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Valerio

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  1. Dio premia i buoni e castiga i cattivi perché é giustizia infinita. A me la vendetta; io farò giustizia, dice il Signore (Rm 12, 19). Il Signore prova il giusto e il malvagio; ma chi ama la prepotenza Egli lo odia di cuore. Pioverà sui malvagi brace di fuoco; zolfo e vento avvampante è la parte della loro coppa. Poiché giusto è il Signore, e ama le giuste azioni. I retti vedranno il volto di Lui (Sal 10, 6-8). Nostro Signore ci ha descritto diffusamente come sarà fatto da Lui il Giudizio universale, che segnerà il trionfo della divina giustizia, non lascerà nessun peccato impunito e nessuna opera buona senza premio (v. Mt 25, 31-46). La giustizia è la virtù che dà a ciascuno ciò che gli è dovuto, assegnando il castigo proporzionato alla colpa e il premio corrispondente al merito. La giustizia di Dio, come tutte le altre sue perfezioni, è infinita e s'identifica con Lui. Come giustizia infinita, Dio non potrebbe assegnare la stessa sorte ai buoni che Lo amano e Lo servono fedelmente, e ai cattivi, che col peccato calpestano i suoi comandamenti e disprezzano la sua volontà. Riflessione. - Se a trattenerci dal male e a spronarci al bene non basta l'amore di carità, servano almeno il timore del castigo e il desiderio del premio! Esempi: 1. Al primo peccato, commesso dai nostri progenitori nel Paradiso terrestre, seguì subito il castigo divino con l'esclusione dal luogo delle delizie, l'esilio, la perdita della divina amicizia, la condanna alla morte, all'ignoranza, al lavoro e a tutte le malattie e miserie della vita (v. Gn 3, 14-24). 2. La misericordia divina sopportò a lungo i peccati dei discendenti di Adamo, che diventavano sempre peggiori; ma alla fine la giustizia intervenne e punì l'umanità col diluvio universale. Tutti gli uomini perirono, eccetto Noè con la sua famiglia, che fu salvato perché era un uomo giusto (v. Gn cc. 6-7).
  2. L'inferno è il patimento eterno della privazione di Dio, nostra felicità, e del fuoco, con ogni altro male senza alcun bene. Per i paurosi e per gli increduli e gli esecrandi e gli omicidi e i fornicatori e i venefici e gl'idolatri e per tutti i mentitori, la loro parte sarà nello stagno ardente di fuoco e di zolfo, che è la seconda morte (Ap 21, 8). Dio ci ha creati per contemplarlo, possederlo e goderlo in cielo. Egli solo, come Verità prima, Sommo Bene e Vita beata, ci può rendere pienamente felici appagando tutte le nostre brame. Dopo la morte, nessuna cosa creata può attirare l'anima, che tende irresistibilmente a Dio, unico e infinito bene. Nell'inferno, invece, l'anima non può avere Dio, la sua visione, il suo possesso, e quindi la beatitudine che viene da Lui. L'anima ha bisogno di Dio, una necessità vitale, ma nell'inferno si sa privata di Lui per l'eternità e questa è la pena più grande ed ineffabile. I cattivi dopo la morte saranno gettati nel fuoco, come l'erbaccia della parabola evangelica (Lc 16, 19-26). Il fuoco dell'inferno, per volontà divina, tormenta i demoni, le anime e anche i corpi dei dannati dopo la risurrezione finale. Il dannato è immerso nel fuoco, permeato e quasi immedesimato col fuoco, come noi con l'aria che respiriamo. I reprobi dell'inferno sono anche tormentati da tutti gli altri mali possibili. Privi di Dio sono privi di ogni bene e afflitti da tutti i mali, che sono la mancanza del bene dovuto. Tra i massimi tormenti vi sono, oltre il fuoco, la disperazione, l'odio vicendevole, le pene, le umiliazioni inflitte dai demoni, l'immobilità, le tenebre. Il fumo dei loro tormenti si alzerà nei secoli dei secoli; e non hanno riposo né giorno, né notte (Ap 14, 11); saranno tormentati giorno e notte per i secoli dei secoli (ivi, 20, 10), nel fuoco inestinguibile, dove il loro verme non muore, e il fuoco non si estingue (Mr 9, 43). Che cosa sono i piccoli ed effimeri piaceri della colpa, in confronto della pena eterna, che ne è la punizione? ESEMPIO: Si racconta che, nell'XI secolo, mentre si cantava l'Ufficio dei defunti per il dottor Diocres, dell'Università di Parigi, alle parole: "Responde mihi: rispondimi!", dal feretro uscì una voce lugubre, che diceva: "Per giusto giudizio di Dio, sono stato accusato". Dopo una sospensione piena di paura, fu ripreso da capo il canto dell'Ufficio. Giunti nuovamente alle parole: "Responde mihi!" si ripeté la voce: "Per giusto giudizio di Dio sono stato condannato!". Parve che il cadavere si muovesse, ma dopo un attento esame se ne costatò la rigidità. L'Ufficio fu sospeso e ripreso l'indomani. Alle parole: "Responde mihi!" il cadavere si agitò, si pose a sedere e disse con voce straziante: "Per giusto giudizio di Dio sono stato condannato all'inferno!". Poi ricadde e non si mosse più. Tutti furono vivamente impressionati, ma specialmente Brunone, professore dell'Università, che abbandonò la brillante carriera, si ritirò nella solitudine, fondò l'ordine religioso dei Certosini e divenne santo, canonizzato dalla Chiesa. E' fondamentale pregare molto per la conversione dei peccatori, perché non vadano all'inferno. Molti, infatti, come ha affermato la Madonna a Fatima, vanno all'inferno perché non c'è nessuno che preghi per loro, per la loro conversione e salvezza.
