Vai al contenuto

SEM IPC

Administrators
  • Contenuti

    105
  • Iscritto

  • Ultima visita

Tutte le attività di SEM IPC

  1. Recensione di «Venenum caritatis est cupiditas». La povertà volontaria secondo il «De perfectione» e l’«Apologia pauperum» di san Bonaventura di Roberto Caria, Roma 2022 Venenum caritatis est cupiditas di don Roberto Caria è un esempio del fascino che ancora esercita sui contemporanei il mito della povertà evangelica e del dibattito che suscitò nel medioevo, ovvero quella lunga disputa che oppose l’Ordine francescano a papa Giovanni XXII (1316-1334) e il cui oggetto fu la questione se Cristo e gli apostoli avessero posseduto gli alimenti e i beni che consumavano; una questione da cui poi discendeva la legittimità della Regola francescana (approvata da Onorio III nel 1223), che prescriveva ai frati la povertà assoluta e interdiceva loro l’uso del denaro. Il grande sviluppo dell’Ordine francescano aveva infatti richiesto la creazione di una struttura organizzativa e l’uso di una vasta quantità di beni mobili ed immobili, a cominciare dai conventi, sicché la coerenza con il dettato della Regola era garantita da un espediente giuridico: ai frati minori veniva attribuito solo l’uso dei conventi, dei beni e del denaro necessari al loro sostentamento ed all’organizzazione dell’Ordine; la cui proprietà, invece, rimaneva formalmente di “amici” o dello stesso papato. Più precisamente, nella bolla Exiit qui seminat (1279), Niccolò III distinse cinque tipi di relazioni fra un soggetto umano e un oggetto materiale: proprietà, possesso, usufrutto, diritto d’uso e semplice uso di fatto: solo quest’ultimo veniva ammesso per i francescani, mentre i primi quattro erano considerati casi di dominium; ma l’ultimo no, perché il titolare poteva solo consumare il bene, non alienarlo. Questo espediente giuridico si rivelò una potente arma ideologica nella disputa sulla povertà evangelica: i francescani, infatti, potevano presentarsi come l’unico Ordine che conduceva la vita perfetta degli apostoli, come coloro che, a differenza del clero secolare, vivevano in uno stato di perfezione paragonabile all’innocenza precedente il peccato, finché la politica filo-francescana della Santa sede non venne, ad un certo, ribaltata appunto da Giovanni XXII, che decise di imporre all’Ordine la titolarità della proprietà dei beni. Parte del fascino della disputa sta nel fatto che, secondo studiosi sensibili all’«esistenza di qualcosa che, pure essendo più una tendenza che uno sviluppo di pensiero, merita di essere chiamato oeconomica franciscana»[1] (o «economia francescana»), mise in discussione la proibizione canonica dell’usura nel medioevo, da non considerarsi non più un dogma inscalfibile ma, al contrario, da sgretolare nella discussione minuta della liceità o meno di questo o quell’atto, ipotizzando casi precisi di elusione alla rigidità del principio[2]. Mentre oggi infatti usura si riferisce a un tasso di interesse esorbitante, nel medioevo con lo stesso termine ci si riferiva, invece, a una realtà specifica, ispirata al diritto romano ed elaborata successivamente dal diritto canonico, ovvero ad un qualsiasi sovrappiù rispetto al capitale di un mutuum (o contratto di prestito) che, secondo S. Tommaso d’Aquino, si riferiva soltanto a quei beni che non possono essere usati senza essere consumati o, detto altrimenti, il cui uso non può essere separato dalla loro sostanza, come ad esempio il grano, il vino e, appunto, il denaro. Venderne l’uso, quindi, come separato dai beni in sé, significava vendere qualcosa che non esiste o vendere due volte lo stesso bene; è per questo motivo, secondo il santo, che vendere l’uso del denaro, che si consuma se speso in una transazione economica, o riscuotere usura, è un’azione ingiusta[3]. Venenum caritatis est cupiditas è lo sforzo di assimilare e, in qualche modo, leggere in chiave di attualità per un cristiano oggi, la disputa sulla povertà evangelica; partendo soprattutto dall’Apologia pauperum (1269) di S. Bonaventura da Bagnoregio (1221-1274) per ricostruirne i tratti salienti, l’Autore si sofferma quindi sulle «conseguenze sociali e politiche della vita povera delineata dal Dottore Serafico, a partire dalla istruttiva e sempre feconda distinzione tra la proprietà e l’uso dei beni economici. Grazie a questa distinzione e nei casi necessari separazione, gli Ordini Mendicanti avviarono anche audaci e approfonditi dibattiti in ambito economici e politico, che faranno scuola fino al sorgere dell’epoca moderna e della economia di tipo capitalistico. Solo per fare un esempio, la distinzione tra proprietà e uso si è rivelata fondamentale per capire il fenomeno dell’usura» (pp. 198, 185; corsivo delle parole italiane mio). Io sarei però più cauto nell’applaudire all’attualità della disputa sulla povertà evangelica. Se è vero che la storiografia concorda nell’attribuire grande rilievo a tale discussione, i suoi esiti si presentano problematici per la posterità cristiana. La disputa sulla povertà evangelica fu uno dei canali di diffusione di una visione metafisica, gnoseologica ed etica alternativa al tomismo; infatti, nel momento in cui i francescani affermavano una visione del diritto di proprietà funzionale ad esaltare la loro scelta di povertà, segnava anche il passaggio da una cultura giuridica organicistica, significativamente compendiata nella forma mentis del diritto naturale oggettivo, a una mentalità individualista, che assumeva invece come vessillo i diritti naturali del soggetto, considerati anteriori all’istituzione della proprietà e del potere politico[4]. Aderendo convintamente al tomismo, fino a canonizzare S. Tommaso il 18 luglio 1323 nella chiesa di Notre Dame in Avignone, Giovanni XXII riconobbe ufficialmente l’irrazionalità della posizione francescana e intimò all’Ordine di possedere tutto ciò che si usa, anche le cose che si consumano con l’uso, perché il consumo di un bene implica pure il suo possesso, che è il cuore (e non altri) dell’argomento di S. Tommaso sulla proibizione dell’usura. «Perché quale persona sana di mente», spiegava il papa nella bolla Ad conditorem canonum (1322), «potrebbe credere che fosse intenzione di un così grande padre [cioé papa Niccolò III] mantenere la proprietà per la Chiesa romana, e l'uso per i Frati, di un uovo, o di un formaggio, o di una crosta di pane, o di altre cose consumabili con l’uso, che spesso vengono dati agli stessi Frati perché li consumino sul posto?». Le bolle di Giovanni XXII aiutano a capire perché allora il papa passò dalla iniziale repressione alla successiva imposizione del silenzio sulla disputa sulla povertà evangelica: lungi dall’essere più solo una mera questione dottrinale, la disputa sulla povertà evangelica si era trasformata infatti in una discussione sul significato per i religiosi dell’autorità e dell’obbedienza nella Chiesa[5]. Ecco perché il papa si trovò costretto a spiegare che, dei tre voti emessi dai religiosi, quello di povertà era il meno importante; se la perfezione della vita cristiana consisteva principalmente ed essenzialmente nella carità, per i religiosi era l’obbedienza ai superiori, se preservata intatta, ad essere di primaria importanza, perché la disobbedienza può distruggere la vita religiosa (Quorundam exigit, 1317). Credo pertanto che occorra cautela nell’affidarsi a quegli studî moderni che ripropongono, in chiave attualizzante, dottrine pur sostenute dai francescani, come quella secondo la quale Cristo e gli apostoli non possedettero nulla né a titolo individuale né in comune ma che, non dimentichiamolo, furono dichiarate eretiche dalla Santa Sede (Cum inter nonnullos, 1323). Se si vuole partire le fonti francescane per colmare la lacuna di una lettura della disputa sulla povertà evangelica dal punto di vista cattolico, non si deve, allora, considerare la ricostruzione offerta da padre Henri de Lubac (1896-1991), laddove il teologo spiega con chiarezza che S. Bonaventura approfondì l’ideale evangelico di povertà già espresso da S. Girolamo (347-420): «Nudo per seguire Cristo nudo», che poi S. Francesco riecheggiò: «Nudo fu lasciato, perché seguisse il crocifisso Signore che egli amava», come ricordava S. Bonaventura, perché «Non c’è altra via verso Dio»[6]. [1] R. Lambertini, «Usus» ed «Usura». Difesa della povertà e teoria economica nelle risposte francescane a Giovanni XXII, in Id., La povertà pensata, Modena 2000, pp. 227-247, qui p. 247. [2] P. Grossi, Somme penitenziali, diritto canonico, diritto comune, «Annali della Facoltà di Giurisprudenza di Macerata», n. s., I (1966), pp. 95-134, qui pp. 132-133. [3] R. de Roover, San Bernardino of Siena and Sant’Antonino of Florence. The Two Great Economic Thinkers of the Middle Ages, Boston 1967, pp. 27-29. [4] L. Baccelli, Il particolarismo dei diritti. Poteri degli individui e paradossi dell’universalismo, Roma 2009, pp. 15-35. [5] Per una lettura più approfondita delle più importanti bolle papali sulla disputa sulla povertà evangelica, si consulti il sito di Jonathan Robinson dell’Università di Toronto: http://individual.utoronto.ca/jwrobinson/. [6] H. de Lubac, La posterità spirituale di Gioacchino da Fiore, I, Dagli Spirituali a Schelling, Milano 2016, p. 169.
