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È stato pubblicato, qualche giorno fa, il video dell’intervista fatta da Guido Horst (caporedattore del settimanale cattolico tedesco Die Tagespost) a mons. Gänswein, segretario privato di Ratzinger da prima che fosse eletto al Soglio petrino. Lo scambio, che ripercorre i gangli fondamentali della vita, dell’opera e del pensiero del teologo e Papa bavarese alla luce dell’esperienza di mons. Gänswein, è capace di illustrare le preoccupazioni e le angosce che hanno abitato il cuore e la mente del Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede prima e del Sommo Pontefice poi: la decadenza della fede e della società occidentale, il rapporto tra fede e ragione, le proteiformi problematiche specifiche delle chiese locali e via dicendo. Un punto particolarmente rilevante dell’intervista, che sta già facendo ampiamente discutere diverse anime all’interno della Santa Chiesa e che è destinato a rimanere fulcro di dibattito anche nel tempo a venire, è quello in cui l’ormai ex segretario privato di Benedetto XVI afferma che il motu proprio di Papa Francesco Traditionis Custodes, che impone diverse limitazioni alla celebrazione della santa Messa more antiquo, sia stato recepito negativamente dal Papa emerito. In particolare, mons. Gänswein ha dichiarato: «[il motu proprio Traditionis Custodes] è stato un punto di svolta. Io credo che leggere il nuovo motu proprio abbia addolorato il cuore di Papa Benedetto, perché la sua intenzione è stata quella di aiutare coloro che semplicemente hanno trovato una casa nella Messa antica per trovare pace interiore, trovare pace liturgica, col fine di portarli lontano da Lefebvre» Il prelato ha continuato, dicendo: «E se pensate per quanti secoli la Messa antica è stata fonte di vita spirituale e nutrimento per tante persone, compresi molti santi, è impossibile immaginare che essa non abbia più nulla da offrire. E non dimentichiamo che molti giovani – nati ben dopo il Vaticano II e che non comprendono davvero tutto il dramma che ha circondato il Concilio – che questi giovani, che conoscevano la Messa nuova, hanno nondimeno trovato una casa spirituale, un tesoro spirituale anche nella Messa antica». Mons. Gänswein ha concluso dicendo «Togliere questo tesoro alle persone… Bene, non posso dire di essere a mio agio con ciò». Per quanto la dichiarazione sulla reazione di Benedetto XVI al motu proprio Traditionis Custodes sia un’interpretazione personale del fatto (formulata iniziando con “io credo”), è chiara a tutti la sua attendibilità, a meno di voler mettere in dubbio la parola di chi ha potuto conoscere il pensiero e l’approccio di Benedetto XVI meglio di chiunque altro. Senza contare che il motu proprio Summorum Pontificum, che tolse tanti vincoli per la celebrazione della santa Messa in vetus Ordo, vede la paternità dello stesso Papa Ratzinger (il che pare scontato, ma forse è bene ricordarlo). Con don Nicola Bux, cerchiamo di fare il punto della situazione. Don Nicola, cosa dice al cattolico d’oggi, dal punto di vista ecclesiale, questa pesante dichiarazione di mons. Gänswein a riguardo della reazione di Benedetto XVI al motu proprio Traditionis Custodes? Quale portata e quali possibili conseguenze può avere? Non mi sorprende. Qualcuno si chiederà: perché non l’ha fatto prima. Forse per non accrescere la tensione o forse perché Benedetto non aveva più la forza di intervenire, come invece aveva fatto sul celibato, durante il sinodo dell’Amazzonia. La reazione però va meditata da parte di papa Francesco e dei fautori della rottura: a chi giova rompere la pace liturgica, come egli disse a Parigi? Per non dire dell’affermazione, priva di fondamento storico che una è la lex orandi della Chiesa. Se così fosse, si dovrebbero annullare le forme liturgiche orientali e occidentali. Chi non sa, che esiste diversità tra le chiese orientali fra loro e all’interno di ciascuna? La liturgia bizantina non ha tre forme: quella di S.Giovanni Crisostomo, quella di san Basilio e quella dei Presantificati? E la latina non può avere due forme: quella di Damaso-Gregorio Magno-Pio V e quella di Paolo VI? Mi auguro un ripensamento al Dicastero del Culto Divino e quindi nel papa. Ma, col tempo, siccome l’affermarsi della liturgia tradizionale è inarrestabile, si apriranno dei varchi. Bisogna pazientare, persistendo. È certamente situazione inedita quella in cui, vivente un Papa dimissionario, il Papa regnante emana un documento che contraddice un atto del predecessore, e questo brano di intervista ci fa scorgere un retroscena impressionante di ciò. In particolare, la questione si impernia sul tema della liturgia. È cosa nota che, nel tempo, si è tentato in ogni modo di comporre o contrapporre i due pontificati di Papa Benedetto XVI e di Papa Francesco. Parlando specificamente della visione liturgica, come sarà possibile parlare di continuità, tenendo conto di Traditionis Custodes e delle dichiarazioni di mons. Gänswein? Il magistero di un papa può modificare quello del predecessore, nel senso però di un approfondimento e non di una rottura. Effettivamente Benedetto XVI ha fatto un discorso alla Curia Romana, il 22 dicembre 2005, che rimane una pietra miliare: l’innovazione non può andare in discontinuità con la tradizione, sia quanto al modo di intendere il Vaticano II, sia alla liturgia. Altrimenti, chi assicura che un domani la Chiesa non finisca per negare quanto oggi afferma? Ciò renderebbe insicuro l’atto di fede. Quel che era sacro, perciò, come egli ha scritto nel Motu Proprio Summorum Pontificum, resta sacro e non può essere all’improvviso proibito o ritenuto dannoso. Del resto, un’affermazione analoga si trova nella Costituzione Apostolica Missale Romanum, con cui Paolo VI lo promulgò: esso voleva essere una “renovatio”, un nuovo libro liturgico, che esprime e alimenta la fede della Chiesa, che si poggiava su ciò che l’ha preceduto. Se si leva l’“appoggio”, il fondamento del Messale damasiano-gregoriano-tridentino, non