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  1. Recensione di «Venenum caritatis est cupiditas». La povertà volontaria secondo il «De perfectione» e l’«Apologia pauperum» di san Bonaventura di Roberto Caria, Roma 2022 Venenum caritatis est cupiditas di don Roberto Caria è un esempio del fascino che ancora esercita sui contemporanei il mito della povertà evangelica e del dibattito che suscitò nel medioevo, ovvero quella lunga disputa che oppose l’Ordine francescano a papa Giovanni XXII (1316-1334) e il cui oggetto fu la questione se Cristo e gli apostoli avessero posseduto gli alimenti e i beni che consumavano; una questione da cui poi discendeva la legittimità della Regola francescana (approvata da Onorio III nel 1223), che prescriveva ai frati la povertà assoluta e interdiceva loro l’uso del denaro. Il grande sviluppo dell’Ordine francescano aveva infatti richiesto la creazione di una struttura organizzativa e l’uso di una vasta quantità di beni mobili ed immobili, a cominciare dai conventi, sicché la coerenza con il dettato della Regola era garantita da un espediente giuridico: ai frati minori veniva attribuito solo l’uso dei conventi, dei beni e del denaro necessari al loro sostentamento ed all’organizzazione dell’Ordine; la cui proprietà, invece, rimaneva formalmente di “amici” o dello stesso papato. Più precisamente, nella bolla Exiit qui seminat (1279), Niccolò III distinse cinque tipi di relazioni fra un soggetto umano e un oggetto materiale: proprietà, possesso, usufrutto, diritto d’uso e semplice uso di fatto: solo quest’ultimo veniva ammesso per i francescani, mentre i primi quattro erano considerati casi di dominium; ma l’ultimo no, perché il titolare poteva solo consumare il bene, non alienarlo. Questo espediente giuridico si rivelò una potente arma ideologica nella disputa sulla povertà evangelica: i francescani, infatti, potevano presentarsi come l’unico Ordine che conduceva la vita perfetta degli apostoli, come coloro che, a differenza del clero secolare, vivevano in uno stato di perfezione paragonabile all’innocenza precedente il peccato, finché la politica filo-francescana della Santa sede non venne, ad un certo, ribaltata appunto da Giovanni XXII, che decise di imporre all’Ordine la titolarità della proprietà dei beni. Parte del fascino della disputa sta nel fatto che, secondo studiosi sensibili all’«esistenza di qualcosa che, pure essendo più una tendenza che uno sviluppo di pensiero, merita di essere chiamato oeconomica franciscana»[1] (o «economia francescana»), mise in discussione la proibizione canonica dell’usura nel medioevo, da non considerarsi non più un dogma inscalfibile ma, al contrario, da sgretolare nella discussione minuta della liceità o meno di questo o quell’atto, ipotizzando casi precisi di elusione alla rigidità del principio[2]. Mentre oggi infatti usura si riferisce a un tasso di interesse esorbitante, nel medioevo con lo stesso termine ci si riferiva, invece, a una realtà specifica, ispirata al diritto romano ed elaborata successivamente dal diritto canonico, ovvero ad un qualsiasi sovrappiù rispetto al capitale di un mutuum (o contratto di prestito) che, secondo S. Tommaso d’Aquino, si riferiva soltanto a quei beni che non possono essere usati senza essere consumati o, detto altrimenti, il cui uso non può essere separato dalla loro sostanza, come ad esempio il grano, il vino e, appunto, il denaro. Venderne l’uso, quindi, come separato dai beni in sé, significava vendere qualcosa che non esiste o vendere due volte lo stesso bene; è per questo motivo, secondo il santo, che vendere l’uso del denaro, che si consuma se speso in una transazione economica, o riscuotere usura, è un’azione ingiusta[3]. Venenum caritatis est cupiditas è lo sforzo di assimilare e, in qualche modo, leggere in chiave di attualità per un cristiano oggi, la disputa sulla povertà evangelica; partendo soprattutto dall’Apologia pauperum (1269) di S. Bonaventura da Bagnoregio (1221-1274) per ricostruirne i tratti