  2. L’arte è sempre contemporanea, cioè è figlia del tempo nel quale vivono gli artisti che la producono. Ecco perché, se in questo momento ultimo del nostro mondo, da diversi decenni, Dio viene relegato ad un ruolo marginale o addirittura spesso dimenticato, l’arte sacra cristiana vive grandi difficoltà di inclusione. In questo vuoto che si è creato in Occidente l’arte bizantina, russa, ortodossa, che è sempre uguale a se stessa, fedele ai suoi rigorosi, riconoscibili, sacri canoni, immutabili per scelta, ha costituito un saldo punto di riferimento cui l’Occidente ha guardato perché li trovava un’ancora di certezza di trasmissione e condivisione dei valori di fede. Sono anni ormai che noto come le chiese siano spesso spoglie, dimentiche del saldo antico sodalizio tra arte fede e liturgia che la Chiesa centrale non ha saputo, nonostante inviti e discorsi con gli artisti, rivitalizzare e, se opere d’arte nuove vengono commissionate, si tratta per lo più di icone, la cui sacralità è indiscussa. Ma sappiamo bene che quelle icone sono espressione del mondo culturale e religioso cui appartengono col quale noi siamo, per sentito anelito ecumenico, in contatto, ma non appartengono alla nostra tradizione d’arte sacra che ha una storia lunga quanto il cristianesimo. E’ nell’arte paleocristiana che sono nati capolavori immortali i quali animavano e ancora animano la fede di chi entri in un luogo sacro e sente quei testi iconici perfettamente aderenti ai luoghi che essi stessi esaltano, celebrando la Verità. Ci sono artisti contemporanei d’arte sacra che, fedeli alla tradizione occidentale, operano nella conoscenza dei simboli, della cultura cristiana, della fede, ma che sono spesso al di fuori dei circuiti di notorietà. Non è il caso di uno degli artisti presenti all’ultimo incontro in Vaticano promosso da Papa Francesco, Gian Maria Tosatti, il quale, alla domanda rivoltagli da un giornalista -Cosa vi aspettate ora voi, come artisti?- risponde:- C’è molta strada da fare. In questi decenni, se non secoli, di percorsi separati tra arte e Chiesa si è accumulata una distanza. – (Alessandro Beltrami su Avvenire.it, 23 giugno 2023). Ecco: è di questa distanza che voglio parlare, ma non solo. Sento l’urgenza da tempo di provare a trovare soluzioni per colmare questa distanza; ne hanno bisogno gli artisti di fede che non temono di auto-marginalizzarsi dal mondo dell’arte tout court dipingendo o scolpendo opere d’arte sacra cristiana ma ne ha bisogno soprattutto la Chiesa occidentale, per rimettere i tasselli di un puzzle scompigliato al posto giusto. Aggiungo che ne hanno bisogno anche i fedeli che molto spesso riferiscono di sentirsi ‘spaesati’ quando entrano in una chiesa moderna. Forse è necessaria una rieducazione ai valori, alle regole e canoni espressivi basati sulla comunicazione attraverso il simbolo che consente di svelare l’invisibile nel visibile, proiettato verso la speranza (certezza) dell’oltre cristiano. Forse sono necessari Concorsi pubblici, Biennali, Triennali, dotati di giurie all’altezza di verificare il contenuto sacro autentico delle opere a concorso. Ricordiamo la Firenze del ‘400 in cui venivano banditi concorsi dalle varie Corporazioni di Arti e Mestieri attraverso i quali sono venuti alla luce e sono stati donati alla storia dell’uomo artisti del calibro di Donatello, Brunelleschi e potrei continuare in un lunghissimo elenco. Dove sono oggi i ‘patrocinatori’ anche laici di allora che commissionavano arte sacra e di soggetto religioso? Forse c’è bisogno di valorizzare attraverso Mostre gli artisti d’arte sacra che hanno operato nella giusta direzione per educare a un discernimento necessario. Ricordo i saltuari e poco incidenti interventi del Vaticano alla più importante esposizione d’arte italiana, la Biennale di Venezia. Mi aspetto moltissimo dai dibattiti che possono animare il mondo culturale della relazione tra arte e Chiesa dalla mostra inaugurata a giugno del corrente anno nei Musei Vaticani: “Contemporanea 50. La collezione d’ Arte Moderna e Contemporanea dei Musei Vaticani 1973-2023”. Personalmente ritengo che il supporto e contributo culturale offerto mensilmente da una rivista come “I Luoghi dell’Infinito” e da alcuni blog in rete come Il Pensiero Cattolico siano validi e importanti, anzi fondamentali. Ma ci vuole un programma operativo centrale che ridia luce all’UCAI e ristabilisca regole attraverso la Pontificia commissione d’Arte sacra. Un lavoro imponente che sia veicolato fino alle micro-realtà ecclesiastiche. Voglio parlare però anche, inserendomi in un dialogo sollevato da tre articoli letti recentemente (dell'artista Giorgio Esposito e don Nicola Bux apparsi su Il Pensiero Cattolico, e di Luisella Scrosati su La Nuova Bussola Quotidiana ) del caso di un artista che si è introdotto in questa ‘distanza’, in questo iato vero e proprio, quasi generalizzato, conquistando commissioni su commissioni in luoghi molto significativi e cruciali della nostra fede, ma non solo, aiutato probabilmente dal suo essere un sacerdote, imitando esteriormente e apparentemente gli stilemi dell’arte orientale delle icone, forte di quella tendenza di scelte ecclesiastiche da me precedentemente esplicitata. Come è potuto accadere che nessuno si sia accorto e abbia contestato la banalizzazione del linguaggio espressivo delle icone, la loro effimera manipolazione prodotta nelle opere di Marko Ivan Rupnik? Vorrei proporre la mia analisi delle sue opere che non mi hanno mai convinta, essenzialmente, per gli sguardi privi di spiritualità dei suoi personaggi sacri. La sovrabbondanza, inoltre, di colori vivaci e di tessere dorate mi trasmetteva uno stordimento depistante, l’esatto contrario di quel che un’opera d’arte sacra deve comunicare. Quelle pupille nere che in tanti hanno negativamente commentato paragonandole a quelle dei personaggi dei cartoni animati, mi appaiono come il luogo del buio dell’anima, chiuso alla luce che Cristo ha affermato di essere. Non appartengono né alla tradizione artistica occidentale, né a quella orientale: sono una invenzione - negazione, di tutto. Come possono pupille nere, volti inespressivi che non mirano all’oltre, salvaguardare lo sguardo evocativo del sacro? Come può mai avvenire in queste opere una reciprocità dello sguardo, così come nelle icone, dove la prospettiva inversa fa affacciare il divino nello spazio-tempo dell’umano, dove si ha l’impressione che la scena venga verso lo spettatore quasi ad incontrarlo? Qui sta il significato teologico della scelta degli iconografi. É Dio che ha l’iniziativa, è Lui che viene verso l’uomo per rivelarglisi. Il fondo oro delle icone riflette la sacralità dello spazio divino. Non a caso sono state definite le “finestre” da cui il divino si affaccia. Nelle opere di Rupnik la sovrabbondanza dell’oro, dappertutto, confonde, disorienta, invade. Nella grammatica compositiva dello spazio delle icone, completamente diversa da quella occidentale, gli accorgimenti che mirano al naturalismo della rappresentazione, cioè che costruiscono l’illusione di realtà, come l’uso della prospettiva di tradizione occidentale, del chiaroscuro, della tridimensionalità, dell’armonia delle parti, non fanno parte dell’iconografia orientale in quanto ritenuti contrari alla natura sacra dell’icona. Nelle opere di Rupnik c’è una adesione formale e superficiale allo spazio prospettico delle icone, una semplificazione all’occidentale, non sempre coerente all’interno