sta in piedi nemmeno quello paolino. La sensazione che serpeggia nella Chiesa è quella di una rottura sempre più profonda tra (semplificando) due visioni liturgiche, ecclesiologiche, teologiche. L’ermeneutica della continuità propugnata da Benedetto XVI pare sfumare nella temperie ecclesiale odierna. Al contrario, i sostenitori dell’ermeneutica della rottura stanno uscendo allo scoperto con sempre maggior vigore. Quest’intervista e altre esternazioni di questi giorni sembrano far trasparire questa situazione. È così, o bisogna prendere in considerazione un’altra lettura? Nel 1999, Pietro Prini scrisse Lo scisma sommerso. L’anno scorso, Antonioli e Verrani Lo scisma emerso.Conflitti, lacerazioni e silenzi nella Chiesa del Terzo Millennio. La storia della Chiesa, sin dal tempo apostolico, ha visto eresie, scismi e para-sinagoghe, per dirla con san Basilio, eppure la Cattolica è qui ancora oggi. Il segreto? Nemmeno troppo: è fondata, anzi unita a Cristo, come il corpo al capo. Quando le membra si ammalano, bisogna prendersene cura tutti, a cominciare dai pastori. Cosi, ha fatto papa Benedetto col suo pensiero e la sua azione, in specie verso i sacerdoti e i seminaristi. La prima cura è la dottrina ovvero l’insegnamento della fede trasmessa dagli apostoli, via via arricchitasi e non depauperata. La seconda cura è la liturgia sacra: altrimenti, come egli ha scritto, dal crollo della liturgia dipende la crisi della Chiesa. Ora, anche grazie a lui, da tanti segni che emergono, il sacro sta rinascendo e il futuro della fede è assicurato. Alcuni pensano che la morte di Benedetto XVI porterà ad un inasprimento e ad un’accelerazione di una determinata “agenda” all’interno della Chiesa, che avrebbe visto come tappa importante proprio l’abolizione del motu proprio Summorum Pontificum e la messa al bando della liturgia in vetus Ordo. È una preoccupazione fondata? Come si prospetta il futuro prossimo in questo senso? Dipende. Ma i pensieri di Dio non sono quelli degli uomini: questi non possono nulla, se un’opera viene da Dio. Sta avvenendo che molti sacerdoti, in tutto il mondo, nonostante le restrizioni, celebrando la Messa in Vetus Ordo, imparano a celebrare con devozione e ordine la Messa ordinaria. Dunque, è già in atto la “riforma della riforma”, auspicata da Joseph Ratzinger. Se nulla accade per caso, tantomeno la morte di papa Benedetto. Gesù, non ha detto che il chicco di grano se muore porta molto frutto? Dobbiamo pregare e procedere con la pazienza dell’amore. In allegato il video con sottotitoli in italiano Il_motu_proprio_Traditionis_Custodes_“ha_spezzato_il_cuore_a_Papa.mp4
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Premessa Una approfondita riflessione di p. Cassian Folsom osb: Il Grande Divorzio: una diagnosi delle nostre malattie liturgiche, accompagnata dall' appendice per seguire il discorso tecnico della seconda parte. E' importante soffermarsi sul tema e approfondirlo, al fine di comprendere meglio la questione della partecipazione alla liturgia . Conviene, per esempio, soffermarsi sul punto dell' "adattamento alle esigenze dei tempi moderni", postulato dalla Costituzione Liturgica del Vaticano II: in sostanza, se esso abbia inteso adeguare la sacra liturgia all'uomo, invece di chiedere all'uomo di elevarsi al livello della liturgia, per questo definita sacra. Influsso dell'Illuminismo e del Modernismo? Emblematico in tal senso è stato il fenomeno frequente di spostare l'altare in mezzo ai fedeli e non di favorire il movimento dei fedeli verso l'altare, come invece avveniva alle origini, e in epoca medievale e moderna. In verità, solo con la conversione, l'uomo è capace di "atto liturgico". Pertanto, fondamentale è l'approccio proposto dall'Autore mediante san Tommaso, per sanare il divorzio tra la parte razionale dell'anima e la parte sensibile: come conosciamo e cosa conosciamo; perchè l'uomo conosce la realtà in due modi: con i sensi interni e i sensi esterni. La riforma liturgica ha accentuato la comprensione intellettuale, rispetto a quella sensibile; invece bisogna farle funzionare entrambe. Insomma, alla liturgia serve la filosofia. Infine, p.Cassian chiede di usare il metodo paolino: vagliate ogni cosa e trattenete ciò che vale. E' cosciente dei limiti, perciò chiede di studiare. In tal modo, contribuiremo alla "riforma della riforma" auspicata da Benedetto XVI nel discorso sull'ermeneutica della continuità (22 dicembre 2005). Don Nicola Bux Una sintesi dello studio di P. Cassian a cura del Prof. Nicola Barile La relazione di p. Cassian parte da una constatazione: l’uomo moderno ha difficoltà ad accettare la liturgia così come ci è stata tramandata dall’antichità e dal medioevo. Forse perché l’uomo moderno è diverso? O piuttosto perché si è cambiato il suo modo di assistere all’atto liturgico? Secondo p. Cassian, è quest’ultima la giusta diagnosi dei mali liturgici attuali, ovvero è stato il progressivo spazio dato alla spiegazione intellettuale del rito, dall’illuminismo fino alle riforme più recenti, ad aver soffocato la partecipazione al gesto intuitivo/simbolico caratteristico del rito antico. La soluzione prospettata da p. Cassian è filosofica: egli invita a riscoprire la filosofia di S. Tommaso d’Aquino per comporre il grande divorzio tra la parte razionale e la parte sensibile dell'anima, unendo i due modi di conoscere dell’uomo: solo così si può entrare nel cuore della liturgia, e con tutte le facoltà dell’essere umano, adorare Dio. Di seguito le parti salienti dello studio (Per la relazione completa scaricare i files allegati a piè di pagina): L'uomo moderno ha difficoltà con la liturgia (Guardini). Perché? Perché l'età moderna, influenzata com'è dal pensiero illuminista (Robinson) ha prodotto un uomo moderno la cui capacità di compiere l'atto liturgico si è atrofizzata? O, perché l'uomo moderno è sostanzialmente diverso dall’uomo medievale o dall’uomo dell’età classica ed ha quindi bisogno di una nuova liturgia adattata