salienti, l’Autore si sofferma quindi sulle «conseguenze sociali e politiche della vita povera delineata dal Dottore Serafico, a partire dalla istruttiva e sempre feconda distinzione tra la proprietà e l’uso dei beni economici. Grazie a questa distinzione e nei casi necessari separazione, gli Ordini Mendicanti avviarono anche audaci e approfonditi dibattiti in ambito economici e politico, che faranno scuola fino al sorgere dell’epoca moderna e della economia di tipo capitalistico. Solo per fare un esempio, la distinzione tra proprietà e uso si è rivelata fondamentale per capire il fenomeno dell’usura» (pp. 198, 185; corsivo delle parole italiane mio). Io sarei però più cauto nell’applaudire all’attualità della disputa sulla povertà evangelica. Se è vero che la storiografia concorda nell’attribuire grande rilievo a tale discussione, i suoi esiti si presentano problematici per la posterità cristiana. La disputa sulla povertà evangelica fu uno dei canali di diffusione di una visione metafisica, gnoseologica ed etica alternativa al tomismo; infatti, nel momento in cui i francescani affermavano una visione del diritto di proprietà funzionale ad esaltare la loro scelta di povertà, segnava anche il passaggio da una cultura giuridica organicistica, significativamente compendiata nella forma mentis del diritto naturale oggettivo, a una mentalità individualista, che assumeva invece come vessillo i diritti naturali del soggetto, considerati anteriori all’istituzione della proprietà e del potere politico[4]. Aderendo convintamente al tomismo, fino a canonizzare S. Tommaso il 18 luglio 1323 nella chiesa di Notre Dame in Avignone, Giovanni XXII riconobbe ufficialmente l’irrazionalità della posizione francescana e intimò all’Ordine di possedere tutto ciò che si usa, anche le cose che si consumano con l’uso, perché il consumo di un bene implica pure il suo possesso, che è il cuore (e non altri) dell’argomento di S. Tommaso sulla proibizione dell’usura. «Perché quale persona sana di mente», spiegava il papa nella bolla Ad conditorem canonum (1322), «potrebbe credere che fosse intenzione di un così grande padre [cioé papa Niccolò III] mantenere la proprietà per la Chiesa romana, e l'uso per i Frati, di un uovo, o di un formaggio, o di una crosta di pane, o di altre cose consumabili con l’uso, che spesso vengono dati agli stessi Frati perché li consumino sul posto?». Le bolle di Giovanni XXII aiutano a capire perché allora il papa passò dalla iniziale repressione alla successiva imposizione del silenzio sulla disputa sulla povertà evangelica: lungi dall’essere più solo una mera questione dottrinale, la disputa sulla povertà evangelica si era trasformata infatti in una discussione sul significato per i religiosi dell’autorità e dell’obbedienza nella Chiesa[5]. Ecco perché il papa si trovò costretto a spiegare che, dei tre voti emessi dai religiosi, quello di povertà era il meno importante; se la perfezione della vita cristiana consisteva principalmente ed essenzialmente nella carità, per i religiosi era l’obbedienza ai superiori, se preservata intatta, ad essere di primaria importanza, perché la disobbedienza può distruggere la vita religiosa (Quorundam exigit, 1317). Credo pertanto che occorra cautela nell’affidarsi a quegli studî moderni che ripropongono, in chiave attualizzante, dottrine pur sostenute dai francescani, come quella secondo la quale Cristo e gli apostoli non possedettero nulla né a titolo individuale né in comune ma che, non dimentichiamolo, furono dichiarate eretiche dalla Santa Sede (Cum inter nonnullos, 1323). Se si vuole partire le fonti francescane per colmare la lacuna di una lettura della disputa sulla povertà evangelica dal punto di vista cattolico, non si deve, allora, considerare la ricostruzione offerta da padre Henri de Lubac (1896-1991), laddove il teologo spiega con chiarezza che S. Bonaventura approfondì l’ideale evangelico di povertà già espresso da S. Girolamo (347-420): «Nudo per seguire Cristo nudo», che poi S. Francesco