della stessa scena, della prospettiva, della postura del corpo che non rispetta nel suo complesso i criteri espressivi dell’iconografia. Un’altra libertà assunta da Rupnik risiede nell’uso del colore degli abiti della Vergine Maria: in Occidente simbologia sacra vuole che il rosso sia il colore dell’umanità e l’azzurro della divinità, tanto è vero che Cristo ha la veste azzurra, in quanto Dio, e il manto rosso in quanto ha assunto natura umana; viceversa, la Vergine ha la veste rossa e il mantello azzurro a sottolineare la sua origine umana e il suo essere stata prescelta per la venuta al mondo di Gesù, il suo essere diventata divina. Nella tradizione orientale il mantello (maphorion) di Maria è di color porpora cupo; il colore porpora, da sempre colore regale, ha in sé la sintesi di rosso e azzurro dunque indica la totalità, deriva infatti dall’unione di rosso e blu. Copre quasi completamente il corpo e il capo di Maria lasciando trasparire talvolta la veste sottostante celeste. Il maphorion ha tre stelle dipinte sul capo e sulle spalle di Maria che simboleggiano la Aeiparthenos, o perpetua verginità di Maria prima, durante e dopo il parto. Tengo a ricordare che l'icona è sotto la diretta giurisdizione della Chiesa che obbliga l'artista a non inventare secondo suo estro il suo personaggio. Questo controllo si esercita durante la benedizione richiesta per ogni icona nuovamente dipinta. Allora mi chiedo a quale tradizione afferisca Rupnik nella sua rappresentazione degli abiti della Vergine Maria? Alla orientale o alla occidentale? Continuo a non trovare coerenza operativa nelle sue rappresentazioni che sembrano ritagliarsi una ‘creativa’ appartenenza alla tradizione iconografica orientale, con spunti di realismo occidentale, dimentico del tradizionale simbolismo cristiano, con uno sguardo al mondo cartoonistico spersonalizzante. Cosa ha a che fare tutto questo col sacro?
  3. Il tema della libertà, intesa quale capacità di agire dell’essere umano, riveste un interesse essenziale della vita umana dal punto di vista sia interiore che relazionale, per quanto concerne la rilevanza nelle implicazioni della esistenza umana non è possibile sottrarsi alle risposte di fronte ad una istanza dettata dalla esigenza di scoprire una verità che riguarda il destino umano. Il principio ontologico che definisce nella sua essenza l’essere umano assume un significato profondo nella sua identità. La concezione dell’uomo secondo Platone è contraddistinta dal dualismo tra corpo e anima, ognuna delle quali ha uno stato di benessere e di malessere: salute" e la "malattia" per il «corpo», la "virtù" e il "vizio" per l’«anima. Di queste due parti, quella più propriamente umana, in quanto comanda sull’altra, è l’«anima». Questa contrapposizione dualistica viene gradualmente attenuata con una concezione di collaborazione tra corpo e anima affermando che la vita migliore non sta solo nel piacere, o solo nell’esercizio dell’intelligenza, cioè nella sapienza, bensì in una mescolanza di piacere e di intelligenza. La conoscenza dell’uomo si estende oltre i limiti dei caratteri distintivi del corpo e dell’anima. Secondo San Tomaso l’uomo esprime in sé stesso una portata trascendente. L’uomo è pienamente concepito se mira a ciò che sta al di sopra di sé stesso. La ragione può dimostrare l’esistenza di Dio partendo dalla realtà, l’uomo non può giungere al suo destino se non mediante la libertà. Nel senso comune la libertà può definirsi la capacità dell’uomo di essere arbitro delle proprie azioni, mostrando la scelta tra varie alternative: di agire o non agire, di compiere qualcosa piuttosto che un’altra. Nella sua essenzialità una componente che distingue l’essere umano da ogni vivente in natura è la libertà innata. Tale capacità di essere arbitro delle proprie scelte tra possibilità e alternative, tra agire o meno pone l’uomo di fronte al suo destino come risposta della sua libertà. Il suo destino è proteso alla felicità che nella sua pienezza giunge alla “comunione Divina”. Nella libertà l’essere è proteso a Dio come coerenza di vita ed anche scoperta di Dio. La libertà raggiunge la sua piena realizzazione in quanto consona al destino umano. Se il destino risponde alla realizzazione della felicità la libertà imprime essenzialmente un carattere strumentale nell’appagamento della pienezza dell’essere. L’uomo, essendo incline al conseguimento degli obiettivi dettati dalla necessità dell’appagamento delle inclinazioni innate dell’esistenza, deve tener conto della sua dimensione relazionale in termini sociali, economici e politici. L’esistenza si estende in uno spazio predefinito in cui la libertà può esprimersi nella sua compiutezza. Nell’ambito relazionale la libertà è imprescindibile per riconoscere quando le risorse morali siano determinanti per stabilire quanto il bene o il male abbia prevalso nelle scelte umane. Quindi La volontà dell’uomo impone delle scelte buone o cattive seguendo un proprio giudizio. Nell’esercizio del libero arbitrio non potrà mai venir meno il buon consiglio della grazia divina che l’uomo potrà accogliere o rifiutare. La grazia è il principio fondamentale per la conoscenza della verità. Gli assertori di un principio relativistico rispondendo ad una concezione umanistica, individuano nella coscienza la sede del giudizio quale presupposto della scelta riconoscendo così nella coscienza individuale il proprio fondamento, disconoscendo la responsabilità di fronte al Padre Celeste. Ne deriva una concezione individualistica della verità. I problemi umani legati maggiormente al benessere economico e alla giustizia sociale alla ricerca di soluzioni nella riflessione morale si collegano al problema della libertà dell’uomo. I dibattiti pubblici che hanno acuito il problema della libertà si sono orientati a risaltare che gli uomini del tempo attuale hanno acquisito maggiore consapevolezza della dignità umana e nel loro operare dalla consapevolezza del dovere. Resta l’interrogativo se la cultura moderna abbia offerto un contributo determinante alla valorizzazione della dignità umana affermando o negando la verità nell’uomo come creatura ad immagine di Dio alla luce della fede. Resta l’interrogativo quanto la ricerca della verità trascendente sia determinante nel definire autenticamente la libertà come principio del bene e negazione del male. In altri termini per esercitare la libertà l’uomo può concepirsi libero da condizionamenti culturali o ideologici? La cultura dominante, espressione di una concezione relativistica della coscienza umana attribuisce alla coscienza individuale il carattere di una istanza suprema del giudizio morale da cui consegue la decisione del bene e del male, a tal punto deriva il dovere di seguire la propria coscienza da cui il giudizio morale è vero se proviene dalla coscienza. Ne consegue che l’affermazione autentica della verità viene sostituita dalla regola della sincerità e autenticità per offrire una definizione soggettiva del giudizio morale. Nelle estreme implicazione di una visione relativistica della verità viene smarrito il principio della verità universale del bene concepita dalla ragione per cui viene modificata la concezione della coscienza. L’essere umano, responsabile delle scelte emanazione di una volontà dettata da una coscienza a cui viene attribuito il potere di stabilire autonomamente il bene e il male e di agire di conseguenza, ha smarrito il senso della verità negando la visione