  3. Il beato Carlo d'Asburgo è stato l'ultimo imperatore d'Austria e governante dell'Impero Austro-Ungarico, ma è stato anche ed in particolare un padre di famiglia ed un marito amorevole e leale per sua moglie Zita. Sono stati sposati per undici anni prima della morte prematura di lui nel 1922, e hanno avuto otto figli. Nonostante le difficoltà del governo durante la Prima guerra mondiale, Carlo non ha mai dimenticato l’importanza del suo matrimonio, offrendo ai figli e ai suoi sottomessi un modello da seguire e imitare. Il giorno prima del loro matrimonio, Carlo disse a Zita: “Ora aiutiamoci l’un l’altra ad arrivare in Paradiso”. Il matrimonio, infatti, è prima di tutto un sacramento che unisce le anime dei coniugi, santificando il loro amore e rivolgendolo al destino ultimo del Paradiso nell'aiuto e nel sostegno reciproco. La coppia si fece incidere una frase speciale all’interno delle fedi nuziali. L’iscrizione recitava in latino Sub tuum praesidium confugimus, sancta Dei Genitrix (Ricorriamo alla tua protezione, o Santa Madre di Dio), per porre la loro unione sotto la protezione della Beata Vergine Maria. Prima di andare in viaggio di nozze, inoltre, la coppia compì un pellegrinaggio al santuario mariano di Mariazell, dedicato a Nostra Signora Magna Mater Austriae (Grande Madre dell’Austria). I due erano intimamente legati ed oltre a lavorare insieme come coppia reale, insegnavano ai propri figli le verità della fede. Non era semplicemente compito di Zita insegnare ai bambini come pregare, perché anche Carlo instillò nei suoi figli l’amore per Dio e insegnò loro personalmente le preghiere. Prendevano sul serio l’ideale biblico di diventare “una sola carne” in tutto. Carlo e Zita non hanno smesso di amarsi neanche quando sono sorte le difficoltà. Dopo aver affrontato l’umiliazione di essere esiliati dal proprio Paese, il loro rapporto è diventato più forte che mai. Poco dopo hanno affrontato una prova ancora più grande quando Carlo ha contratto la polmonite, che lo ha portato alla morte a neanche 35 anni. Le ultime parole di Carlo alla moglie sono state “Ti amo infinitamente”. Nei 67 anni successivi, Zita ha indossato abiti neri a indicare il suo lutto. Non ha mai smesso di amare Carlo fino alla propria morte, quando si è riunita con lui in cielo. Il loro amore non è stato un semplice sentimento, ma una scelta di amarsi “finché morte non ci separi” e oltre.
  4. I cattivi che non servono Dio e muoiono in peccato mortale meritano l'Inferno. Il ricco epulone, di cui parla il Vangelo, non serviva Dio osservando la sua Legge, ma le proprie passioni. Quando morì andò nell'Inferno (v. Lc 16, 19-26) I cattivi sono coloro che peccano disobbedendo ai comandamenti di Dio, così servono le loro passioni, il mondo, il demonio. Anche se compiono qualche opera buona, questa, non essendo essi in amicizia con Dio, non li rende meritevoli del premio eterno, che il Signore ha preparato per quelli che Lo amano. Chi muore in peccato mortale, senza prima essersi riconciliato con Dio, non ha la grazia, cioè l'amicizia con Lui e quindi non può essere ammesso alla beatitudine eterna del Paradiso, dove non entra nulla che sia macchiato. Questa verità Gesù ce la mostra con la parabola delle nozze. Colui che si era introdotto nella sala del banchetto (immagine del Paradiso) senza la veste nuziale, per ordine del padrone fu preso, legato mani e piedi e gettato fuori nel buio della notte e nel freddo dell'inverno (v. Mt 22, 1-14). La grazia divina che abbiamo ricevuto nel Battesimo, è un tesoro inestimabile, da custodire con ogni cura.