riecheggiò: «Nudo fu lasciato, perché seguisse il crocifisso Signore che egli amava», come ricordava S. Bonaventura, perché «Non c’è altra via verso Dio»[6]. [1] R. Lambertini, «Usus» ed «Usura». Difesa della povertà e teoria economica nelle risposte francescane a Giovanni XXII, in Id., La povertà pensata, Modena 2000, pp. 227-247, qui p. 247. [2] P. Grossi, Somme penitenziali, diritto canonico, diritto comune, «Annali della Facoltà di Giurisprudenza di Macerata», n. s., I (1966), pp. 95-134, qui pp. 132-133. [3] R. de Roover, San Bernardino of Siena and Sant’Antonino of Florence. The Two Great Economic Thinkers of the Middle Ages, Boston 1967, pp. 27-29. [4] L. Baccelli, Il particolarismo dei diritti. Poteri degli individui e paradossi dell’universalismo, Roma 2009, pp. 15-35. [5] Per una lettura più approfondita delle più importanti bolle papali sulla disputa sulla povertà evangelica, si consulti il sito di Jonathan Robinson dell’Università di Toronto: http://individual.utoronto.ca/jwrobinson/. [6] H. de Lubac, La posterità spirituale di Gioacchino da Fiore, I, Dagli Spirituali a Schelling, Milano 2016, p. 169.
  2. La Chiesa sinodale. Malintesi e pericoli di un “grande reset” ecclesiastico scritto nella prima parte da Don Nicola Bux e nella seconda da Guido Vignelli, edito da Fede & Cultura, è un testo che pone, al centro del panorama ecclesiastico attuale, la questione della sinodalità, e lo fa con quello spirito critico tipico di chi alle parole dona un peso, di chi sa che la parola ha una forza illocutoria e perlocutoria, come ha ben detto il giurista-filosofo J.W. Austin. La prima parte del testo si articola in un excursus dogmatico, con qualche accenno storico, mentre la seconda parte è più storica con dei riferimenti inziali dogmatici che fungono da cerniera con la prima parte del testo. Chi scrive è un presbitero ed un laico, come ad indicare che la sinodalità è un camminare insieme, ma senza stravolgere i ruoli, in quanto la Chiesa è gerarchica e non sinodale. Per tal motivo il contributo del prof. Vignelli è ancorato e segue quello di don Nicola Bux, confermando i dati dottrinali espressi da quest’ultimo. Se la sinodalità vuole essere una proposta che ha come obiettivo quello di ribaltare una visione di Chiesa gerarchica, ci si chiede, dice don N. Bux, in che modo possa essere questa una garanzia per la missione della Chiesa, che è quella di suscitare la fede e di guidare il popolo di Dio verso l’incontro definitivo con Cristo. Se la Chiesa, come afferma Lumen gentium 18, ha il compito di insegnare, santificare e governare, come può farlo se non vi sarà più alcuno designato a farlo? Se non vi sarà più distinzione tra docenti e discenti? Tra pastori e pecore? Babele fu proprio questo: assenza di gerarchia: non vi erano progettisti e architetti, capi cantiere e capi squadra, ma un cumulo di uomini orgogliosi e abili, che amavano il fai da te. La gerarchia della Chiesa, vuole a mio parere dirci l’autore, è voluta da Dio perché necessaria alla natura umana, che corrotta dal peccato, tende sempre a voler affermare se stessa e così disperdere i suoi talenti e le sue energie, anziché saggiamente porsi a servizio di un corpo che mediante il suo capo sapiente che è Cristo stesso, organizza e incanala talenti ed energie affinché il corpo cresca sano e bello, pronto per le nozze finali a cui lo sposo non tarderà ad arrivare una volta che la sua sposa sarà pronta. È necessario dunque distinguere tra pastori e pecore, ognuno con i loro compiti. Su questa linea si pone G. Vignelli che rileggendo la storia si accorge di alcune similitudini con ciò che sta accadendo oggi, sul frasario che viene utilizzato quando si parla di “sinodalità”, e criticamente espone delle considerazioni denunciando la Chiesa di cedere alle lusinghe del mondo moderno, di volersi pian piano adeguare ai parlamenti si potrebbe dire, rinunciando al suo essere società gerarchica. Così l’autore: «fino a pochi decenni fa, la Chiesa militante era sempre stata