autentica della natura umana. A tal punto risulta imprescindibile la citazione al numero 34 dell’enciclica “Veritatis splendor” di Giovanni Paolo II pubblicata nell’agosto del 1993 “Alcune tendenze della teologia morale odierna, sotto l'influsso delle correnti soggettiviste ed individualiste, interpretano in modo nuovo il rapporto della libertà con la legge morale, con la natura umana e con la coscienza, e propongono criteri innovativi di valutazione morale degli atti: sono tendenze che, pur nella loro varietà, si ritrovano nel fatto di indebolire o addirittura di negare la dipendenza della libertà dalla verità. Se vogliamo operare un discernimento critico di queste tendenze, capace di riconoscere quanto in esse vi è di legittimo, utile e prezioso e di indicarne, al tempo stesso, le ambiguità, i pericoli e gli errori, dobbiamo esaminarle alla luce della fondamentale dipendenza della libertà dalla verità, dipendenza che è stata espressa nel modo più limpido e autorevole dalle parole di Cristo: «Conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi» (Gv 8,32).” In altri termini per conoscere la verità è necessario liberarsi dalla menzogna delle ideologie soggettivistiche e individualistiche
  4. Siamo nell’alto Medioevo, Anselmo nasce ad Aosta nel 1033 da nobile famiglia, da cui però si allontana presto per entrare nell’ordine benedettino, nell’abbazia di Notre-Dame du Bec nel 1060, di cui divenne in poco tempo priore e grazie al suo talento amministrativo nel 1079, esercitato nelle relazioni con l’Inghilterra, divenne Arcivescovo di Canterbury nel 1093. Nella sua vita si occupò di varie argomentazioni sul piano teologico e filosofico sostenendo sempre il primato della Ragione, ma considerando la Fede superiore ad essa, in quanto, laddove la ragione umana non riuscisse ad arrivare a causa dei limiti a cui il peccato originale l’ha condannata, la Fede doveva prevalere. Da qui la celebre frase “Credo ut Intelligam” dove prima viene la Fede e poi la Ragione. La traduzione di tale espressione non si distacca da quella utilizzata da Agostino. Il credo per capire è ribadito in Anselmo, ma a scanso di equivoci, non è la fede in sé che primeggia sulla ragione, ma è la ragione che alimenta un atto di fede e laddove, semmai ci fossero casi che la ragione non potesse spiegare, la Fede non andrebbe messa in discussione. La verità è che il fedele medioevale era convinto che senza la ragione non si poteva arrivare ad avere una fede cosciente. Anselmo è spesso ricordato per le sue prove, una apriori e una a-posteriori, dell’esistenza di Dio. Apriori intendeva prima dell’esperienza, dunque una prova a partire dal pensiero; per a-posteriori intendeva dopo l’esperienza, ossia partendo dalla realtà umana si poteva risalire a Dio. Vediamo nello specifico di cosa si tratta. La prova apriori consisteva nel fatto che se si può pensare Dio, lo si pensa certamente come qualcosa di “cui non si può pensar qualcosa di più grande”. Dal momento che l’idea di Dio è l’idea della perfezione espressa “come ciò di cui non si può pensare il maggiore”, bisogna ragionevolmente ammettere, che il perfetto non può mancare di qualcosa come l’esistenza. Se Dio è il Perfetto e il Perfetto non manca di nulla, allora Dio esiste perché la perfezione non può non esistere, in quanto mancherebbe in qualcosa, ossia nell’esistenza stessa. Interessante è l’obiezione che gli mosse un suo contemporaneo, il monaco Gaunilone. Egli sostenne che non deve per forza esistere una cosa per il semplice fatto che la pensiamo, cioè che sia nell’intelletto. Gaunilone, approcciando alla questione secondo una logica aristotelica, che a differenza di quella neo-platonica non fa coincidere essere e pensiero, vale a dire che il pensiero può essere una vuota rappresentazione della realtà, ritiene necessario dimostrare l’esistenza di un qualcosa prima di dichiarare che deve necessariamente esistere. Così porta l’esempio di un’isola che non esiste dicendo che non basta pensarla per dichiarare che esiste. Questo ragionamento verrà poi ripreso da San Tommaso d’Aquino che, introducendo la distinzione essenza-esistenza, per dimostrare come la tesi di Anselmo non possa essere accettata sul piano ontologico, in quanto, pur essendo vero che si possano avere idee per astrazione, dal particolare all’universale, è necessario dimostrare l’esistenza di tale idea partendo dai dati sensibili. Questo aspetto, necessita tuttavia di un ulteriore approfondimento, che verrà fatto nel prossimo articolo, dedicato proprio a San Tommaso. Cartesio, invece riproporrà la tesi di Anselmo, ma concependo Dio come ente perfetto. Kant contrasterà Anselmo con l’argomentazione dei cento talleri dicendo che la differenza tra cento talleri immaginari e cento talleri reali è l’esistenza, dunque, pur rimanendo cento talleri alcuni esistono altri no. Dio, anche se lo penso perfetto non è detto che esiste, poiché potrebbe essere come quei cento talleri immaginari. Si rende necessaria allora la prova pratica dell’esistenza di Dio. In questo dibattito la risposta di Anselmo, che aveva già confutato l’obiezione di Gaunilone nel suo primo ragionamento, sostiene che tale ragionamento vale solo per Dio, ma non in quanto pensato come “perfetto”, dunque al positivo, ma come Colui di “cui non si può pensare il maggiore”, dunque al negativo. Ciò significa, secondo Anselmo, che se Dio è pensato come “Colui della quale non può essere pensato il maggiore”, tale pensiero implica che il massimo non può mancare dell’esistenza, altrimenti non potrebbe essere pensato come il maggiore. Altro è invece dire che Dio è il più grande, il perfettissimo, perché questo non implica che esiste, in quanto potrebbe essere come i cento talleri immaginari, per dirla con Kant. In effetti, a rigor logico, Anselmo ha ragione. Solo in riferimento a Dio, la ragione trova la stessa importanza della fede, in quanto Dio è veramente il pensiero perfetto, poiché non vi è pensiero maggiore. San Bonaventura aveva intuito la grandezza di tale argomentazione, partendo da un ragionamento basilare: il pensiero dell’Essere non può contemplare la non-esistenza. Qui il piano logico è ancorato, platonicamente, alle parole, che rivelano un piano ontologico (la verità sta nelle parole sostiene Platone nel Cratilo). Tutto ciò fa notare l’errore in cui Cartesio, pur riprendendo il ragionamento di Anselmo, è caduto, affermando Dio come essere perfettissimo al positivo. Facendo così e non potendone dimostrare l’esistenza, a causa del rifiuto della logica tomista (che parte dal visibile per dimostrare l’invisibile), relegherà Dio, la Res Cogitans (la cosa pensata) solo nel mondo ideale separandola dalla Res Extensa (la cosa estesa) dalla materia. Questo modo di ragionare porterà all’errore hegeliano (idealista) che altro non è che l’eco di quello cartesiano, con l’aggravante che esso ha generato una ulteriore divisione tra realtà ed idea che, per esasperazione, ha condotto al positivismo logico nella sua doppia faccia, quella idealista in senso spirituale e quella idealista in senso materiale, ossia: da un lato si ritiene l’idea superiore alla realtà, ricadendo nella gnosi neo-platonica; dall’altro si ritiene la realtà superiore all’idea, cadendo nell’eresia materialista di matrice marxista (nel versante hegeliano di sinistra) che conduce all’esistenzialismo, all’esasperazione della terra, ad una gaia scienza (Nietzsche docet) che riduce Dio ad un modello puramente umano, un