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  1. In punta di piedi e sommessamente, come colui che osa sussurrare qualche banalità mentre assiste alla discussione tra due giganti, mi intrometto nel dialogo tra Don Alberto Strumia ed il Prof. Gotti Tedeschi, ringraziandoli sin d’ora per le riflessioni che hanno condiviso. Don Alberto, in prima battuta, indica in modo chiaro la “radice del problema”, evitando che certe letture sociologiche, psicologiche o ecclesiologiche falliscano il bersaglio e non arrivino alla radice della questione. Primo auspicio: che tutti possano aver chiaro chi sia il nemico, come i medici che intendano combattere la malattia e non il sintomo. Trovo, personalmente, decisivo il richiamo nella citazione del Card. Biffi: “Gesù Cristo, per trionfare giustamente e ragionevolmente dell’Anticristo, ha bisogno della nostra collaborazione”. Secondo auspicio: che tutti sentano l’esigenza di collaborare alla battaglia. Il Prof. Gotti Tedeschi, raccogliendo la splendida indicazione, sospinge la riflessione sulla strategia della battaglia, ovvero sul come si possa offrire collaborazione e partecipare al trionfo di Cristo. Senza scordare che tutto ciò accade in tempi abbastanza apocalittici, per non dire escatologici e, secondo Don Alberto (che in parte risponde alla questione posta dal professore sulla direzione dell’operato della Chiesa), e accade quando "può dirsi ormai conclusa l’epoca dei movimenti con la morte dei loro fondatori”. In nulla volendo correggere, mi premono alcune considerazioni che contribuiscano, forse, ad integrare il quadro tracciato. Uno dei protagonisti della -usando la definizione di Don Alberto- “epoca dei movimenti”, ha affermato: “Non solo non ho mai inteso "fondare" niente, ma ritengo che il genio del movimento che ho visto nascere sia di avere sentito l'urgenza di proclamare la necessità di tornare agli aspetti elementari del cristianesimo, vale a dire la passione del fatto cristiano come tale nei suoi elementi originali, e basta”. Un altro fondatore, come sintesi di una immediata e chiara comprensione, intuisce “l’obbligo" di cercare la santità: “Avevo ventisei anni, grazia di Dio e buon umore. Null’altro. E dovevo fare l’opera”. Nella storia, come non ricordare il Crocifisso che si rivolge al giovane assisano: “Su di lui, veramente poverello e contrito di cuore, Dio posò il suo sguardo con grande accondiscendenza e bontà; non soltanto lo sollevò, mendico, dalla polvere della vita mondana, ma lo rese campione, guida e araldo della perfezione evangelica e lo scelse come luce per i credenti…” (Leggenda maior). E prima di lui c’è chi, lasciando disgustato le dissolutezze romane, trascorse il suo tempo vivendo da eremita in una grotta in isolamento spirituale, generando una delle aggregazioni di cristiani più decisive per il nostro continente e per il mondo. Prima o dopo l’ultimo concilio, non credo esista, se non nel commento storico, “un’epoca dei movimenti” (…e cosa sia un movimento, quali formazioni rientrino della definizione, quali mantengano l’ortodossia, quali l’intuizione iniziale, quali l’afflato profetico… a posteri l’arduo giudizio). Esiste invece, dalla risurrezione di Cristo in poi, il tempo dei santi. Santi, ovvero pienamente uomini, che hanno involontariamente in comune, pur in epoche diverse, una strategia: un luogo preciso, una necessità precisa, alcuni volti precisi e una relazione al destino in Cristo. Nella storia del mondo e della Chiesa, il passo è segnato da Cristo attraverso i santi e i beati. Quando il buon Dio ne dona uno, in modo tanto imperscrutabile quanto imprevedibile, appare una luce per i credenti, che allora si aggregano, spiritualmente o fisicamente, intorno a quella grazia. Persino le questioni ecclesiologiche su movimenti, associazioni, opere… appaiono necessarie ma successive, per tempo e gerarchia. E poi fatico ad immaginare Benedetto nella grotta a chiedersi se il gregge debba essere piccolo o grande, o Francesco a La Verna ad arrovellarsi sul numero di possibili followers... Questo anche perché, citando Von Balthasar, “Quale sia l’estensione della fecondità di un santo rimane, almeno sulla terra, un segreto di Dio“. Occorre, quindi, capire cosa ci aiuti nel cammino verso la santità (come riconoscimento attuale della presenza di Cristo), ovvero verso la nostra piena umanità. Ma non vorrei nascondermi dietro al generico richiamo alla santità. Oggi manca, nella stragrande maggioranza dell’umanità che incontro, la coscienza delle categorie fondamentali del pensiero cattolico. Parlo volutamente di coscienza: che lo si riconosca lucidamente oppure no, la natura della radice fondamentale di ogni uomo è sempre in ogni caso e in ogni epoca ordinata al medesimo logos, quindi sempre ordinata alla creazione e, pertanto, coerente con il pensiero cattolico. Ma la coscienza della natura del proprio cuore è, più meno gravemente, offuscata. E cosa forma rettamente la nostra coscienza? Dobbiamo ristudiare Caritas in Veritate, come propone il professore? O forse, ormai giunto il momento “ratzingeriano”, dobbiamo rifugiarci in piccole comunità come suggerisce Don Alberto? Mi permetto di citare Don Nicola Bux: prima dello studio (studium come zelo, passione, ricerca, lavoro) c’è un antefatto, l’amicizia. Si studia, innanzitutto, per una amicizia (la “teologia come amicizia”, nella riflessione di Don Nicola). Per una amicizia, anzitutto con Cristo, che poi è “il” soggetto che studiamo nei rivoli delle varie materie della vita. La piccola o grande comunità in cui cercar rifugio e studiare Caritas in veritate e non solo, è l’amicizia in e con Cristo (con le armi che Lui ci ha consegnato, a partire dai sacramenti). Collaborare con il Suo trionfo è, in primo luogo, gustare la Sua compagnia e la Sua amicizia, con la certezza che questa vince il “mondo, la carne e il maligno”. Lo si chieda al Card. Van Thuan, lo si chieda a padre Kolbe: il nemico non vince neppure quando sembra lo faccia. Sopporto l’idea di un nemico a cui dar battaglia (e del grande sacrificio che una battaglia richiede) solo nella certezza dell’amico, esattamente come uno scienziato inizia una lunga e faticosa opera di ricerca solamente nella convinzione, seppure remota, che esista l’oggetto del proprio cercare. Combatto perché Lui c’è e perché Lui è proprio Lui, quel bambino che tiene nel palmo della mano l’intero universo.
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