qualificata come Magistra, Mater et Domina gentium, ossia come autorità designata da Dio a insegnare la Verità rivelata, generare popoli cristiani, dominare le società per guidarle al compimento della loro vocazione morale e religiosa. Invece, secondo la nuova ecclesiologia, la Chiesa del futuro dovrà subire un grave declassamento: sarà non più Magistra ma “esperta consulente” degli organismi mondiali; non più Mater ma “sorella maggiore” delle altre Chiese; non più Domina e guida ma serva del popolo e compagna degli erranti; insomma, da società di santificazione e di salvezza si ridurrà a comunità “promotrice della dignità umana”». Un testo che parla al cuore del cattolico di oggi, disorientato dal vasto panorama socio-culturale che oggi pretende di relativizzare l’unica Verità per imporre ogni cosa, ogni suggestione, come verità voluta da Dio.
  3. Ettore Gotti Tedeschi interviene circa il libro di Stefano Fontana "Ateismo cattolico?". Parte da un testo di Marcello Pera che legge S. Agostino e Kant, ritenendo che quest'ultimo volesse unire Ragione e Scrittura. Kant era un uomo religiosissimo ma non cattolico. Un utile stimolo alla riflessione. Mi riferisco all’articolo di Nicola Barile, con cui commenta il libro di S.Fontana, (non ancora letto : "Ateismo cattolico?"). Barile riprende opportunamente una considerazione di Fontana su Kant (“l’esaltazione della religione in Kant non è veramente tale essendo essa non altro che un nome diverso per una morale pienamente autonoma , una esigenza o una condizione della morale . ”) lasciando intendere ( se son riuscito a ben capire ), che questa affermazione avrebbe fatto inorridire Kant, che credeva in una morale oggettiva ,non in una morale autoprodotta dall’individuo . Appunto. Non entro nella valutazione per "incompetenza filosofica" e senza volere minimamente offrire una mia alternativa di pensiero, ma, al fine di capire meglio e approfondire il rapporto tra Kant e cristianesimo, propongo al lettore de Il Pensiero Cattolico , la lettura dell’ultimo libro scritto dal prof. Marcello Pera , filosofo e amico ( già Presidente del Senato, autore del libro “Senza Radici” , scritto nel 2005 con J.Ratzinger e del libro “Perché dobbiamo dirci cristiani “ del 2008 , con prefazione di Papa Benedetto XVI ) , che è parcheggiato nel “Cortile dei Gentili “ da qualche tempo , aspettando di esser invitato ad entrare… ,ma non trova più neppure il custode del cosiddetto Cortile. Cortile che forse è stato chiuso definitivamente da qualche anno … Marcello Pera ha pubblicato nel settembre 2022 (con Morcelliana ) il saggio “Lo sguardo della Caduta . Agostino e la superbia del secolarismo”, dove affronta anche l’influenza di S.Agostino su Kant ( i commenti che seguono son frutto solo del mio tentativo di comprensione dello scritto di MarcelloPera). Ciò esplorando il rapporto che Kant aveva con il cristianesimo, che non pretendeva di correggere, bensì di presentarlo alla ragione, di spiegarlo e comunicarlo, perché (secondo Kant) se il cristianesimo venisse ricondotto nei limiti della ragione, la fede cristiana potrebbe trovare la capacità di esser universalmente condivisa in modo convincente. Kant riconosceva che il cristianesimo era la miglior religione e più adeguata, poiché la morale della -ragion pratica- è deontologica e si fonda sul dovere di essere santo, in un regime di libertà personale . Poiché per Agostino lo “Sguardo sulla Caduta “ è l’essenza del Cristianesimo, la strategia di Kant si direbbe esser stata quella di portare il peccato originale a esser inteso per mezzo della ragione , con aiuto della grazia . Kant intendeva razionalizzare il Cristianesimo, sinergizzandosi con il progetto di Agostino di cristianizzare la Ragione. L’intenzione di Kant appare essere quella di provare l’unità tra Ragione e Scrittura . Marcello Pera ricorda al lettore che le diffidenze verso Kant son spesso state diffidenze anche verso Agostino . Kant è troppo ottimista e confida troppo nella ragione , mentre Agostino è troppo pessimista e confida “troppo” nella fede . Ma Agostino vinse la battaglia fondando (grazie alla sua fede ) una dottrina e cultura cristiana (“ La Carta dell’Occidente “), Kant invece non riuscì nel suo progetto di unire Ragione e Scrittura . EttoreGottiTedeschi