  5. 3. Il martirio dell'anima Questo martirio è il più doloroso di tutti. Viene direttamente da Dio e, apparentemente, senza un motivo e senza preavviso. Santa Teresina, durante tutta la sua vita religiosa si nutrì del pane amaro dell'aridità spirituale e della mancanza di consolazione nella preghiera quotidiana. "Per me è sempre notte, sempre tenebre, notte oscura. Nelle mie relazioni con Gesù, niente: Aridità! Sonno! Ma se Gesù vuole dormire, perché dovrei impedirglielo?". Santa Teresina trovava particolarmente ostici i ritiri: "Lungi dal portarmi consolazioni, mi ha recato l'aridità più assoluta e quasi l'abbandono. Gesù dormiva, come sempre, nella mia navicella. Ah! vedo bene che di rado le anime Lo lasciano dormire tranquillamente in loro stesse. Gesù è così stanco di sollecitarle sempre con favori che si affretta ad approfittare del riposo che io Gli offro. Non si sveglierà certamente prima del mio grande ritiro dell'eternità, ma, invece di addolorarmi, ciò mi fa un piacere immenso". Il momento in cui Santa Teresina riceveva meno consolazioni era proprio quello della Santa Comunione, ma, tuttavia, non vi rinunciava, né per questo abbreviava le sue preghiere ed i suoi ringraziamenti. "Quando non sento nulla, quando sono incapace di pregare, di praticare le virtù, è quello il momento di cercare delle piccole occasioni, dei nonnulla che piacciono a Gesù. Un sorriso, una parola amabile quando avrei voglia solo di tacere. Quando non mi capita nessuna occasione, Gli voglio almeno dire tante volte che L'amo". Col tempo l'oscurità spirituale diventava sempre più fitta, e si rafforzavano le tentazioni contro la fede. "Ero estremamente provata, quasi triste, in una notte tale che non sapevo più se ero amata da Dio". E ancora: "Quando voglio riposare il cuore, stanco delle tenebre che lo circondano, ricordando il paese luminoso al quale aspiro, il mio tormento raddoppia; mi pare che le tenebre, assumendo la voce dei peccatori, mi dicano facendosi beffe di me: 'Tu sogni la luce, una patria dai profumi soavi. Tu sogni di possedere eternamente il Creatore di tutte queste meraviglie... Rallegrati della morte, che ti darà non già ciò che speri, ma una notte più profonda: la notte del niente'". Una prova orribile per chi ama Dio con tutto se stesso. E prosegue: "Non è più un velo (tra me e Dio, ndt), è un muro che si alza fino ai Cieli". Il demonio, per di più, la teneva "con una mano che pareva di ferro", per portarla alla disperazione. La Santa, però, correva da Gesù e gli assicurava che era pronta a dare il sangue per testimoniare la sua fede nella vita beata; ringraziava il buon Dio e i Santi per quella prova, convinta che che essi volessero vedere, dice: "fin dove saprò spingere la mia speranza". "Allora - scrive in una poesia - Gli dico che Egli è tutto per me, Lo copro di carezze; e le raddoppio se si nasconde alla mia fede". Il Piccolo Fiore di Lisieux soffrì questo doloroso, indescrivibile, triplice martirio simultaneo, del corpo, del cuore e dell'anima, che proseguì fino alla sua morte, fino alla sua chiamata in Paradiso. Alla fine della sua vita disse: " Non avrei mai creduto possibile soffrire tanto!", ma nonostante ciò, era sempre calma e serena, contenta e sorridente. Disse: "Tra le acque delle tribolazioni di cui ero così assetata, ero la più felice dei mortali". Saremo capaci di capire questa "austera dolcezza" solo se saremo disposti a farne l'esperienza. Ma quanto è forte il nostro amore per Dio?
  6. Merita il Paradiso chi è buono, ossia chi ama e serve fedelmente Dio, e muore nella sua grazia. Nella parabola dei talenti Nostro Signore ci dice che i servi fedeli che avranno curato gli interessi del padrone, nel giorno del rendiconto saranno premiati e resi partecipi della sua gioia (v. Mt 25, 14-24). Il merito è il diritto alla ricompensa per il lavoratore che compie bene la sua opera. Il merito è detto "de condigno" quando c'è parità tra esso e l'opera compiuta, e dà un diritto di giustizia alla ricompensa. Gesù con la Passione e Morte meritò "ex justitia", cioè "de condigno", la nostra salvezza. Il merito è "de congruo", o di convenienza, quando non vi è parità tra il servizio reso e la ricompensa, che in questo caso è dovuta non per giustizia, ma per convenienza. Ad esempio, se un bambino povero offrisse un mazzo di fiori a una regina, egli non avrebbe diritto ad una ricompensa, ma sarebbe conveniente per la generosità, dignità e ricchezza della sovrana, che ella gli donasse un premio importante, come un vestito nuovo. Noi meritiamo il Paradiso "de condigno", perché Dio ha promesso di ricompensare così le nostre buone opere. Merita il Paradiso chi è buono, cioè chi ama e serve fedelmente Dio, facendo la sua volontà, chi osserva i suoi comandamenti. Bisogna poi, anche morire in stato di grazia, perché Dio non potrebbe ammettere in Paradiso chi morisse in peccato mortale, cioè privato della sua amicizia. Dice Gesù: "Se qualcuno non resterà in me, sarà gettato via, come un tralcio che si dissecca, si raccoglie e si butta nel fuoco, dove brucia (Gv 15, 6). Per conservare la grazia di Dio e vivere nella sua volontà è fondamentale accostarsi ai sacramenti e pregare spesso e regolarmente.
