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  1. Quando san Tommaso entrava in classe (ci viene riferito da una accreditata diceria) poneva una mela sul tavolo dicendo: “Questa è una mela, chi non è d’accordo può uscire”. In pratica: se tu non riconosci l’oggettività del reale, come possiamo costruire una grammatica comune? Quando il serpente con una mela* tentò Eva, le disse che sarebbe diventata come Dio. Cosa significava per Eva diventare ed essere come Dio? Lei e Adamo avevano il dominio su cose e animali esistenti, al punto da poter dar loro il nome; tuttavia questo potere era stato concesso loro da Dio che, essendo Il Creatore, era il garante della veridicità della loro conoscenza e del loro linguaggio, in quanto garante dell’oggettività del reale, nel senso che esso non dipende dalla conoscenza umana.Diventare come Dio significava quindi avocare a sé la capacità di garantire la veridicità della conoscenza, ricostituendola in una grammatica soggettiva che, immediatamente, si sarebbe rivelata arbitraria. Ma a che pro essere come Dio se già da subito essi potevano dare il nome alle bestie ed alle cose? Lo scopo era non accontentarsi più di dare il nome alla realtà oggettiva, ma iniziare a ricostituirla ex novo su una grammatica che fosse soggettiva ed arbitraria. Infatti Eva si scopre nuda, e nudo scopre il suo uomo; perciò dovranno coprirsi, difendersi: poiché il loro intendersi è stato alterato, non è più possibile condividere o comprendersi in modo immediato. Nelle mani di un soggettivismo che è il nuovo dio degli uomini non ci si capisce più. Quando (per servirmi di un ultimo esempio) Nietzsche cercava il metodo per demolire il cristianesimo, secondo McLuhan, lo trovò nella distruzione della grammatica e del suo senso logico: il cristianesimo (questo strano platonismo per il popolo) si regge sul linguaggio corretto, oserei dire sulla coerenza della parola; si distrugga il senso di questa e verrà meno la forza del pensiero cristiano, ed anche del pensiero stesso. Verrà meno l’umano. La mela del primo peccato ha diverse sfaccettature, ed ogni epoca è stata tentata con un morso diverso. Credo che lo specifico della nostra epoca sia proprio il rilassamento, se non il venir meno, del senso logico del linguaggio, della sua capacità di comunicare una realtà oggettiva, chiara ai sensi ed allo spirito. Il vero, secondo i dettami del postmoderno spinto, non esiste più. Ma così viene meno la coscienza che guida il mio vivere, e la veglia si risolve in un ascolto esasperato del proprio intimo dove si colgono necessità primarie ipertrofiche che abbiamo imparato a chiamare diritti; trascorriamo le nostre vite sperando nel “sol dell’avvenir”, pur sapendo che non esiste.Chiamiamo il nostro obiettivo utopia ed andiamo avanti tra forza d’inerzia e disperazione. Sembriamo giunti al capolinea delle conseguenze negative della soggettivizzazione della conoscenza, ribaltatasi e concretizzatasi nella appropriazione di quel che sul momento ci pare. Tutto questo lo chiamiamo laicità o, con una correzione da parte cattolica, laicismo. Può il laicismo-laicità un giorno “incontrare” e dialogare col cattolicesimo? Questa è stata la speranza (o sarebbe meglio chiamarla utopia?) di molti , in nome di una volontà d’incontro, eppure anche questa appare compromessa se già all’interno del cristianesimo sono presenti problemi grammaticali. Ricordo ancora la commozione e l’appagamento dello spirito quando scoprii il motto episcopale del patriarca ecumenico di Costantinopoli Atenagora I: “Fermiamoci e guardiamoci”. Bellissimo!Il tentativo d’incontro era una realtà morale, spirituale e, quasi, una necessità di ricomposizione della nostra psiche, scissa per essere stata alimentata per troppo tempo da due civiltà parallele: abbiamo praticamente due personalità, la cui convivenza ci causa parecchi problemi. Si vede bene allora che non si tratta di un incontro fra due realtà o antropologie distinte, ma della necessità di una scelta dell’una o dell’altra. Tuttavia, per confrontarsi serve un linguaggio comune, che non esiste, perché non esiste più una logica o una morale o una spiritualità comuni.Prendiamo ad esempio il verbo amare, che non ha più riferimenti ad un sentire comune, ma è fortemente condizionato dalla soggettività dell’io che lo coniuga a seconda del proprio sentire più ermetico: la parola rimane sacra come forza e valore, ma diventa relativa nel suo coniugarsi soggettivista, diventando in pratica un amuleto, una parola chiave, uno slogan più o meno efficace da tirare fuori nei momenti di difficoltà dialettica durante il tanto sospirato confronto. Confronto che, proprio a causa di queste parole-idolo, viene definitivamente esorcizzato.Perdendo di significato la parola diventa un assoluto inarrivabile e non raggiungibile, una utopia. Così avviene delle altre parole amatissime nella nostra contemporaneità come libertà, coscienza, dovere, diritto, ascolto, rispetto, tolleranza ecc. Benché si debba riconoscere lo sforzo della contemporaneità di cercare una armonia sponsale fra individuo e collettività, mi pare che a livello pratico si sia di fronte ad un fallimento. Il mondo laico non riesce a proporre dei minimi comuni denominatori d’incontro tra i vari soggetti che lo compongono e la società che lo esprime. Esso risulta incompleto e per poter essere qualcosa di definito, e soprattutto nell’incontro e nelle relazioni della quotidianità commette un latrocinio subdolo nei confronti del cristianesimo. L’insufficienza della laicità è colmata dalla spiritualità cristiana, la quale però è deformata ed amputata di sue sostanziali peculiarità, come l’integrità del pensiero logico che ne è un elemento fondante e l’oggettività dell’atto morale. Tolti questi due elementi il cristiano non è più tale: ha forma cristiana, ma non sostanza; non siamo più cristiani, ma cristianoidi. O anche trans-cristiani, in una trasformazione di cui l’esito è difficile da stabilire.*Si usa il termine mela per via della tradizione risalente alla Vulgata di San Gerolamo
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