  4. Il nuovo libro di S. Fontana, Ateismo cattolico? Quando le idee sono fuorvianti per la fede (Fede & Cultura, Verona 2022), propone la nozione di «ateismo cattolico» per spiegare una certa deriva della fede cattolica: lo fa attraverso nove capitoli, più o meno della stessa lunghezza, anche se non di uguale importanza. Il lettore può leggere il cuore della proposta di Fontana nell’introduzione e, soprattutto, nei primi due capitoli, che definiscono cosa sia appunto l’«ateismo cattolico» (pp. 5-48). I capitoli successivi sono più che altro una applicazione del concetto di «ateismo cattolico» a una serie eterogenea di vicende e protagonisti del mondo cattolico (dal magistero sociale postconciliare alla scuola parentale, da Dante a Chesterton), non selezionati secondo un criterio evidente (per esempio, quello cronologico), né sempre chiaramente connessi con l’argomento principale dell’«ateismo cattolico» (si veda, ad esempio, il capitolo sul magistero sociale postconciliare, pp. 125-143), sicché si ha piuttosto l’impressione di scritti ripubblicati per l’occasione di questo volume. Ma cos’è l’«ateismo cattolico», secondo Fontana? E perché è seguito nel titolo da un punto interrogativo? In effetti, il punto interrogativo si rende necessario per la contraddizione della nozione proposta, che mette insieme due elementi apparentemente in contrasto fra loro (la fede e la sua negazione, ovvero l’ateismo). Questo accade, secondo Fontana, quando la fede, per costruire la sua teologia, si avvale di uno strumento filosofico inadeguato o addirittura fuorviante, che deforma dall’interno la comprensione delle verità di fede, svuotandola dei suoi contenuti e mantenendola così solo nel suo aspetto soggettivo, senza che ci sia la possibilità di recedere da tale tentativo, perché si tratta di gesto condiviso, in quanto ritenuto in conformità con lo spirito del tempo. Viene immediatamente da pensare al filosofo ed economista Karl Marx, ritenuto ancora in pieno XX secolo «uno degli ultimi pensatori scolastici», per la sofisticata articolazione del suo metodo dialettico, in realtà incompatibile con la fede cristiana. Fontana, invece, si sofferma su autori già da lui considerati, come l’illuminista Immanuel Kant, perché «l’esaltazione della religione in Kant non è veramente tale, essendo essa non altro che un nome diverso per una morale pienamente autonoma, una esigenza o una condizione della morale» (p. 56). È un’affermazione che sconta ancora una interpretazione dell’illuminismo come età ostile al cattolicesimo, non del tutto supportata, tuttavia, dalla storiografia. Fontana, mettendo praticamente sullo stesso piano la morale elaborata da Kant e l’autonomia proclamata dal liberalismo contemporaneo, avrebbe semplicemente fatto inorridire il filosofo illuminista, che credeva pur sempre in una morale oggettiva («ragione pratica») che l’autonomia ci dà i mezzi e l’opportunità di seguire, non già in una morale autoprodotta dalle scelte private dell’individuo. La più sofisticata analisi delle tracce di ateismo cattolico, se l’ho intesa rettamente, si trova forse nel capitolo su Dante (pp. 108-124) o, meglio, su come lo storico della filosofia cattolico Étienne Gilson ha interpretato un passo della Monarchia del grande poeta medievale (III, 16), là dove si legge che l’uomo possiede due fini ultimi, uno da conseguire in questa vita, prima della morte, l’altro nella vita futura, dopo la morte. Gilson nota giustamente che, secondo il De regimine principum di San Tommaso d’Aquino, l’uomo ha invece un solo fine ultimo: la beatitudine eterna, cui è chiamato da Dio e che può attingere solo per mezzo della Chiesa, fuori della quale non c’è salvezza. Questa è, appunto, la ragione per cui i prìncipi di questo