  7. La preghiera Aufer a nobis Oremus. Aufer a nobis, quaesumus, Dòmine, iniquitàtes nostras: ut ad Sancta sanctòrum puris mereàmur méntibus introìre. Per Christum Dòminum nostrum. Amen. Preghiamo. Togli da noi, o Signore, le nostre iniquità: affinché con animo puro possiamo entrare nel Santo dei Santi. Per Cristo nostro Signore. È in un profondo sentimento d'umiltà e con un grande desiderio di santità che conviene salire all'altare. Durante la Messa il sacerdote è invitato ad rivestirsi di umiltà, come vediamo nelle preghiere che egli recita, a voce bassa, salendo all'altare: "Aufer a nobis...", "Liberaci da ogni iniquità...", "Oramus te, Domine", "Noi ti preghiamo, o Signore [...] degnati di perdonare tutti i nostri peccati". L'umiltà è la base di tutte le virtù, perché ci porta all'adorazione ed è la conseguenza di essa. È umile colui che si trova alla presenza di Dio, perché è la presenza di Dio che lo rende umile e gli fa prendere continuamente coscienza del suo nulla: che egli è niente mentre Dio è tutto. La virtù dell'umiltà corrisponde perfettamente all'adorazione che dobbiamo a Dio. Ci illudiamo se crediamo di essere qualcosa quando, invece, siamo nulla. Se Dio volesse, se ci abbandonasse, ritorneremmo nel nulla, non esisteremmo più. Se, dunque, viviamo per noi stessi, senza riferirci a Nostro Signore, viviamo nell'illusione, come se crediamo di essere qualche cosa grazie a noi stessi. Nessuno di noi può darsi da sé l'esistenza, per cui essa non ci appartiene, ma ci è donata da Dio. Ogni creatura deve essere umile, anche Nostro Signore lo era: "Imparate da me - Egli dice - che sono mite e umile di cuore" (Mt. 11, 29). L'umiltà non è una virtù rivolta banalmente ad abbassarci, sminuirci e piegarci, ma essa, come afferma San Tommaso d'Aquino: "È una virtù morale che ci inclina per riverenza verso Dio, ad abbassarci, rimanendo nel posto che vediamo a noi essere dovuto". Dobbiamo, dunque, abbassarci nel senso che dobbiamo mettere la nostra vita al suo giusto posto, cioè quello della vita di una creatura, riscattata dal Sangue di Nostro Signore Gesù Cristo. Il nostro legame profondo con Dio deve essere quello delle creature e precisamente delle creature riscattate, perché siamo peccatori. Se approfondiamo la nozione di creatura, possiamo metterci nel nostro giusto posto davanti a Dio. Allo stesso modo è importante approfondire la grazia immensa che Lui ci ha fatto nel riscattarci e renderci suoi figli nel Sangue di Nostro Signore Gesù Cristo, dobbiamo meditare sul nostro stato di peccatori e sull'infinita misericordia di Dio verso di noi. L'umiltà, inoltre, va di pari passo con la carità, poiché la carità costituisce l'espressione più alta dell'umiltà. Cerchiamo l'umiltà per raggiungere la carità, per essere nella carità. Lottiamo contro il peccato per arrivare alla vera carità verso Dio e verso il prossimo. Il nostro scopo deve essere la carità, l'unione con Dio, l'unione con Nostro Signore.
  8. Il Paradiso è il godimento eterno di Dio, nostra felicità e, in Lui, di ogni altro bene, senza alcun male. San Pietro, avendo contemplato per alcuni istanti, sul monte Tabor, la Gloria del Cristo trasfigurato, ne fu inebriato ed uscì di sé per la gioia, desiderando di rimanere per sempre in quella beatitudine. Cosa sarà allora il Paradiso, dove si contemplerà eternamente Dio nello splendore della sua Gloria? Sulla terra le creature non possono farci felici e appagare il nostro bisogno della beatitudine senza fine. Sono piccole, limitate nel tempo e nello spazio per saziare la nostra fame di Verità e del Bene infinito, e con la morte lasceremo ogni cosa. Solo in Paradiso tutti noi potremo essere totalmente felici. Le creature sono strumenti, vie, ma solo Dio è la destinazione, il vero obiettivo. Sulla terra vediamo le opere di Dio e l'impronta della sua perfezione impressa in esse; con la fede crediamo in Dio, ma c'è sempre come un velo di oscurità a separarci da Lui; in Paradiso, invece, vedremo Dio direttamente, senza ostacoli, come Egli è per se stesso. Allora lo ameremo e lo possederemo perfettamente, così saremo pienamente felici. Dio, sommo bene, è la sorgente di ogni bene, per cui chi lo contempla, lo ama e lo possiede, gode anche di tutti i beni. Allora l'intelligenza vede tutta la Verità, grazie alla luce della Gloria, la volontà possiede tutti i beni e così tutti i desideri del cuore possono essere esauditi e il cuore riposare definitivamente. Sant'Agostino, infatti, diceva che il cuore dell'uomo non potrà mai trovare veramente la pace fino a quando non riposerà in Dio. In Lui si potranno conoscere tutti i misteri della creazione ed anche il corpo, dopo la risurrezione, parteciperà della felicità dell'anima e diventerà immortale, impassibile, luminoso e agilissimo. Se nei momenti bui della vita riusciremo a pensare alla felicità preparata per noi in Cielo, niente ci sembrerà troppo duro o penoso pur di meritarla e raggiungerla.