alle realtà moderne? Vorrei far presente che la prima risposta è molto più appropriata rispetto alla seconda, vale a dire che la capacità dell'uomo moderno di compiere l’atto liturgico è stata in qualche modo troncata. Come? La risposta, a mio avviso, si trova nel campo dell'epistemologia, e cioè, lo studio di come arriviamo alla conoscenza delle cose. La mia intuizione è che questa atrofia nella nostra capacità di compiere il Kultakt, per usare l'espressione di Guardini, sia il risultato di una visione restrittiva dell'uomo e del suo modo di conoscere. La grande intuizione del cristianesimo, infatti, è che riusciamo a conoscere Dio proprio attraverso l’ordine naturale. Infatti, tutto il nostro sistema sacramentale si basa sull'analogia. Nei sacramenti, gli elementi materiali indicano realtà divine. Dovrebbe quindi essere logico che la liturgia sia un posto, per eccellenza, dove si possa incontrare Dio per analogia. Se questo è il caso, come facciamo a conoscere Dio nella liturgia? E cosa sappiamo di Dio nella liturgia? Come conosciamo la persona umana è una, ma il processo di conoscenza è molteplice e complesso. Una stessa persona può capire con la sua mente e intuire con i suoi sensi. (Naturalmente è molto semplificato, ma sarà sufficiente per i nostri scopi). Cosa conosciamo della liturgia Dal punto di vista dell’anima sensibile, gli oggetti della conoscenza nella liturgia sono i segni sacramentali concreti, la gestualità, i simboli. Infatti, i sacramenti sono radicati nei cinque sensi. La musica, l’arte e l’architettura sono tutti, in primo luogo, oggetti della potenza sensibile dell'anima (anche se l’intelletto, poi, può e deve capirne il significato). Negli ultimi cinquant’anni, nonostante ci sia stato un interesse accademico per i segni e i simboli della liturgia, nella pratica, la maggior parte delle celebrazioni eucaristiche sono state prese dalla "messa bassa", dando come risultato una predominanza delle parole. In effetti, questo riduce la liturgia a un esercizio della parte razionale dell'anima, lasciando la parte sensibile dell'anima poco sviluppata. Ma cosa succede se separiamo le potenze sensibili dell'anima dalle potenze razionali e agiamo come se avessero poco o nulla a che fare l’una con l'altra? Cercherò qui di spiegare la mia tesi. Ho il sospetto che alla radice dei nostri mali liturgici vi sia un grande divorzio tra la parte razionale e la parte sensibile dell'anima. La tendenza delle riforme post conciliari è quella di accentuare la comprensione intellettuale. La Forma Straordinaria, d’altra parte, soprattutto nella Messa Cantata o nella Messa Solenne, dà molto più spazio all’immaginazione simbolica. Ma i due modi di conoscere sembrano completamente separati. Questo divorzio non ci rimanda forse all'illuminismo? L'obiettivo a cui aspiriamo, naturalmente, è l'unità di ragione e immaginazione, la sinergia tra le parti razionali e le parti sensibili dell'anima. Quando questo accade (e lo sperimento spesso, come anche voi, ne sono certo), la persona che prega è sollevata da sé e portata - almeno per un periodo di tempo - nella liturgia celeste. Se la mia intuizione è corretta, ovverosia che il Grande Divorzio possa essere fatto risalire al periodo dell'Illuminismo, allora dovremmo essere in grado di trovarne traccia nella storia liturgica del tempo. I manuali di storia liturgica tendono a non trattare affatto quest’argomento, riunendo insieme i secoli dopo il Concilio di Trento e passando dalle riforme liturgiche post tridentine al movimento liturgico del ventesimo secolo. Un’eccezione a questa tendenza è il lavoro di Enrico Cattaneo, contenente un capitolo abbastanza dettagliato dal titolo “La disciplina della Liturgia Pastorale nel 1700” (di cui solo alcune parti sono pertinenti alla nostra questione specifica); un altro lavoro sul tema è la Storia della Liturgia di Burkhard Neunheuser, piuttosto densa, in cui è presente un breve capitolo (con alcune note bibliografiche) dal titolo “L'Illuminismo del XVIII secolo”. Neunheuser distingue quattro gruppi di persone in questo periodo: a) i sostenitori di un radicale scetticismo anticristiano; b) i promotori di un’opposizione tra cristianesimo positivo (con le leggi e le norme imposte dalla Chiesa) e una religione naturale; il loro intento, tuttavia, non era quello di distruggere la fede cristiana; c) i teologi collocabili in una via di mezzo, che pur non toccando il sistema dogmatico della Chiesa in quanto tale, spiegano i dogmi individuali lungo le linee di una cosiddetta religione morale: questi teologi erano numerosi, soprattutto tra i cattolici; d) le persone sincere, teologi e laici, che, avendo compreso i reali difetti dell’epoca, erano pronte per essere aggiornate, ma in senso autenticamente cristiano. Tra i rappresentanti più illustri si annovera il grande vescovo Johannes M. Sailer di Ratisbona. La mia tesi su “Il Grande Divorzio” tra le parti razionali e sensibili dell'anima deve essere vagliata. Qui vi è ampio spazio per la ricerca. Alcune aree di studio ulteriore sono le seguenti: a) il pensiero di Romano Guardini sull'uomo moderno e sulla sua capacità verso l'atto di culto. b) L’epistemologia di San Tommaso applicata alla liturgia. c) L’epistemologia illuminista applicata alla liturgia. d) Gli studi della storia liturgica nel diciottesimo secolo (Francia, Germania, Austria, Italia). e) Gli studi di liturgia medievale, in particolare la nozione di partecipazione dei fedeli per mezzo del simbolo e dell’allegoria. Di seguito gli allegati con la relazione completa e l'appendice C.Folsom-Il Grande Divorzio.docx C.Folsom-Allegato.docx