mondo sono sottomessi al papa, come a Gesù stesso, di cui questi è il vicario. Dante rifiuta questa conclusione; per questo motivo, eleva anche il fine della vita politica alla dignità di fine ultimo, facendo così del potere imperiale una autorità senza appello nel proprio ordine, come lo è il pontefice romano. Ha dunque Dante anticipato la laicità e l’autonomia della politica, emancipando l’imperatore dal papa? Credo che la contraddizione rilevata da Gilson, e sottolineata da Fontana, tra San Tommaso e Dante si possa risolvere se si pensa che, nel medioevo, era generalmente ammessa l’origine del potere imperiale dai bisogni umani e dall’umana convivenza, come insegnato dal diritto romano; per San Tommaso era però pericoloso ammettere l’esclusione dell’origine immediatamente divina del potere ecclesiastico per quel che riguardava il papato. Non la pensa così Dante, la cui Monarchia, invece, di tomistico conserva le distinzioni del diritto in divino, naturale ed umano, i concetti di beatitudine terrena ed eterna come finalità dello stato celeste e di quello terreno, l’ideale monarchico, l’idea cattolica della dominazione universale e, soprattutto, l’intero apparato della dimostrazione teologica e deduttiva, ma non la fede politica. Ma questo è, evidentemente, un altro discorso, che riguarda l’interpretazione della Monarchia. A parte questi rilievi, suggeriti dalla stimolante lettura dell’Ateismo cattolico?, per i numerosi spunti di riflessione e le occasioni di approfondimento offerti, il lettore, pertanto, può ben rendersi conto della fecondità del libro di Fontana, che racchiude, in definitiva, il senso della stessa fecondità della risposta positiva della filosofia di San Tommaso alla domanda se esista qualcosa; rispondendo negativamente, l’ateismo cattolico nasce invece già morto.
  5. Il libro di K. La vera obbedienza nella Chiesa come gli altri suoi scritti su OnePeterFive, è un testo battagliero, scritto con piglio polemico e vivace, di sicuro ambito tradizionalista (anche se riflette un certo tradizionalismo), ma non privo dei consueti difetti dell'autore. Ovvero una certa superficialità e la tendenza a semplificare. Un premessa è d'obbligo. K. dice che l'obbedienza ai propri superiori nella Chiesa deve essere subordinata alla 1) fiducia riposta o meno in essi e 2) alla legittima subordinazione ovvero al riconoscimento dei costumi e delle tradizioni (sic! vedi pp. 8-9). Dove ricavi questi due criteri molto personali, non lo spiega chiaramente: certamente, non appartengono al Magistero, che dice altro a tal proposito, ma, piuttosto, sembrano due principii molto arbitrari o, meglio, scelti per tirare certe conclusioni. Sorvolando quindi sui temi della liturgia, dove il rito nuovo è interpretato in termini esclusivamente negativi in chiave lefebvriana (p. 26), bisogna soffermarsi sul luogo comune del "bene comune" (si scusi il bisticcio) contrapposto all'autorità che scientemente vìola tale bene, così come esposto da S. Tommaso (pp. 16-17). E', a sua volta, un luogo comune ricorrere a questo argomento ma, se si legge con attenzione il filosofo medievale, senza estrapolare frasi dal ricco contesto, si vede bene come il bene comune (in senso politico, va aggiunto, ovvero la famiglia e l'individuo) ha bisogno dell'autorità e della responsabilità della legge umana e del governo per prosperare, che ne assicurino cioè la protezione. Dunque non si possono contrapporre tout court bene comune e autorità. Anche perché ai tempi di S. Tommaso, contrapporsi all'autorità significava ribellarsi ai potenti baroni feudali. Lo stesso vale per un altro esempio portato dall'autore e cioè quello del rapporto fra l'autorità e il fedele e la subordinazione del figlio nei confronti del padre (pp. 7-8, 11-12). Secondo K. il modello è il medesimo. Il fedele/figlio può disobbedire all'autorità/genitore se il comando ricevuto va contro la legge divina o naturale. Ma questa interpretazione di Ef 6, 1, a ben vedere, non ha nulla di rivoluzionario: il comando