  9. L'ultima settimana di Quaresima si dice santa, perché in essa si celebra la memoria dei più grandi misteri operati da Gesù Cristo per la nostra redenzione. Nel giovedì santo si celebra l'istituzione del SS. Sacramento dell'Eucarestia; nel venerdì santo si ricorda la passione e morte del Salvatore; nel sabato santo si onorano la sepoltura di Gesù Cristo e la sua discesa al Limbo e dopo il segno del Gloria si comincia ad onorare la sua gloriosa risurrezione. Per passare la settimana santa secondo la mente della Chiesa dobbiamo fare tre cose: 1. unire al digiuno un maggior raccoglimento interno, e un maggior fervore di orazione; 2. meditare di continuo con ispirito di compunzione i patimenti di Gesù Cristo; 3. assistere, se si può, ai divini uffici con questo medesimo spirito. Dal giovedì sino al sabato santo non si suonano le campane in segno di grande afflizione per la passione e morte del Salvatore. Nel giovedì santo si conserva un'ostia grande consacrata: 1. affinché si tributino speciali adorazioni al sacramento dell'Eucaristia nel giorno in cui venne istituito; 2. perché si possa compiere la liturgia nel venerdì santo, in cui non si fa dal sacerdote la consacrazione. Nel giovedì, dopo la Santa Messa, si spogliano gli altari per rappresentarci Gesù Cristo spogliato delle sue vesti per essere flagellato e affisso alla Croce; e per insegnarci che per celebrare degnamente la sua Passione dobbiamo spogliarci dell'uomo vecchio, cioè d'ogni affetto mondano. Nel giovedì santo si fa la lavanda dei piedi: 1. per rinnovare la memoria di quell'atto di umiliazione con cui Gesù Cristo si abbassò a lavarli ai suoi Apostoli; 2. perché Egli medesimo esortò gli Apostoli e, in persona di essi, i fedeli ad imitare il suo esempio; 3. per insegnarci che dobbiamo purificare il nostro cuore da ogni macchia, ed esercitare gli uni verso gli altri i doveri della carità ed umiltà cristiana. Nel giovedì santo i fedeli si recano alla visita del Santissimo Sacramento in più chiese in memoria de' dolori sofferti da Gesù Cristo in più luoghi, come nell'orto, nelle case di Caifa, di Pilato e di Erode, e sul Calvario. Nel giovedì santo si devono fare le visite non per curiosità, per abitudine o divertimento, ma per sincera contrizione dei nostri peccati, che sono la vera cagione della passione e morte del nostro Redentore, e con vero spirito di compassione delle sue pene, meditandone i vari patimenti; per esempio nella prima visita quel che soffrì nell'orto; nella seconda quel che soffrì nel pretorio di Pilato; e così dicasi delle altre. La Chiesa nel venerdì santo, in modo particolare, prega il Signore per ogni sorta di persone per dimostrare che Cristo è morto per tutti gli uomini e per implorare a beneficio di tutti il frutto di sua Passione. Nel venerdì santo si adora solennemente la Croce, perché essendovi Gesù Cristo stato inchiodato ed essendovi morto in quel giorno, la santificò col Suo Sangue. Si deve adorazione al solo Dio, e però quando si adora la Croce, la nostra adorazione si riferisce a Gesù Cristo morto su di essa. Nei riti del sabato santo è da considerarsi specialmente la benedizione del cero pasquale e del fonte battesimale.
  10. Nella festa dell'Annunciazione di Maria Vergine, si celebra l'annuncio che le fece l'angelo Gabriele di essere stata eletta Madre di Dio, rivolgendole le parole con le quali anche noi la salutiamo ogni giorno: "Io ti saluto, o piena di grazia: il Signore è con te". Allora Maria si turbò, sentendosi salutare con titoli nuovi ed eccellenti, dei quali si considerava indegna. Dimostrò così una purezza ammirabile, una profonda umiltà, una fede ed un'ubbidienza perfetta. All'annuncio dell'angelo Gabriele, la Madonna fece conoscere il suo grande amore per la purezza con la sua preoccupazione di conservare la verginità, sollecitudine dimostrata nello stesso momento in cui si sentì chiamata alla dignità di madre di Dio. Fece conoscere la sua profonda umiltà con le parole: "Ecco l'ancella del Signore", pronunciate mentre diveniva madre di Dio, e la sua fede ed obbedienza col dire: "Si faccia di me secondo la tua parola". Nel momento stesso in cui Maria diede il suo consenso ad esser madre di Dio, la seconda Persona della santissima Trinità s'incarnò nel seno di lei, prendendo corpo ed anima, come abbiamo noi, per opera dello Spirito Santo. La Santissima Vergine nella sua Annunciazione: 1. insegna in particolare alle vergini a fare altissima stima del tesoro della verginità; 2. insegna a noi tutti a disporci con grande purezza ed umiltà a ricevere dentro di noi Gesù Cristo nella santa Comunione; 3. c'insegna a sottometterci prontamente al divino volere. Nella solennità dell'Annunciazione di Maria Vergine dobbiamo fare tre cose: 1. adorare profondamente il Verbo incarnato per la nostra salute, e ringraziarlo d'un sì grande benefizio; 2. congratularci colla Santissima Vergine della dignità conferitale di madre di Dio, e onorarla come nostra signora ed avvocata; 3. risolvere di recitare sempre, con grande rispetto e divozione, la salutazione angelica, detta comunemente Ave Maria.