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Possibile che anche in occasione del Corpus Domini,il leit-motiv debba essere i poveri e l'ambiente? Non è la festa di quel Sacramento che solo può togliere la fame di Dio,che è la radicale povertà dell'uomo?Eppure lo ricorda all'inizio la Sequenza Lauda Sion: Laudis thema specialis/ panis vivus et vitalis/ hodie proponitur (Il tema speciale della lode odierna è il Pane vivo che dà la vita).Allora, annunciamo e inneggiamo a quel Dio che si è fatto carne e poi pane vivo per nutrirci in questo mondo e grazie a ciò risuscitarci nell'altro. Sono sempre di più quelli che non sanno nulla di Gesù Cristo, mentre dei poveri, dei migranti, degli ucraini ecc. ne sentono parlare a iosa. Non ha Lui assicurato che i poveri li avremo sempre con noi, ma non sempre avremo Lui? Parola misteriosa: ma ci ricorda che Egli non è venuto a risolvere il problema della povertà, o a portare la pace universale, ma a rendere presente Dio nel mondo. Per questo dobbiamo onorarlo, sì, anche con drappi e ori e lumi, perché egli è il Signore e il Re dell'universo! Giovanni Crisostomo richiama a non disgiungere l’onore dato a Cristo nella liturgia e l’onore dato a Cristo nel povero: "Vuoi onorare il corpo di Cristo? “Ebbene, non tollerare che egli sia nudo; dopo averlo onorato qui in chiesa con stoffe di seta, non permettere che fuori egli muoia per il freddo e la nudità. … Dico questo non per vietarti di onorare Cristo con tali doni, ma per esortarti a offrire aiuto ai poveri insieme a quei doni, o meglio a far precedere ai doni simbolici l’aiuto concreto … Mentre adorni la chiesa, non disprezzare il fratello che è nel bisogno: egli infatti è un tempio assai più prezioso dell’altro."(Giovanni Crisostomo, Commento alla seconda lettera ai Corinti, Omelia 20,3, PG 61,540). Unum facere et aliud non omittere. Non citiamo a metà. In quale parrocchia cattolica non ci si prende cura del povero? La presenza di Gesù Cristo nel povero è morale; mentre quella nel Sacramento è vera, reale, sostanziale. Una bella differenza! Al Corpus Domini, quindi, prendiamoci cura di Lui. E non disturbiamo la preghiera processionale con didascalie sociologiche e commenti ideologici che non aiutano ad adorare. Soprattutto ricordiamoci che la processione è un sacramentale, ovvero deve aiutare tanti che sono lontani, ad avvicinarsi a Dio, a coglierne la Presenza. Per questo, san Tommaso invita ad osare quanto più possibile nella lode al Sacramento(tantum audes quantum potes).Come potrebbero i tanti giovani e adulti essere almeno incuriositi e, come Zaccheo, alzarsi dai tavolini e dagli smartphone a cui sono intenti, se il Santissimo, zigzagando tra le isole pedonali della città - viene portato quasi furtivamente, senza nemmeno una lampada che lo illumini, una tromba che ne annunci il passaggio? Chi se ne accorge che passa il Signore dei signori e il Re dei re(Gregorio di Nissa)?Dove son finiti i simboli amati dai liturgisti? Poi, la processione dovrebbe essere accompagnata dalle litanie, parola greca che sta a ricordare appunto la particolare forma breve ripetuta di preghiera nata per le antiche stationes, ossia i percorsi processionali da una chiesa all'altra. Invece delle intenzioni intellettualistiche, se non ideologiche e quindi stucchevoli, si recitino le litanie del Santissimo Sacramento. E litanie della Madonna e quelle dei Santi: perché no? il Signore, in Cielo non vive da solo, ma con Maria, gli Angeli e i Santi, e in terra opera con la loro intercessione. Orientales docent. Sul repertorio di canti sacri(sic!), si rimanda ai giudizi severi del benedettino Anselmo Susca, di Domenico Bartolucci e...di Riccardo Muti, per non risalire a quelli nichilisti di Nietzsche: "vorrei canti di gente salvata". Infine, che ci faceva un gazebo di Protestanti nella strada principale attraversata dalla processione, in cui hanno continuato la loro assemblea senza manco diminuire il volume dell'altoparlante? Sapessero o meno che c'era la processione del Corpus Domini, almeno il rispetto, non dico... l'ecumenismo! Dunque, se il mondo si corrompe, non lamentiamoci: il sale del cristianesimo è diventato insipido. E le nostre liturgie, come se Egli non fosse presente e ascoltasse: danze vuote intorno al vitello d'oro che siamo noi stessi. Siamo noi chierici a favorire la secolarizzazione: la pagheremo cara, disse Giovanni Paolo II! E lo vediamo. Per non metterci in ginocchio davanti a Cristo, ci stiamo inginocchiando davanti al mondo. "Quanti padroni finiscono per avere quelli che rifiutano l'unico Signore"(S.Ambrogio)
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Sia lodato Gesù Cristo. Nel Vangelo (Gv 6,56-59), Gesù richiama l'episodio dell'Antico Testamento quando, nel deserto, gli ebrei affamati, non avendo possibilità di confezionare il pane, videro cadere dal Cielo un alimento simile al pane che suscitò in loro la domanda Man hu? - cos'è questo? Di qui viene il termine manna. Quindi, la questione di come potesse Gesù apprestare un pane celeste, se l’erano già posta gli israeliti, non riuscendo a comprendere come dal cielo potesse scendere qualcosa di simile al pane; grazie a quell'alimento, gli ebrei sopravvissero per quarant'anni dopo la liberazione in Egitto, finché non giunsero alla Terra Promessa. Questo fatto è simbolo di che cosa? Della nostra traversata, della nostra vita; a volte viviamo più di quarant'anni, ma non è molto diverso: ogni giorno è una traversata del deserto, con tutte le tentazioni che il deserto riserva. Nel posto di lavoro, nella famiglia, nel mondo: le opinioni più variopinte cui sei sottoposto sono spesso tentazioni e, per poter resistere ad esse, il Signore ci dà un pane, disceso dal cielo che, a guardarlo, sembra banale. Infatti, l'ostia che noi riceviamo nella Comunione, in apparenza, non dice quasi nulla, eppure il Signore ha detto - e qui si è giocato tutto perché come sappiamo, molti dei suoi discepoli se ne andarono dopo averlo ascoltato – “Chi non mangia la mia carne e non beve il mio sangue, non avrà in sé la vita”. Il discorso che l'evangelista Giovanni riporta nel capitolo sesto, riprende e approfondisce le parole del Signore: per oltrepassare la morte, bisogna nutrirsi di Lui; chi non mangia di questo Corpo e di questo Sangue rimarrà nella morte ovvero risusciterà per la dannazione eterna. Chi, invece, se