittimi canali di impugnazione, non solo non appartengono ad una logica di comunione, ma si distaccano anche dal principio di realtà, perché portano inevitabilmente all'applicazione di sanzioni, anche gravi e gravissime, che è utopico pensare possano essere superate in un fantasioso prossimo futuro. Purtroppo molti tendono a farsi una Chiesa immaginaria, contrapposta a quella reale, fatta di santi e peccatori, come noi tutti siamo. Insomma: K. va letto perché ha sovente buoni spunti di riflessione, ma non andrebbe consigliato, soprattutto a chi non dispone delle chiavi di lettura adeguate per affrontare un autore che è un sincero cristiano, indubbiamente coinvolgente, in quanto schiettamente militante, ma non sempre edificante per il suo piglio rivoluzionario, soprattutto per i tanti perplessi di oggi.