  11. Il martirio del cuore E' un martirio ancor più doloroso di quello del corpo. Anche quando era bambina, Teresina aveva un immenso desiderio di amore e di affetto nel cuore: "Non ho un cuore insensibile - scrisse -; ma appunto perché lo so capace di soffrire molto, io bramo offrire a Gesù tutti i generi di patimenti che al mio cuore sia possibile sopportare". Quello che normalmente porta le persone a lamentarsi, per lei era, invece, fonte di gioia, perché, attraverso la sofferenza, aveva modo di dar prova del suo amore al buon Dio. Provava un'avversione tanto forte verso una consorella che spesso l'unica soluzione era la fuga; ma comunque era dolcissima verso di lei, al punto che si sospettava ci fosse tra loro un'amicizia particolare. Si dedicava volontariamente all'assistenza di una monaca malata, benché sapesse che "non era facile contentarla", e lo fece "con tanto amore che - scrisse - mi sarebbe stato impossibile far meglio se avessi dovuto condurre Gesù stesso". Aiutava la suora rotara, che metteva a dura prova la sua pazienza, per la sua grande lentezza, ma l'amorevolezza di Santa Teresina non faceva immaginare a nessuno la forte lotta interiore che doveva affrontare. Vivendo nello stesso convento con tre delle sue sorelle, soffrì molto nel dominare il suo naturale carattere affettivo: disse che, per mezzo loro, Dio le offriva più di un calice amaro. Fra tutti i membri della comunità, la Santa era quella che meno di tutte si univa alle sue sorelle durante la ricreazione; per molti mesi lavorò a fianco della sorella Paolina, ma senza dirle una parola. "Mammina mia - le dirà più tardi -, quanto soffrii allora! Non potevo aprirle il mio cuore, e pensavo che ella non mi conoscesse più". Questo martirio del cuore fu amarissimo specialmente nei riguardi del suo amato padre durante la sua dura malattia. Le mancavano le parole per esprimere il suo dolore, né tentava di descriverlo. Le sue lacrime erano tanto copiose da non riuscire a mantenere la penna per scrivere, tuttavia disse: "I tre anni del martirio di papà mi sembrano i più amabili, i più fruttuosi della nostra vita, né io li cambierei con le estasi più sublimi. Il mio cuore, dinanzi a siffatti tesori inestimabili, esclama con riconoscenza: Siate benedetto, o mio Dio, per questi anni di grazie che abbiamo trascorso nei mali. Come fu preziosa e dolce quella croce così amara". Parole misteriose! Amara, eppure dolce! Se siamo pronti ad offrire a Gesù tutte le sofferenze che il nostro cuore può sopportare, allora capiremo. Ma lo siamo per davvero?
  12. Dio ci ha creati per conoscerLo, amarLo e servirLo in questa vita, e per goderLo poi nell'altra in Paradiso A uno scriba che gli chiedeva quale fosse il primo comandamento, Gesù rispose essere quello che impone di amare Dio con tutto noi stessi (v. Mr 12, 28-32). Per amare bisogna prima conoscere. L'amore nasce dalla conoscenza dell'oggetto amato e porta a servire la persona amata. L'uomo è superiore a tutti gli esseri visibili per la sua intelligenza, che gli è data prima di tutto perché possa conoscere Dio, le sue opere e la sua volontà e lo glorifichi a nome di tutto il creato. A noi battezzati, oltre l'intelligenza, Dio ha dato anche il dono immensamente superiore della fede, che ce Lo fa conoscere come si è rivelato e ci fa credere ai divini misteri. Noi siamo quindi creati prima di tutto perché conosciamo Dio con il lume di ragione nelle sue opere e con il lume di fede nella rivelazione soprannaturale, andando a Lui per via della conoscenza di ragione e di fede. Dalla conoscenza naturale e soprannaturale di Dio, delle sue opere e delle sue perfezioni, nasce in noi l'amore verso Dio, via che ci guida nell'osservare liberamente la legge divina. L'amore porta a servire la persona amata. L'amore divino ci porta a servire Dio nel modo che ci è indicato dalla sua volontà espressa nei divini comandamenti, via e guida oggettiva della nostra condotta. Dio non ci costringe a fare la sua volontà. A chi lo ama e serve fedelmente in questa vita, Egli darà il premio della felicità eterna in cielo, la meta preparata da Lui a chi cammina nella fede, nell'amore e nel servizio divino. Il buon cristiano agisce sempre conformemente al fine per il quale è stato creato. Esempio Il figlio dodicenne di un milionario newyorkese, esaminando ritagli di giornali vecchi, lesse che il padre dodici anni prima aveva adottato un trovatello. Nella speranza di scoprire un fratello domandò al babbo: "Papà, che ne è del bambino che ha adottato dodici anni fa e che ora dovrebbe avere la mia età?". Stringendo a sé il ragazzo, il ricco milionario gli disse: "E' una storia che ti riguarda da vicino, figlio mio! Non avrei voluto dirtelo e pensavo di non svelarti questo segreto. Tu sei l'orfanello di un giorno, che io adottai per impedire che fossi portato al ricovero dei trovatelli. Ma ora sei mio figlio e tutte le mie ricchezze, tutti i miei beni, tutto il mio amore sono per te! Mi basta che tu sia un figlio affezionato, degno dell'amore di tuo padre!" - "Papà, te lo prometto, sarò sempre degno del tuo amore!". Noi siamo i figli adottivi di Dio, fatti eredi del suo amore e delle sue ricchezze. Viviamo in modo da essere figli degni di tale Padre!