ne nutrirà, Egli lo risusciterà per la Vita Eterna; qui la promessa del Signore ha raggiunto il culmine. Ma, non è altro che la conseguenza ultima del fatto che Dio è venuto nel mondo, si è fatto carne, è entrato nella nostra condizione umana; quindi, la Carne e il Sangue assunti da Dio, non sono come la carne e il sangue nostri: sono la Carne e il Sangue divinizzati da Dio. In definitiva, quando noi assumiamo questa Carne e questo Sangue, noi immettiamo la divinità in noi e questa divinità pian piano ci trasforma e ci farà resuscitare nel giorno del Giudizio. Pensate un po': come si può superare la morte! Giustamente, i Santi e i dottori che hanno riflettuto su queste parole di Cristo, su questa promessa di Cristo, hanno definito la Carne e il Sangue del Signore farmaco d’immortalità. E’ un alimento che estende a tutto il nostro essere l’immortalità, non solo l’anima ma anche il corpo. Pertanto, come tutti i farmaci speciali che noi in questo mondo assumiamo quando siamo malati, dobbiamo stare molto attenti: i farmaci, si chiamano così perché derivano dalla parola greca pharmakon che vuol dire veleno - anche se noi oggi la intendiamo come rimedio curativo. Naturalmente, può accadere che un farmaco diventi veleno. Lo dicono le avvertenze del foglietto illustrativo. Bisogna stare attenti quando si assume. Ci sono delle condizioni affinché faccia effetto. Analogamente il Sacramento Eucaristico che Cristo ha istituito ha i suoi effetti: l'effetto fondamentale è che ci trasforma pian piano in Lui medesimo. Quindi ci fa passare pian piano quasi senz’accorgercene dalla morte alla vita, già in questo mondo, a condizione che ci lasciamo trasformare e non resistiamo o addirittura assumiamo questo Sacramento in situazioni controindicate che finiscono per trasformarlo in veleno, come dice San Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi, dopo aver descritto come egli ha ricevuto questo Sacramento e come lo trasmette. L'Apostolo, è come se dicesse: non sono il padrone del Sacramento, non lo posso manipolare, in nessun senso: come l'ho ricevuto così lo devo trasmettere. Ricorda le parole che Gesù ha detto sul pane sul vino: “questo è il mio Corpo”, “questo è il mio Sangue” e poi aggiunge: “state attenti a come lo ricevete, perché se lo riceverete in modo indegno”, cioè in stato di peccato, “assumerete la vostra condanna. Ed è per questo che tra voi molti sono malati e tanti muoiono” (11,29-30). Allora, non è un pane qualsiasi, non è una bevanda usuale: è qualcosa di inusitato, di divino, anche se a noi si presenta sotto l'apparenza abbastanza semplice, del pane e del vino. La sequenza che abbiamo cantato, composta da San Tommaso d'Aquino, Lauda Sion, in una strofa lo dice con chiarezza: “sotto quello che vedi si nasconde qualcosa di sublime”. Poi, sta’ attento, perché l'esito di chi assume la stessa Comunione è opposto: se la assume il malvagio, l’esito è cattivo, se la assume il buono, l’esito è salutare. Quindi non prenderlo come se fosse un pezzo di pane comune; non appena è un alimento, è “panis vivus et vitalis”, cioè rimedio alla morte, appunto un farmaco: può avere un effetto negativo se tu lo assumi in condizioni negative, in disgrazia di Dio, non hai confessato i tuoi peccati, non hai fatto penitenza, quindi non sei riconciliato con Lui. Un esempio ricorrente: mentre assisti alla Messa, il tuo cellulare squilla e corri fuori per rispondere. Che hai fatto? Hai interrotto il tuo ascolto, il tuo colloquio col Signore per rispondere ad un’altro. Questo è uno dei peccati più gravi che si possa fare: peccato d’idolatria - contro il primo comandamento: “Io sono il Signore Dio tuo, non altri”. Noi, invece, abbiamo anteposto l’uomo a Dio! Il contrario di ciò che prescrivono Cipriano e Benedetto. Non ci accorgiamo che abbiamo messo Dio sotto i piedi. E quindi diamo spazio all'umano, che è ciò che ci conduce alla morte e alla dannazione. L'idolatria, di cui i profeti spesso accusavano gli israeliti, è qualcosa di terribile perché si attacca a noi senza accorgersene, perché viviamo condizionati dal materialismo e dall’edonismo e quindi si è attaccato a noi questo virus che, giorno dopo giorno, ci corrode fino a che non moriamo; anche se apparentemente viviamo, siamo ‘biologici’, esistiamo fisicamente, come zombies; non siamo ‘zoofori’ cioè anime viventi e portatori di vita: ecco il dramma della società contemporanea, da cui dobbiamo stare in guardia, se vogliamo salvare la nostra anima. Gesù Cristo ha voluto giungere al supremo Sacrificio di sé per farci comprendere a cosa dobbiamo rinunciare, se vogliamo vivere. Dobbiamo rinunciare al nostro io se vogliamo che Dio viva in noi ma, se andremo dietro al nostro io, volessimo salvare il nostro io, allora noi moriremo, ma non della morte temporanea, quella che viene quando chiudiamo gli occhi, ma della morte eterna: la dannazione dell’inferno. Sono le parole del Signore che condanna chi mangia la Carne e beve il Sangue in maniera indegna. Cari fratelli e sorelle, questa festa del Corpus Domini, come sapete, è nata dall’atto di un incredulo, di un prete - guardate un po’ -, uno potrebbe dire: “i preti sono increduli?” Beh, è accaduto e accade che siamo i primi che non hanno fede. Non c'è da stupirsi. Il sacerdote boemo, Pietro da Praga, aveva dubbi sulla presenza reale; mentre celebrava la Messa, quei dubbi lo assalirono, nel momento culminante, quando il celebrante dice le parole di Cristo. Non sono parole sue: sono parole di Cristo, noi semplicemente prestiamo a Cristo la voce, niente altro; a quelle parole i dubbi di quel prete sulla reale possibilità che il pane fosse la Carne di Cristo e che il vino fosse il suo Sangue, lo assalirono. Però accadde l'imprevisto: vide nelle sue mani l’ostia sanguinare e macchiare il corporale - il lino quadrato che si ripiega in quattro parti e si mette sotto le sacre specie, e i gradini dell’altare e il pavimento. Era il 1263. Mensa e Corporale si ammirano a Bolsena e a Orvieto, nello stupendo