superuomo, un supereroe che fonda la nuova religione della terra, un dionisismo cristiano che altro non è che la morte del Dio Cristiano Vero (una sorta di nichilismo come fenomeno religioso avrebbe detto G. Scholem). Con tutto ciò si vuole dire che il ragionamento al negativo di Anselmo non è lo stesso di quello al positivo di Cartesio, di Kant e di Hegel, che son caduti nell’errore interpretativo di Gaunilone. San Tommaso, al contrario degli altri, non parte da questo presupposto, ma da un ragionamento che prevede una classificazione, una distinzione, persino nella terminologia, arrivando a dimostrare ciò che Anselmo, partendo da un ragionamento negativo, ha dimostrato per assurdo, ossia la falsità di chi nega l’esistenza di Dio pensandolo, poiché “non vi è” pensiero maggiore. Tutto questo, però, non può valere per il creato. Se pensiamo ad uno scultore che pensa, davanti ad un blocco di marmo, ad una statua, si può dire che ancora la statua non esiste se non nella sua mente. Questo perché quel pensiero non è perfetto in sé come il pensiero di Dio, in quanto ci sarà sempre qualcosa di maggiore sul piano del sensibile. Potrei pensare un’isola bella, ma non è detto che esista o se esistesse potrei pensare ad una ancora più bella una volta conosciuta. Fino a quando siamo sul piano delle creature (isole, persone, statue, dipinti, ecc…) l’argomento apriori non è valido, ma se pensiamo Dio, lo pensiamo come il non plus ultra che ovviamente non può mancare nell’esistenza altrimenti non sarebbe il maggiore pensabile e la mente potrebbe pensare qualcosa di migliore. Anselmo così dicendo afferma il primato della Ragione che pensa Dio. Ciò che invece può valere sul piano creaturale è la funzione che esso esercita per aiutarci a risalire a Dio. Qui vi è la prova a-posteriori. Anselmo fa notare che nella vita umana tutto procede per comparazione. Qualcosa sarà più o meno bella di un’altra, più o meno buona, più o meno alta, più o meno perfetta. Ora, se si accetta che vi è sempre il migliore o il peggiore, dobbiamo accettare logicamente che vi sarà un insuperabile, il perfetto, e questo è Dio che eccelle in tutto al di sopra di ogni creatura. Così dicendo abbiamo confermato la prova apriori partendo da quella a-posteriori, determinando che esse conducono alla fine, logicamente, allo stesso punto: Dio esiste perché non-superabile. Il ragionamento a-posteriori ha confermato quello apriori espresso al negativo. Abbiamo, dunque, due piani di dimostrazioni: uno apriori e uno a-posteriori, ed entrambi, cercano di dimostrare l’essere di Dio, dimostrarlo ontologicamente, ossia che esiste il suo Essere, e questo lo fa sul piano logico, sul piano della Ragione. Ci si potrebbe chiedere a questo punto: dove sta allora la priorità della Fede? La Fede, Cristiana per Anselmo, è l’ambito in cui l’umano si muove, poiché Dio è un pensiero che nasce da una fede: esiste la perfezione. Il pensare Dio è già credere che vi è una perfezione, anche solo come desiderio di perfezione, in quanto non si può desiderare ciò che si crede che non esiste. Dunque Anselmo pone la fede per prima, per ristabilire l’ordine a cui la ragione si sottomette, in quanto la fede in Dio abilita la ragione a muoversi in una direzione che conferma la fede che ti fa pensare, comprendere, che esiste il Dio Perfetto. La fede cristiana diventa per Anselmo l’espressione della perfezione assoluta di Dio. Si può anche dire che ciò che fa pensare l’Essere di cui maggiore non vi è, è la ragionevolezza delle fede cristiana stessa. Questo ovviamente non è detto a chiare lettere da Anselmo, ma a mio modesto parere ne è una conseguenza logica. Vediamo in che senso, seguendo sempre il suo ragionamento. Nel Medioevo si usava una espressione: Deus semper major. Dio sempre maggiore. Come può, ci si chiedeva, Dio che è perfetto, insuperabile, essere maggiore se è già ciò che non si può superare? La risposta è nell’incarnazione. Dio si è fatto maggiore facendosi il suo opposto, facendosi Uomo. Qui allora il ragionamento di Anselmo che sancisce la perfezione, non solo di Dio, ma della religione cristiana, che possiamo esprimere così: se Dio lo penso, penso la perfezione e il perfetto deve esistere e non può mancare di nulla. Il Dio perfetto, pensato e creduto prima del cristianesimo, mancava di qualcosa, aveva tutto, l’esistenza, la bontà, la giustizia, tutto, tranne una cosa: l’umanità. Il Dio cristiano non manca di nulla, perché oltre ad essere il Dio Perfetto è anche l’Uomo Perfetto. La Fede nell’incarnazione è allora ragionevole e siccome l’incarnazione è oggetto della fede cattolica, allora per deduzione logica, la fede cattolica è ragionevole. Ed è proprio l’incarnazione che sancisce la ragionevolezza della logica aristotelica, in quanto il sensibile è ora assunto da Dio e da questo si può partire per risalire alla sua Perfezione. Il tomismo dirà logicamente che i sensi attraverso la quale conosco il reale, che mi conduce a Dio, sono gli stessi sensi che Dio ha assunto. San Tommaso fonda il suo ragionamento sulla fede nell’incarnazione, rendendo così ragione ad Agostino, ad Anselmo, pur non accettando il loro punto di partenza come definitivo. È questo ciò che distingue il pensare cattolicamente da tutti gli altri modi di pensare: nella cattolicità le verità si danno appuntamento nella Verità, poiché laddove si hanno dei dubbi, dare priorità alla fede non significa annullare la ragione, ma aspettare che essa si sforzi di comprendere ciò che crede in modo che quella fede non si spenga nell’ateismo radicale del pensiero stesso o nel fideismo cieco. È dovere del pensar cattolicamente, oggi soprattutto, ricucire il filo rosso, che lega il pensare di Agostino, di Anselmo, di Bonaventura, di Tommaso e di tutti quei pensatori che si sono messi sulla scia della Tradizione Cattolica, in modo che vengano confutati e annullati tutti quei modi di pensare che, seppur legittimi, hanno separato anziché unire, hanno disperso anziché raccogliere. Per far questo è necessario conservare la Fede, porre prima il Credo e poi Intelligam, esattamente l’opposto del pensiero eretico che pone prima la ragione per poi affermare di credere in ciò che i suoi limiti gli hanno imposto di credere. Per esprimermi al contrario di Kant, che definii illegittimo il metodo di Anselmo, ossia quello di passare dal piano logico al piano ontologico, dico che è lecito passare dal piano logico a quello ontologico, ma se e solo se si presuppone la Fede al comprendere, se e solo se non si limita la fede alla ragione, ma al contrario se si limita la ragione umana alla Fede Cattolica, ossia alla Vera Ragione. È sottile la distinzione, ma è fondamentale comprendere l’errore kantiano e prima di questo quello cartesiano, in modo che si riscopra la Verità della Fede Cattolica, ossia quella di essere la Vera Ragione che rende ragione ad ogni esistenza, al creato in tutte le sue manifestazioni. Credo per Capire è così l’invito di Sant’Anselmo a non smettere di avere fiducia nella Fede ricevuta, ma di sforzarsi di capire, con la ragione, che essa trova il suo Principio nella Ragione perfetta, che è il Dio fatto Uomo, che ha creato esseri ragionevoli a sua immagine e somiglianza e che si è fatto come loro. Le prove del Santo sono chiamate ontologiche, ossia essere-logico, discorso logico sull’essere, su Dio e sulla fede in Lui che ce lo fa pensare, dire, pregare e celebrare con la Ragione, con la ferma fede che essa è capace di Dio.