  13. LA PREGHIERA DEL CONFITEOR S - Confíteor Deo Omnipoténti, Beátae Maríae semper Vírgini, Beáto Michaëli Archángelo, Beáto Ioánni Baptístæ, Sanctis Apostόlis Petro et Paulo, όmnibus Sanctis et tibi, pater, quia peccávi nimis cogitatiόne, verbo et όpere (Percutit sibi pectus ter, dicens:) Mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa; Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, Beátum Michaélem Archángelum, Beátum Ioánnem Baptístam, Sanctos Apόstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et te, pater, oráre pro me ad Dόminum Deum Nostrum. C - Misereátur vestri Omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis vestris, perdúcat vos ad vitam ætérnam. S - Amen. C - Indulgéntiam, † absolutiόnem et remissiόnem peccatόrum nostrόrum tríbuat nobis Omnípotens et Miséricors Dόminus. S - Amen. C - Deus, tu convérsus vivificábis nos. S - Et plebs tua lætábitur in te. C - Osténde nobis, Dόmine, misericόrdiam tuam. S - Et salutáre tuum da nobis. C - Dόmine, exáudi oratiόnem meam. S - Et clámor meus ad te véniat. C - Dόminus vobíscum. S - Et cum spíritu tuo. S - Confesso a Dio Onnipotente, alla Beata sempre Vergine Maria, a San Michele Arcangelo, a San Giovanni Battista, ai Santi Apostoli Pietro e Paolo, a tutti i Santi e a te padre, che ho peccato molto in pensieri, parole ed opere, (si percuote il petto tre volte, dicendo:) per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa. E supplico la Beata sempre Vergine Maria, San Michele Arcangelo, San Giovanni Battista i Santi Apostoli Pietro e Paolo, tutti i Santi e a te padre, di pregare per me il Signore Dio nostro. C - Dio Onnipotente abbia misericordia di voi, perdoni i vostri peccati e vi conduca alla vita eterna. S - Amen. C - Il Signore, Onnipotente e Misericordioso, ci conceda l’indulgenza, l’assoluzione e il perdono dei nostri peccati. S - Amen. C - Volgendoti a noi, o Dio, ci farai vivere. S - E il tuo popolo si allieterà in te. C - Mostraci, o Signore, la tua misericordia. S - E donaci la tua salvezza. C - Signore, ascolta la mia preghiera. S - E il mio grido giunga fino a te. C - Il Signore sia con voi. S - E con il tuo spirito. Ogni uomo è peccatore e deve riconoscerlo. La liturgia tradizionale, quella che la Chiesa ci ha trasmesso da secoli e secoli, è un'ammirabile scuola di umiltà. Lo si vede chiaramente nei gesti e nelle azioni: le prostrazioni, le genuflessioni, gli inchini, sono altrettante manifestazioni della nostra umiltà, della nostra riverenza prima di tutto nei riguardi di Dio. Il sacerdote, all'inizio della Messa, durante la preghiera del Confiteor si inchina, come il pubblicano, con gli occhi bassi verso terra, dicendo: "Signore, abbi pietà di me, che sono un povero peccatore" (Lc. 18,13). Anche noi siamo peccatori. La prima lettera di san Giovanni è molto chiara su questo punto: "Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se confessiamo i nostri peccati, Dio è fedele e giusto e ci perdona e ci purifica da ogni iniquità. Se diciamo che siamo senza peccato, facciamo di lui un mentitore e la sua parola non è in noi. Figlioli miei, vi scrivo queste cose affinché non pecchiate. E se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre, Gesù Cristo, il Giusto. Egli stesso è vittima di propiziazione per i nostri peccati, non solamente per i nostri, ma per quelli di tutto il mondo" (1 Gv. 1,8-22). Dobbiamo ricordarci del nostro stato di peccatori, anche le anime più perfette se ne sono sempre ricordate, perché avvertivano nella loro natura tutte le conseguenze del peccato, ne soffrivano e se ne sentivano stimolate ad essere più fervorose, a contemplare maggiormente la Passione di Nostro Signore, a essere più legate alla Croce di Nostro Signore per essere più perfette. I Santi si sono sempre considerati peccatori e proprio per questo si sono avvicinati tanto a Dio che, al ricordo dei loro peccati, anche dei più piccoli, ne hanno visto la gravità, pentendosi e ritenendo la loro vita insufficiente a rimpiangere le colpe commesse davanti alla bontà di Dio, al suo Amore. Come quando ci si avvicina a un quadro se ne notano i difetti che non si vedono da lontano, così più la nostra anima si avvicina a Dio più grandi appaiono i nostri difetti. Nella Messa alcune preghiere ci ricordano proprio che siamo peccatori, per farci invocare la misericordia di Dio. Una virtù da ricercare e che ci è tanto consigliata dalle preghiere della Santa Messa, è la contrizione interiore, che gli antichi chiamavano compunzione. Essa consiste nell'aver sempre davanti a noi il ricordo del nostro peccato. Questo non ci umilia. Non crediamo che sia per umiliarci che la Chiesa ci chiede questa virtù, ma per la nostra santificazione e per metterci nella realtà della vita spirituale. Chi vivesse questo stato di compunzione abituale eviterebbe molti peccati, perché questo dolore, questa disposizione interiore rispetto al nostro stato di peccatori, ci allontana dal peccato. Se ci dispiacciamo del peccato, se ne abbiamo orrore, allora nasce in noi questo sentimento, questo istinto di disprezzo e rifiuto del peccato. Sono disposizioni molto favorevoli alla vita spirituale e propizie all'esercizio della carità, perché la penitenza è richiesta da Dio e dalla Chiesa per farci praticare la carità, per distruggere in noi l'egoismo, l'orgoglio, tutto ciò che è vizio, che in qualche maniera imprigiona il nostro cuore, che lo chiude in una piccola torre d'avorio.