duomo edificato oltre vent’anni dopo nel 1290, e che costituisce una sorta di grande reliquiario. La notizia si diffuse e, secondo la tradizione, il sacerdote che, spaventato, aveva avvolto tutto nel corporale per nascondere l’accaduto, si recò dal papa Urbano IV che si trovava a Orvieto in quel momento; questi mandò il vescovo a Bolsena per verificarlo. Così si constatò il miracolo eucaristico e, per celebrarlo - non era il primo e non è stato nemmeno l'ultimo – ma il più celebre, un anno dopo, con Bolla dell’11 agosto 1264, il papa estese alla Chiesa universale la festa del Corpus Domini. Papa Urbano IV incaricò Tommaso D’Aquino, di comporre la Messa e l'Ufficio del Corpus Domini. Egli non era solo un grande teologo, ma anche un uomo di grande fede, di mistica devozione, che faceva teologia in ginocchio, cioè in adorazione. In conclusione, ricordiamoci che noi non viviamo per noi stessi, ma per Uno che è morto e risorto per noi, come dice l’Apostolo. E che il senso della nostra vita e il nostro destino dipende dal nostro dire “Tu” a Gesù Cristo. Se noi impareremo a dire “Tu” a Gesù Cristo e a trarne le conseguenze, la nostra vita cambierà, metteremo da parte tante cose dietro cui andiamo ogni giorno, che sono frutto spesso di psicologismi, capricci, velleità: niente altro che le tentazioni del demonio; da quel momento, cominceremo a vivere non appena in modo ‘biologico’ ma ‘zooforico’: avvertiremo, avendo messo da parte il nostro io, che comincia in noi a vivere Cristo, esattamente come è successo a san Paolo. Questi, era stato un persecutore dei cristiani, e giunse ad affermare: “vivo, ma non io, vive invece Cristo in me… che mi ha amato e ha sacrificato sé stesso per me” (Gal 2,20). E’ il vertice a cui deve giungere la nostra fede. Se non arriviamo a questo vertice, stiamo perdendo tempo. La morte incombe - non importa quanti anni vivremo - e si rischia la dannazione. Ma se apriamo gli occhi in tempo, convertiremo la nostra vita dicendo ogni giorno “Tu” a Gesù Cristo, luce e vita del mondo. Sia lodato Gesù Cristo.
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Sia lodato Gesù Cristo. Nel Vangelo (Gv 6,56-59), Gesù richiama l'episodio dell'Antico Testamento quando, nel deserto, gli ebrei affamati, non avendo possibilità di confezionare il pane, videro cadere dal Cielo un alimento simile al pane che suscitò in loro la domanda Man hu? - cos'è questo? Di qui viene il termine manna. Quindi, la questione di come potesse Gesù apprestare un pane celeste, se l’erano già posta gli israeliti, non riuscendo a comprendere come dal cielo potesse scendere qualcosa di simile al pane; grazie a quell'alimento, gli ebrei sopravvissero per quarant'anni dopo la liberazione in Egitto, finché non giunsero alla Terra Promessa. Questo fatto è simbolo di che cosa? Della nostra traversata, della nostra vita; a volte viviamo più di quarant'anni, ma non è molto diverso: ogni giorno è una traversata del deserto, con tutte le tentazioni che il deserto riserva. Nel posto di lavoro, nella famiglia, nel mondo: le opinioni più variopinte cui sei sottoposto sono spesso tentazioni e, per poter resistere ad esse, il Signore ci dà un pane, disceso dal cielo che, a guardarlo, sembra banale. Infatti, l'ostia che noi riceviamo nella Comunione, in apparenza, non dice quasi nulla, eppure il Signore ha detto - e qui si è giocato tutto perché come sappiamo, molti dei suoi discepoli se ne andarono dopo averlo ascoltato – “Chi non mangia la mia carne e non beve il mio sangue, non avrà in sé la vita”. Il discorso che l'evangelista Giovanni riporta nel capitolo sesto, riprende e approfondisce le parole del Signore: per oltrepassare la morte, bisogna nutrirsi di Lui; chi non mangia di questo Corpo e di questo Sangue rimarrà nella morte ovvero risusciterà per la dannazione eterna. Chi, invece, se ne nutrirà, Egli lo risusciterà per la Vita Eterna; qui la promessa del Signore ha raggiunto il culmine. Ma, non è altro che la conseguenza ultima del fatto che Dio è venuto nel mondo, si è fatto carne, è entrato nella nostra condizione umana; quindi, la Carne e il Sangue assunti da Dio, non sono come la carne e il sangue nostri: sono la Carne e il Sangue divinizzati da Dio. In definitiva, quando noi assumiamo questa Carne e questo Sangue, noi immettiamo la divinità in noi e questa divinità pian piano ci trasforma e ci farà resuscitare nel giorno del Giudizio. Pensate un po': come si può superare la morte! Giustamente, i Santi e i dottori che hanno riflettuto su queste parole di Cristo, su questa promessa di Cristo, hanno definito la Carne e il Sangue del Signore farmaco d’immortalità. E’ un alimento che estende a tutto il nostro essere l’immortalità, non solo l’anima ma anche il corpo. Pertanto, come tutti i farmaci speciali che noi in questo mondo assumiamo quando siamo malati, dobbiamo stare molto attenti: i farmaci, si chiamano così perché derivano dalla parola greca pharmakon che vuol dire veleno - anche se noi oggi la intendiamo come rimedio curativo. Naturalmente, può accadere che un farmaco diventi veleno. Lo dicono le avvertenze del foglietto illustrativo. Bisogna stare attenti quando si assume. Ci sono delle condizioni affinché faccia effetto. Analogamente il Sacramento Eucaristico che Cristo ha istituito ha i suoi effetti: l'effetto fondamentale è che ci trasforma pian piano in Lui medesimo. Quindi ci fa passare pian piano quasi senz’accorgercene dalla morte alla vita, già in questo mondo, a condizione che ci lasciamo trasformare e non resistiamo o addirittura assumiamo questo Sacramento in situazioni controindicate che finiscono per trasformarlo in veleno, come dice San Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi, dopo aver descritto come egli ha ricevuto questo Sacramento e come lo trasmette. L'Apostolo, è come se dicesse: non sono il padrone del Sacramento, non lo posso manipolare, in nessun senso: come l'ho ricevuto così lo devo trasmettere. Ricorda le parole che Gesù ha detto sul pane sul vino: “questo è il mio Corpo”, “questo è il mio Sangue” e poi aggiunge: “state attenti a come lo ricevete, perché se lo riceverete in modo indegno”, cioè in stato di peccato, “assumerete la vostra condanna. Ed è per questo che tra voi molti sono malati e tanti muoiono” (11,29-30). Allora, non è un pane qualsiasi, non è una bevanda usuale: è qualcosa di inusitato, di divino, anche se a noi si presenta sotto l'apparenza abbastanza semplice, del pane e del vino. La sequenza che abbiamo cantato, composta da San Tommaso d'Aquino, Lauda Sion, in una strofa lo dice con chiarezza: “sotto quello che vedi si nasconde qualcosa di sublime”. Poi, sta’ attento, perché l'esito di chi assume la stessa Comunione è opposto: se la assume il malvagio, l’esito è cattivo, se la assume il buono, l’esito è salutare. Quindi non prenderlo come se fosse un pezzo di pane comune; non appena è un alimento, è “panis vivus et vitalis”, cioè rimedio alla morte, appunto un farmaco: può avere un effetto negativo se tu lo assumi in condizioni negative, in disgrazia di Dio, non hai confessato i tuoi peccati, non hai fatto penitenza, quindi non sei riconciliato con Lui. Un esempio ricorrente: mentre assisti alla Messa, il tuo cellulare squilla e corri fuori per rispondere. Che hai fatto? Hai interrotto il tuo ascolto, il tuo colloquio col Signore per rispondere ad un’altro. Questo è uno dei peccati più gravi che si possa fare: peccato d’idolatria - contro il primo comandamento: “Io sono il Signore Dio tuo, non altri”. Noi, invece, abbiamo anteposto l’uomo a Dio! Il contrario di ciò che prescrivono Cipriano e Benedetto. Non ci accorgiamo che abbiamo messo Dio sotto i piedi. E quindi diamo spazio all'umano, che è ciò che ci conduce alla morte e alla dannazione. L'idolatria, di cui i profeti spesso accusavano gli israeliti, è qualcosa di terribile perché si attacca a noi senza accorgersene, perché viviamo condizionati dal materialismo e dall’edonismo e quindi si è attaccato a noi questo virus che, giorno dopo giorno, ci corrode fino a che non moriamo; anche se apparentemente viviamo, siamo ‘biologici’, esistiamo fisicamente, come zombies; non siamo ‘zoofori’ cioè anime viventi e portatori di vita: ecco il dramma della società contemporanea, da cui dobbiamo stare in guardia, se vogliamo salvare la nostra anima. Gesù Cristo ha voluto giungere al supremo Sacrificio di sé per farci comprendere a cosa dobbiamo rinunciare, se vogliamo vivere. Dobbiamo rinunciare al nostro io se vogliamo che Dio viva in noi ma, se andremo dietro al nostro io, volessimo salvare il nostro io, allora noi moriremo, ma non della morte temporanea, quella che viene quando chiudiamo gli occhi, ma della morte eterna: la dannazione dell’inferno. Sono le parole del Signore che condanna chi mangia la Carne e beve il Sangue in maniera indegna. Cari fratelli e sorelle, questa festa del Corpus Domini, come sapete, è nata dall’atto di un incredulo, di un prete - guardate un po’ -, uno potrebbe dire: “i preti sono increduli?” Beh, è accaduto e accade che siamo i primi che non hanno fede. Non c'è da stupirsi. Il sacerdote boemo, Pietro da Praga, aveva dubbi sulla presenza reale; mentre celebrava la Messa, quei dubbi lo assalirono, nel momento culminante, quando il celebrante dice le parole di Cristo. Non sono parole sue: sono parole di Cristo, noi semplicemente prestiamo a Cristo la voce, niente altro; a quelle parole i dubbi di quel prete sulla reale possibilità che il pane fosse la Carne di Cristo e che il vino fosse il suo Sangue, lo assalirono. Però accadde l'imprevisto: vide nelle sue mani l’ostia sanguinare e macchiare il corporale - il lino quadrato che si ripiega in quattro parti e si mette sotto le sacre specie, e i gradini dell’altare e il pavimento. Era il 1263. Mensa e Corporale si ammirano a Bolsena e a Orvieto, nello stupendo duomo edificato oltre vent’anni dopo nel 1290, e che costituisce una sorta di grande reliquiario. La notizia si diffuse e, secondo la tradizione, il sacerdote che, spaventato, aveva avvolto tutto nel corporale per nascondere l’accaduto, si recò dal papa Urbano IV che si trovava a Orvieto in quel momento; questi mandò il vescovo a Bolsena per verificarlo. Così si constatò il miracolo eucaristico e, per celebrarlo - non era il primo e non è stato nemmeno l'ultimo – ma il più celebre, un anno dopo, con Bolla dell’11 agosto 1264, il papa estese alla Chiesa universale la festa del Corpus Domini. Papa Urbano IV incaricò Tommaso D’Aquino, di comporre la Messa e l'Ufficio del Corpus Domini. Egli non era solo un grande teologo, ma anche un uomo di grande fede, di mistica devozione, che faceva teologia in ginocchio, cioè in adorazione. In conclusione, ricordiamoci che noi non viviamo per noi stessi, ma per Uno che è morto e risorto per noi, come dice l’Apostolo. E che il senso della nostra vita e il nostro destino dipende dal nostro dire “Tu” a Gesù Cristo. Se noi impareremo a dire “Tu” a Gesù Cristo e a trarne le conseguenze, la nostra vita cambierà, metteremo da parte tante cose dietro cui andiamo ogni giorno, che sono frutto spesso di psicologismi, capricci, velleità: niente altro che le tentazioni del demonio; da quel momento, cominceremo a vivere non appena in modo ‘biologico’ ma ‘zooforico’: avvertiremo, avendo messo da parte il nostro io, che comincia in noi a vivere Cristo, esattamente come è successo a san Paolo. Questi, era stato un persecutore dei cristiani, e giunse ad affermare: “vivo, ma non io, vive invece Cristo in me… che mi ha amato e ha sacrificato sé stesso per me” (Gal 2,20). E’ il vertice a cui deve giungere la nostra fede. Se non arriviamo a questo vertice, stiamo perdendo tempo. La morte incombe - non importa quanti anni vivremo - e si rischia la dannazione. Ma se apriamo gli occhi in tempo, convertiremo la nostra vita dicendo ogni giorno “Tu” a Gesù Cristo, luce e vita del mondo. Sia lodato Gesù Cristo.-