  5. Premessa, esergo e confini della relazione Genesi 1,27: «Dio creò l'uomo a sua immagine, a immagine di Dio la creò». Levitico 19,27 o 28: «Non vi farete incisioni nella carne, nè vi farete tatuaggi addosso. Io sono il Signore». Catechismo n. 364: «Il corpo dell'uomo partecipa alla dignità di immagine di Dio: è corpo umano proprio perché è animato dall'anima spirituale, ed è la persona umana intera ad essere destinata a diventare nel Corpo di Cristo, il tempio dello Spirito». 1 Corinzi 6, 19-20: «Non sapete che il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete ricevuto da Dio? Quindi non appartenete a voi stessi. Poiché foste comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo». Notizie sull’autore Mons. Larry Hogan è arciprete del rito latino e bizantino dell'arcidiocesi di Vienna, Austria. Dal 2001 è esorcista di Vienna dove è assistito da un team di 18 sacerdoti e parecchi laici. Dal 1996 è professore ordinario di Antico Testamento presso l'Istituto Teologico Internazionale in Austria dove è stato anche rettore dal 2006 fino al febbraio di quest'anno. Mons.Hogan ha più di 40 anni di esperienza nel ministero di liberazione ed è stato per molti anni parroco nella città di Vienna. La sua tesi di dottorato effettuata presso l'Università Ebraica di Gerusalemme era intitolata «Guarigione nel Periodo del Secondo Tempio». Dal 19 Luglio 2012 è vicepresidente dell'Associazione Internazionale Esorcisti. Definizioni e origini di Tatuaggio e piercing Voglio dimostrare che tatuaggi e piercing non sono semplicemente opere d'arte. Al contrario entrambi hanno gravi conseguenze sociologiche, psicologiche, mediche e morali. Mi scuso in anticipo di dover passare cosí tanto tempo sugli aspetti medici. È necessario farlo per diversi motivi. In primo luogo, le conseguenze mediche di tatuaggi e piercing sono di solito molto sottovalutate. In secondo luogo, le persone sono più disposte ad ascoltare gli argomenti medici che ad ascoltare quelli morali. In terzo luogo, gli aspetti medici sono essenziali per formulare un giudizio morale su tatuaggio e piercing. Vorrei cominciare con due definizioni dall'Enciclopedia italiana Treccani. Tatuaggio: "Deformazione artificiale permanente dei tessuti cutanei, ottenuta mediante segni indelebili prodotti per puntura dall'inserzione sotto la cute di sostanze coloranti senza alterare la superficie epidermica". Piercing: "Pratica di perforazione con ago sterile di alcune parti del corpo per inserirvi orecchini in varie fogge". La prima dimostrazione del fatto che il tatuaggio sia più di una semplice arte innocua viene dall'origine della parola. Tatuaggio deriva dalla parola inglese "tattoo" che l'avventuriero ed esploratore inglese Capitano James Cook ha probabilmente coniato nella seconda metà del XVIII secolo in Polinesia. La parola deriva da due termini polinesiani: "Ta" che significa un disegno o un motivo inciso nella pelle (non dipinto sulla pelle) e "atua" che significa spirito. Dall'etimologia si potrebbe definire il "tattoo" come una incisione sotto la pelle con un disegno e uno spirito. Non si può determinare con esattezza quando la pratica del tatuaggio sia cominciata. Certo ci sono affreschi nelle grotte di uomini dipinti o tatuati già dal periodo neolitico. Il professor Francesco Bungaro scrive: "Già circa 60.000 anni prima di Cristo gli aborigeni australiani si dipingevano il corpo, si procuravano cicatrici, incidevano la parte inferiore del pene e allungavano le labbra vaginali". Però secondo me non è possibile accertare se i corpi erano veramente tatuati o solamente dipinti. Non c'è tuttavia alcun dubbio che le mummie egizie della dinastia undicesima (2065 -1745 a.C.) fossero tatuate. I tatuaggi su queste mummie prevalentemente femminili ci aiutano a determinare lo status sociale e la professione delle donne. Per esempio alcune erano sacerdotesse, ballerine e musiciste. Ancora più vecchio di queste mummie è il corpo tatuato di un cacciatore ritrovato all'interno di un ghiacciaio, nel 1991, in Alto Àdige (Südtirol). Questo corpo maschile dell'età della pietra, chiamato Otzi, ha quindici tatuaggi. Si stima la sua età in 5300 anni. La storia del tatuaggio non può essere raccontata in dettaglio qui. È importante notare che il tatuaggio ha svolto un ruolo in molte culture diverse, come quella occidentale e orientale, nel corso dei secoli. Per esempio, sia i Romani sia i Greci tatuavano i loro prigionieri e schiavi insieme con molti màrtiri cristiani. Per tutte le altre persone, il tatuaggio non era normale. Anche il piercing non era comune ma era un'eccezione. I centurioni romani utilizzavano il piercing sui capezzoli come segno di coraggio e virilità. Secondo il professor Francesco Bungaro nell'antico Egitto «il tatuaggio era usato per proteggersi dai diversi mali e pericoli e da recenti studi sembra che fosse utilizzato come "cura" per l'artrosi, una malattia di cui sono stati scoperti i postumi sullo scheletro ... Il piercing era considerato un segno di regalità ed era proibito alle persone senza "sangue blu"». L'India ha un'antica tradizione di tatuaggio molto ricca. Questo non ci deve sorprendere. Il paese non è solamente molto grande. L'India si compone di tantissime culture diverse. Esiste ancora oggi l'antica tradizione rurale di tatuaggi tribali femminili come rito d'iniziazione prima del matrimonio. Il tatuaggio in India era ed è ancora molto spesso associato alla protezione contro le forze malefiche, alla magia e all'adorazione delle divinità indù. Nel mondo cristiano il tatuaggio era spesso proibito con la motivazione data da Costantino nel 325 d.C. L'imperatore romano affermò che il tatuaggio «rovinava ciò che era stato creato nell'immagine di Dio». Nel secondo Concilio ecumenico di Nicea, il Papa Adriano I vietò ogni tatuaggio. Questo divieto è stato ripetuto più volte nel corso dei secoli senza molto successo. Fra i copti la pratica del tatuaggio è diffusa per rimarcare la propria identità cristiana in paesi come l'Egitto oppure l'Etiopia dove la maggioranza della popolazione è musulmana. Il tatuaggio più popolare è la croce tatuata sul polso o sul viso. Oggi in un paese sempre più fondamentalista, dove i cristiani sono perseguitati, la pratica copta del tatuaggio può costare la vita ai cristiani. C'erano santuarî, dove i frati stessi tatuavano croci e altri segni ai fedeli come testimonianza del loro pellegrinaggio. Forse il piú noto santuario dove i pellegrini potevano ottenere un tatuaggio fino agli anni quaranta era il Santuario di Loreto. Si dice che la tradizione del tatuaggio a Loreto tragga origine dalle stimmate di san Francesco e che questa tradizione abbia un'origine mistica. Però nel corso degli anni sono apparse altre immagini tatuate sulla pelle, che rendono difficile parlare di un significato mistico. Non solo rappresentazioni di simboli religiosi come la Madonna di Loreto sono diventati comuni, ma anche temi come le spose, il nome della propria ragazza e scritti varî, per esempio "memento mori" (ricòrdati che devi morire). Il professor Bungaro scrive circa il lavoro dei frati marcatori: «La tecnica praticata dai monaci consisteva nell'uso di stampini