  14. Il martirio del corpo Santa Teresina, nella preghiera, aveva chiesto di soffrire le pene del martirio, e fu esaudita. Le sue sofferenze fisiche furono, anzi, più di un martirio. Soffrì molto anche durante la sua infanzia, ma fu soprattutto verso la fine della sua vita terrena che le sue pene si moltiplicarono. Le sue forze diminuirono; si trascinava, nel vero senso della parola, ai vari esercizi della Comunità, compiendo ogni dovere, anche il più faticoso ufficio liturgico della sera, sebbene dovesse combattere contro lo stordimento e le vertigini per mantenersi in piedi. Quando tutto era finito, si trascinava sulle scale aggrappandosi al corrimano, e si fermava ad ogni scalino, per riprendere fiato, tanto che impiegava almeno mezz'ora per attraversare il corridoio ghiacciato che la conduceva nella sua fredda cella. Una volta arrivataci, era così spossata che le ci voleva almeno un'ora per spogliarsi. Allora provava a riposare sul duro pagliericcio ma, avendo solo due coperte sottili, trascorreva l'intera notte tremando dal freddo. La sua malattia, avendo indebolito il sangue, la rese molto più sensibile al freddo, tanto che ella stessa confessò sul letto di morte: "Ciò per cui soffersi di più fisicamente, durante la mia vita religiosa, fu il freddo; ne soffersi da morire". Ma continuò a combattere, perché uno dei suoi principi era: "Bisogna essere all'estremo delle forze, prima di muover lamento". Infine, non riuscendo più a stare in piedi, fu costretta a mettersi a letto. Le sue pene aumentavano; tossiva gran parte della notte, di giorno era consumata da una febbre ardente e spossata da un copioso sudore; era colpita da violente emorragie ed attacchi di soffocamento; il suo estremo deperimento le causava tante piaghe dolorose. Quando l'infermiera provava a darle un po' di sollievo mettendola seduta, santa Teresina diceva di sentirsi sedere sugli arpioni. "Se solo sapesse - le disse - quello che soffro. Bisognerebbe farne l'esperienza per sapere cosa significa. Posso facilmente capire perché le persone senza fede, quando soffrono in questo modo, sono tentate di togliersi la vita... Vi dico che, quando si soffre così, manca solo un passo per impazzire". Osiamo ancora chiedere se la piccola Teresa soffrì tanto? Eppure, c'era sempre un dolce sorriso sulle sue labbra. E noi non possiamo sopportare con un sorriso delle pene insignificanti per amor di Dio?
  15. Dio ha cura e provvidenza delle cose create, e le conserva e dirige tutte al proprio fine, con sapienza, bontà e giustizia infinita. Il Salvatore ci raccomanda: Non angustiatevi per la vostra vita, di quello che mangerete, né per il vostro corpo, di quello che vestirete. La vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutre. E voi non valete di più? (Mt 6, 25-26; cfr. ivi, 26-34). La cura che Dio ha per le sue creature è immensamente più grande di quella della mamma per i figli. Dio è sapienza infinita e conosce ciò che ha creato; è onnipotente e può averne cura; è infinitamente buono, ama le sue creature, e non può fare a meno di averne cura e di provvedere ad esse quanto occorre. Come un fiume per scorrere deve essere alimentato dalla sorgente, così le creature, per continuare ad esistere e ad agire, devono essere conservate da Dio, sorgente del loro essere e del loro potere, altrimenti scomparirebbero istantaneamente nel nulla da cui furono tratte. Dio ha creato ogni essere per un fine specifico e dirige ogni cosa al fine generale che è la sua gloria. Il Signore, infatti, ha fatto tutte le cose per se stesso (Pr 16, 4). Con le leggi fisiche dirige le cose prive di libertà; con la legge morale governa gli esseri liberi, come la via guida il viandante alla meta. La provvidenza divina si manifesta specialmente nel dare alle cose le vie e i mezzi necessari per raggiungere il fine voluto per esse, e nel dirigerle con la sua potenza perché ognuna lo consegua e tutte insieme gli diano la gloria di cui ha diritto. Gli attributi divini che più rifulgono nella divina provvidenza sono: 1) la sapienza. - Nel creato esiste un ordine meraviglioso, dall'attività degli esseri liberi al movimento degli astri, alla composizione dell'atomo invisibile. In tale ordine perfetto ogni cosa tende al suo fine particolare e tutti gli esseri uniti cantano la sapienza e la grandezza di Dio. Solo l'uomo che usa male della sua libertà può andare contro l'ordine della sapienza divina. Tutto è regolato da leggi e condotto per vie che sono l'impronta dell'infinita sapienza divina; 2) la bontà. - Nell'ordine della provvidenza rifulge sovrana la divina bontà, che crea, conserva, dirige per amore ogni cosa alla perfezione e tutto ha posto al servizio dell'uomo, perché riconosca l'amore di Dio e canti, a nome di tutti gli esseri, la gloria divina; 3) la giustizia. - La giustizia di Dio si manifesta nel dare a ogni cosa ciò che le è necessario per conseguire il fine particolare (all'occhio perché possa vedere, al cibo perché nutra, all'intelligenza perché conosca la verità...) e il fine generale della gloria di Dio. La giustizia divina, inoltre, si manifesta nel premiare gli esseri liberi che osservano la legge morale e nel castigare quelli che la trasgrediscono. In Dio le vie della sapienza, bontà e giustizia sono infinite, come tutte le altre perfezioni. Nel creato non si manifesta tutta l'infinità delle divine perfezioni, ma la loro impronta è così manifesta, grande, fulgida, che ci riempie di stupore, ancorché non comprendiamo l'opera divina che in minima parte. Dall'umile filo d'erba agli astri smisurati, tutto canta la sapienza, la bontà, la giustizia di Dio, ed è via che ci conduce a Lui nostro principio, modello e fine.
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