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Intervista a Don Nicola Bux a cura di Vito Palmiotti. In vista dell’ imminente pubblicazione dell’Esortazione Apostolica che seguirà il sinodo sull’Amazzonia, stiamo assistendo ad una radicalizzazione di posizioni stile ultrà al punto che, ad esempio, se Ratzinger e Sarah scrivono delle riflessioni si urla al successo da una parte e lo scandalo dall’altra, si assiste a una sorta di standing ovation di una fazione alla sola ipotesi di ritiro della firma di Benedetto, salvo poi sdegnarsi quando questa di fatto rimane in qualche modo sulla copertina. Quindi nuovamente si assiste ad una serie di epiteti tesi a descrivere Benedetto “lucido solo mezz’ora al giorno” (e magari è proprio la mezz’ora in cui ha scritto poi tornerebbe in uno stato soporifero per ventitré ore e mezza) e se così non fosse allora diventa una grave ingerenza nei confronti di qualcosa che nessuno conosce ma che è tirato per la giacca di qua e di là, interpretando i pensieri di colui- il papa- che deve dare una indicazione, si spera chiara, tra le altre cose, su un tema delicato quale la possibilità di aprire al clero uxorato, in alcune “situazioni particolari” come chiedono i padri sinodali nel documento finale del controverso e discusso Sinodo sull’Amazzonia. L’impressione che se ne ricava è che manchi uno sguardo cattolico e il senso della realtà. Che farà il papa? Il cardinal Charles Journet, insigne patrologo, diceva: «Quanto all’assioma “Dove è il Papa, lì è la Chiesa” vale quando il Papa si comporta come Papa e capo della Chiesa; nel caso contrario, né la Chiesa è in lui, né lui nella Chiesa». D. Nicola Bux ha partecipato, da esperto invitato da Ratzinger cardinale e poi papa, al sinodo sull’Eucaristia del 2005 e a quello sul Medioriente del 2010: quindi sa come vanno le cose. Certo, se continua questo can can, altro che sinodo: il papa potrebbe risentirsi e mutare qualcosa. VP: Cosa vuol dire sinodalità, parola di cui tutti si riempiono la bocca? DBUX: I variegati fan di san Francesco ignorano forse che egli si definiva uomo cattolico ed apostolico: la prima è ormai parola rara da udire, eppure indica lo sguardo alla realtà ‘secondo la totalità dei suoi fattori’. Dal greco katà olòn. Purtroppo, la morale del ‘caso per caso’ e l’enfasi sulla ‘Chiesa locale’, hanno contribuito all’oblio. Infatti, si ritiene che, dare la Comunione a una coppia di divorziati risposati in un paesino sperduto, e non darla in una parrocchia di città, possa farsi senza pregiudicare l’unità del tutto, che è poi la Chiesa cattolica. Proprio su questo bisogna soffermarsi. L’unità è il bene più prezioso, dice san Giovanni Crisostomo, purché le diversità non siano avverse tra loro, ma convergano verso l’unità, siano cioè uni-versus, universali. Ecco la Chiesa universale o cattolica. Il Papa dovrebbe essere segno e vincolo di ciò. Dobbiamo sperare che l’Esortazione serva a questo: per essere cattolica, dovrebbe non rifarsi al Documento finale del Sinodo. Se così sarà, non poco lo si dovrà anche al contributo di Benedetto XVI e del cardinal Sarah con il loro libro sul celibato sacerdotale, e di quanti nella Chiesa non hanno smesso di dire la verità senza venir meno alla carità, senza cedere alla tentazione di separarsi, che è soprattutto dovuta alla mancanza della pazienza dell’amore. Dietro quel libro c’è una parte non piccola della Chiesa, di cui il papa, da pater patruum, non può non tener conto; non solo: ci sono duemila anni di traditio di Gesù Cristo e degli Apostoli, che, con la Scrittura, è fonte della rivelazione. La pazienza è la prima caratteristica dell’amore indicata da san Paolo: la carità è paziente. In conclusione, la sinodalità può essere sinonimo di cammino e di sguardo comune (sempre stando all’etimo greco) e in tal senso, ciascun cristiano e la Chiesa devono usarla. Ma la Chiesa non è un Sinodo e nemmeno un Concilio permanenti, ma una comunità gerarchicamente ordinata. Se il Documento finale ha espresso la parola dei vescovi e degli altri padri sinodali, l’Esortazione comunicherà la parola del papa, che non necessariamente deve concordare con quella. Si ricordi la nota praevia fatta apporre da Paolo VI alla costituzione Lumen Gentium. Il Sinodo è rappresentativo e non sostitutivo dell’intero episcopato cattolico. VP: Il Papa è infallibile, sempre? D.BUX: Il magistero c’è quando il papa e tutti i vescovi concordano (Compendio CCC 185) - sottolineo ‘concordano’ - nel proporre un insegnamento definitivo sulla fede e sulla morale. Che vuol dire definitivo? Deve essere – come le foto ad alta definizione – dai contorni nitidi. Infatti, come negli atti dommatici straordinari, il papa usa tre verbi: pronunziamo, dichiariamo e definiamo, così nell’insegnamento ordinario, se dovesse permanere la discordia non ci sarebbe il magistero. Oggi succede che molti vescovi non concordino ma siano discordi persino su una dottrina già creduta per fede: la discordanza significa che non c’è infallibilità, ma non per questo i fedeli non sono tenuti ad obbedirvi, salvo che quell’insegnamento contrasti con il depositum fidei. Se un padre dicesse una cosa e la madre l’opposto, i figli a chi dovrebbero obbedire? Abbiamo ragione di sperare e pregare che l’Esortazione sia chiara e senza eccezioni. Se non fosse così, si favorirebbe l'avvicinarsi della 'grande apostasia’ che asservirebbe la Chiesa; la prova che scuoterà la Chiesa(CCC 675-677) ben oltre l'attuale crisi di fede: la persecuzione.
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- esortazione postsinodale
- don nicola bux
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untilE' previsto per il prossimo venerdì 15 Dicembre 2017 a Bari, ore 17.30, presso la Aula Magna dell'Istituto di Teologia Ecumenica in Piazza Bisanzio e Rainaldo 15 in Bari, adiacente la Cattedrale, Cosa imparare dalla messa degli orientali. Tavola rotonda sul libro di Nicola Bux, "Tra Cielo e Terra, la mistica della liturgia orientale", con prefazione di Mons. Cyril Vasil' sj. Con i professori Antonio Calisi, P. Ciro Capotosto OP, Michele Loconsole.