di legno imbevuti con l'inchiostro e premuti contro la pelle per disegnarvi sopra l'immagine voluta, nel praticare successivamente una serie di punture sulla sagoma del disegno e nell'applicare infine un inchiostro che rendeva il disegno indelebile». Nel corso dei secoli sono stati utilizzati molti diversi metodi di tatuaggio. La tecnica praticata a Loreto non è comune al giorno d'oggi. Normalmente la pelle viene trafitta con aghi sottili attraverso cui l'inchiostro costituito da sostanze vegetali o minerali è guidato sotto la pelle. La maggior parte dei tatuatori professionisti utilizza oggi una macchina elettrica inventata e brevettata nel 1891 da Samuel Reilly negli Stati Uniti, un apparecchio che evidentemente non è ancora stato migliorato, si dice. Come funziona? I piccoli aghi sfrecciano con una frequenza elevata attraverso una turbo guida. Il tatuatore usa quest'apparecchio come una penna e penetra la pelle in modo cosí preciso che questa può rimarginarsi sul tatuaggio dopo alcune ore. Che cosa spinge le persone a tatuarsi? Ci sono molte ragioni, compresa la moda. Ciò che stimola un giovane a tatuarsi non è necessariamente la stessa ragione di un uomo o una donna di cinquant'anni. Ma non è un caso che il tatuaggio e il piercing siano così popolari ai nostri tempi. Il filosofo e apologeta cattolico Corrado Gnerre e molti altri pensatori parlano di "corpofobia", che Don Marcello Stanzione descrive come un «tentativo misterioso ancorché incomprensibile, di ingegnarsi per rendere il proprio aspetto esterno più brutto e sgradevole magari attraverso la tatuomania, gli anelli al naso e alle labbra: tutte usanze tribali tipiche dei masai». Aggiungo a questo commento quello di Ivo Quartiroli, curatore della casa editrice laica Apogeo - Feltrinelli: «I valori tradizionali di progresso, scienza, famiglia e religione vanno esaurendo la loro funzione di sostegno... si sta avvicinando una nuova era in cui torneranno i tipici simboli della pre-civiltà pagana e tribale: la cultura tribale, pagana, e il mondo antico greco hanno sempre riconosciuto diversi dèi invece di un Dio unico. Per accettare una società multietnica bisogna partire dall'accettazione della diversità tra le persone e all'interno di noi stessi. Auspichiamo la riappropriazione della spiritualità non mediata da moralismi e dogmi ecclesiali. La spiritualità che parte dalla sensazione di essere connessi. Connessi con sé stessi, con gli esseri viventi, con la terra e i suoi cicli. Una spiritualità che non necessita di luoghi di culto, non necessita di intermediari, non ha peccati né sensi di colpa». Questo è lo sfondo filosofico del mondo del tatuaggio e piercing. Per saperne di più su quest'argomento vi consiglio la magistrale opera del grande filosofo cattolico brasiliano Plinio Corriera di Oliveira, "Rivoluzione e controrivoluzione". Per quanto riguarda la popolarità del tatuaggio e piercing tra i giovani scrive don Marcello Stanzione: «I tatuaggi e i piercing non sono altro che riti d'iniziazione per invitare i ragazzi e i giovani a far parte di un culto tribale e primitivo. Attraverso la modificazione del corpo, i giovani aderiscono consapevolmente o inconsapevolmente alla nuova era pagana». Ma quest'era è solamente pagana, cioè senza valori? Penso di no. Leggo dalla rivista più importante sul tatuaggio, Tattoo Gallery: «Presso quasi tutti i popoli primitivi, il tatuaggio era associato al culto dei demoni e veniva praticato durante riti a loro dedicati da santoni o maghi. In questo tipo di tatuaggio aveva molta importanza il flusso del sangue che usciva dalle ferite, il quale porta con sé fuori dal corpo gli spiriti maligni che vi sono entrati». Si può naturalmente protestare contro questa connessione con il Male e dire che i cristiani che desiderano tatuaggi certamente non desiderano alcun contatto con gli spiriti maligni. Questo è probabilmente vero. Racconto il caso di un giovane svizzero di san Gallo di nome Markus. Dopo la sua conversione, Markus voleva cominciare una nuova vita da cristiano. Come segno della nuova vita ha chiesto di essere tatuato con la parola Gesù sul braccio sinistro e con un'immagine della Madonna sul bicipite destro. Per lui i suoi tatuaggi sono simboli della sua fede. Dice che ogni volta che ha difficoltà guarda i tatuaggi e riceve nuova forza. Di fronte all'argomento che il nostro corpo è il tempio di Dio e non dovremmo deformarlo risponde: «Ogni religione adorna i suoi templi e noi tatuati consideriamo il corpo tatuato come un tempio». Per Markus i suoi tatuaggi non sono solamente decorazioni per il corpo. Sono segni della sua fede. Non è l'unico che la pensa così. Ci sono altri cristiani praticanti che la pensano nello stesso modo. Ma questo fatto da solo non è un argomento convincente, anche se dobbiamo analizzare seriamente i loro argomenti. E la maggior parte dei tatuati giovani non sono credenti. Non possiamo negare che il tatuaggio e il piercing sono caratteristiche della cultura giovanile, una cultura a cui molti adulti partecipano. Motivazioni sociali e psicologiche del tatuaggio Quali sono le motivazioni sociali per ottenere un tatuaggio nella società occidentale? Cito la lista data dalla Laser Medical Center a Milano: Ci si tatua per: a) rendere indelebile un episodio o un momento particolare della propria vita (la nascita di un figlio, la morte di un caro, il legame con un amico/fratello...), b) impreziosire il proprio corpo con un simbolo che comunica ciò che si ha dentro, c) sentirsi parte riconosciuta di un gruppo ("i tatuati"). d) seguire le mode e gli stili del momento, per farsi accettare meglio dalla società in cui si vive. Il noto tatuatore milanese Mino Spadaccini spiega la motivazione per il tatuaggio ancora più vividamente: «Questa mania sta crescendo. Alla base c'è un discorso sull'esibizionismo, un discorso sulla moda, sul desiderio di uguagliare l'amico o l'amica che l'ha già fatto, ma secondo me ... la cosa principale è che abbellisci te stesso, aggiungi qualcosa in più ... aggiungi una cosa indelebile e quindi c'è il brivido che non va più via, l'unica cosa che non riesci a cancellare di te stesso, puoi cambiare tutto, ma il tatuaggio no ... è uno sposalizio per sempre, è più importante del matrimonio». Torniamo alla domanda: perché i tatuaggi e i piercing sono così popolari? Fino agli anni ottanta i tatuaggi erano più o meno simboli di ribellione. Il movimento Punk voleva mostrarci che i suoi "membri" erano persone con un'identità individuale. Dicevano: «Non rientro in questa cultura, in questa società, in questa Chiesa. lo sono un outsider ed è bene così». Non dico che non troviamo questi atteggiamenti tra alcune persone anche oggi, ma penso che la maggior parte delle persone che porta un tatuaggio o hanno un piercing, soprattutto tra i giovani, lo fanno perché pensano che sia "fico". Inoltre, viviamo in una società consumistica nella quale è sempre più difficile distinguerci dagli altri. Tutti, giovani e meno giovani, vogliono indossare i jeans e le scarpe sportive. Per i tatuati sono molto importanti i simboli come i tatuaggi. Dice Markus dalla Svizzera: «Non essere notato significa essere al di fuori