di obbedire non è mai assoluto ma, diversamente da quanto la gente pensa di solito, condizionato: va cioè sempre confrontato con il contenuto della legge divina e/o quella naturale: perché «dobbiamo ubbidire a Dio, piuttosto che agli uomini», come dice san Pietro (At 5,29). Allo stesso modo, allora, siamo obbligati ad accettare l'insegnamento non infallibile del romano pontefice (perché è di questo che si vuol parlare, sostanzialmente) solo a condizione che agisca nell'ambito della sua autorità secondo la legge divina. Se insegnasse qualcosa di contrario a una legge superiore in cui credere, allora l'obbligo di dare il consenso religioso a questo insegnamento cederebbe all'obbligo più severo che obbliga i fedeli a credere alla parola di Dio e - punto assai cruciale, trascurato da K. - ad attenersi all'insegnamento infallibile della Chiesa. Questo è il punto. Non ribellarsi tout court e basta. Se no veramente l'obbedienza non è più una virtù, per parafrasare un altro testo d'altri tempi. A queste puntualizzazioni vanno aggiunte queste altre di tipo canonistico. K. sembra distaccarsi dalla nozione di comunione ecclesiale, concependo il rapporto tra fedeli e Pastori in termini puramente dialettici e di contrapposizione. Il can. 212 del Codice di Diritto Canonico offre norme di sapiente equilibrio. Il primo paragrafo ricorda che i fedeli, in modo responsabile, ossia "consapevoli della propria responsabilità" sono tenuti ad osservare "con cristiana obbedienza" ciò che i sacri Pastori, in quanto (e nella misura in cui) "rappresentano Cristo", dichiarano "come maestri della fede o dispongono come capi della Chiesa". D'altra parte il secondo paragrafo sancisce che i fedeli sono liberi di manifestare ai Pastori della Chiesa le proprie necessità, soprattutto spirituali, e i propri desideri. Il terzo paragrafo poi addirittura prevede che i fedeli, in rapporto alla scienza, alla competenza e al prestigio di ciascuno, abbiano non solo il diritto, ma addirittura il dovere di manifestare ai sacri Pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa e di renderlo noto agli altri fedeli, fatti salvi l'integrità della fede, dei costumi e il rispetto verso i Pastori, tenendo presente l'utilità comune e la dignità delle persone. Come si vede, la stessa normativa è piuttosto larga nel riconoscere ai fedeli non solo il diritto ma addirittura il dovere di intervenire nelle discussioni relative al bene della Chiesa, avendo però come presupposti "scienza, competenza e prestigio" (evitando le chiacchiere da bar), ed usando modalità che siano rispettose non solo per i Pastori, ma per la dignità di ogni persona, e naturalmente nei limiti di una fede e di costumi integri. L'obbedienza non si oppone quindi alla coscienza e alla responsabilità, che incombe a ciascuno, che sia però dotato di una adeguata scienza e competenza e che sappia mantenersi nell'ambito di uno stile di autentica comunione. Questa norma deve esser poi letta con quelle successive, relative ai diritti e ai doveri dei fedeli, ossia fino al can. 223 compreso. Atti di ribellione, di disprezzo delle norme e dei provvedimenti, al di fuori dei legittimi canali di impugnazione, non solo non appartengono ad una logica di comunione, ma si distaccano anche dal principio di realtà, perché portano inevitabilmente all'applicazione di sanzioni, anche gravi e gravissime, che è utopico pensare possano essere superate in un fantasioso prossimo futuro. Purtroppo molti tendono a farsi una Chiesa immaginaria, contrapposta a quella reale, fatta di santi e peccatori, come noi tutti siamo. Insomma: K. va letto perché ha sovente buoni spunti di riflessione, ma non andrebbe consigliato, soprattutto a chi non dispone delle chiavi di lettura adeguate per affrontare un autore che è un sincero cristiano, indubbiamente coinvolgente, in quanto schiettamente militante, ma non sempre edificante per il suo piglio rivoluzionario, soprattutto per i tanti perplessi di oggi.
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