di un gruppo ed essere un outsider è come la morte vivente». Come dobbiamo intendere il tatuaggio e il piercing dal punto di vista culturale? Per rispondere alla domanda mi riferirò alla ricerca di due autori, lo studioso scozzese Victor Turner e il teologo protestante Markus Ansgar Friedrich. Per entrambi un simbolo è un segno il cui significato si cambia a seconda della persona che lo utilizza, come pure secondo l'ambiente e il contesto specifico in cui viene utilizzato. Friedrich pone le domande: «Chi si fa contagiare? Da che cosa e perché? In che tipo di società e con quali prospettive per il futuro? Quale fede o religione?» Quando qualcuno mette un piede oltre la soglia di un negozio di tatuaggi per la prima volta, quella persona prende una decisione. Supera una soglia interna. Fa un passo che cambia definitivamente il suo aspetto fisico e forse la sua immagine corporea. È anche disposto ad accettare il dolore che fa parte integrante del processo del farsi un tatuaggio. Theo di Amburgo in Germania, il cui corpo è tatuato dalla testa ai piedi, porta un tatuaggio col suo motto: «Impara a soffrire senza lamentarti». Il primo tatuaggio è sempre un rito di passaggio. Naturalmente si tratta di un rito di passaggio in un senso diverso da quello delle società agricole in cui il tatuaggio significa che il ragazzo è diventato un uomo: è un rito di passaggio individuale. L'antropologo e professore all'Università di Strasburgo David Le Breton descrive il tatuaggio come un processo di costruzione di nuove forme d'identità. II tatuato prende realmente possesso del suo corpo. «Nelle interviste con tatuati ─ dice Le Breton ─, ricorre spesso la spiegazione: "Ho fatto questo tatuaggio per riappropriarmi del mio corpo"». Lo psichiatra Marco Cannavicci esprime pensieri simili: «Diventando parte integrante della propria identità personale, il tatuaggio "porta fuori" qualcosa di noi che in genere viene tenuto nascosto o non espresso. In questo senso, può rappresentare un modo per dichiarare la propria posizione rispetto al mondo, esteriorizzare quindi il proprio modo di essere davanti agli altri. In una società in cui le differenze sociali sono diventate meno palpabili, il tatuaggio aiuta a riconoscersi come parte di un gruppo o movimento della vita in cui è ancora possibile trasgredire». Il professor Le Breton ha fatto molte ricerche sul tatuaggio. In un'intervista risponde alla seguente domanda: Quale ruolo hanno sofferenza e dolore nell'esperienza di un corpo (per lo più un corpo giovane) tatuato? «Il dolore non è un motivo sufficiente per resistere alla tentazione di farsi tatuare, o di farsi applicare un piercing. Al contrario, moltissimi clienti rimpiangono di non aver sofferto abbastanza. Mi sono più volte imbattuto in giovani che dichiaravano di voler ricominciare tutto da capo, rifacendosi il piercing o il tatuaggio, scegliendo un operatore che godesse la fama, di essere più doloroso. Il tatuaggio fa male, ma molti - e badi: senza essere masochisti - sostengono di apprezzare proprio quest'aspetto dell'esperienza, perché è il dolore a confermare l'importanza di quello che stanno facendo. Il dolore agisce come memoria dell'evento: è la prova della sua solennità». Vorrei aggiungere: il dolore è anche la prova del suo coraggio. Con quest'enfasi sul dolore, non dovrebbe sorprenderci che il branding sia diventato popolare. Non stiamo parlando del marchio sul bestiame. La parola "branding" deriva dell'inglese 'to brand'' marchiare a fuoco, e significa che le persone devono resistere per un po', mentre qualcuno infigge loro sulla pelle uno stampo riscaldato a una temperatura di 1000 gradi centigradi. Che cosa accade ai giovani che vogliono farsi tatuare? Non è forse vero che corrono il rischio di perdere il gradimento dei genitori e l'apprezzamento dei loro amici? Questo è il primo passaggio. Il secondo passaggio è quello di riporre la loro fiducia nelle mani del tatuatore che probabilmente è un estraneo. Essi si affidano attraverso un rito a qualcuno che non conoscono. Il terzo passaggio è quello di essere disposti ad accettare il dolore e molto spesso la paura di una malattia. Il quarto passaggio è il momento scelto per mostrare il tatuaggio. Questo passo comprende la scelta della prima e seconda e forse della terza persona privilegiata per vederlo. Si nota qui un'interazione di rivelare e di nascondere. Il primo tatuaggio è di rado visibile in ogni momento. Che cosa è successo qui? Il mondo del neo tatuato si trasforma. Ha un marchio sul corpo visibile, anche se non è sempre visibile. Un crocefisso al collo si può facilmente rimuovere, una croce tatuata no. Il tatuaggio offre ai giovani un po' di sicurezza, un po' di protezione. Markus Ansgar Friedrich pone il tatuaggio nella categoria di una religione pop che assume rilievo dovunque la vita sia minacciata da nemici naturali e umani. Secondo lui le grandi banche internazionali, la moneta unica, il governo, forse anche la Chiesa non possono proteggerci più. Però tutti hanno bisogno di un senso di sicurezza. Qual è il tatuaggio tipico di un marinaio? L’ancora, un segno di appartenenza e di speranza. Le raffigurazioni tatuate hanno spesso uno scopo apotropaico, per esempio raffigurazioni di scorpioni e leoni. Sono tenuti a proteggere i tatuati dal pericolo del male. Questa è la ragione per cui le raffigurazioni sono intimidatorie o spaventosamente brutte. Con una tigre aggressiva tatuata dovrebbe essere possibile scongiurare l'aggressione. Anche la croce offre una protezione. Si pensa: "lo sono cristiano. A causa della mia croce tatuata, nessuno può farmi del male". Considerazioni mediche sul tatuaggio Secondo il punto di vista di quelli che amano i tatuaggi, essi sono un'opera d'arte, un abbellimento del corpo. Ma che cosa è un nuovo tatuaggio considerato dal punto di vista medico? È una ferita della pelle che deve essere trattata. Quali sono i rischi o le conseguenze di un tatuaggio? Cito qui dalle linee guida del Ministero della Salute in Italia del 27 aprile 2004: Numero 6932. Il documento è intitolato: "Linee Guida per l'esercizio delle attività di tatuaggio e/o piercing" e menziona quattro complicazioni relative ai tatuaggi: 1. "Reazioni allergiche: disturbi del sistema immunitario caratterizzati da uno squilibrio della reattività immunologica, che determina reazioni anomale al contatto con determinate sostanze (allergeni). 2. Granulomi: noduli che si formano attorno al materiale iniettato che il corpo percepisce come estraneo. 3. Cheloidi: eccessiva formazione di tessuto cicatriziale nel processo di cicatrizzazione di una ferita. Le aree anatomiche più predisposte sono il torace, le spalle e il collo. 4. Complicazioni da risonanza magnetica nucleare (RMN): si sono verificati casi d'interferenza con la qualità delle immagini". Ancora più dettagliate, sono le Linee Guida per la prevenzione dei rischi derivanti dell'attività di tatuaggio e piercing del Maggio 2010. Questo documento eccellente è stato pubblicato dall'Azienda per i servizi sanitari Numero 4 "Medio Friuli". Simili a queste due linee guida sono le avvertenze sui rischî della Food and Drug Administration (L'Agenzia per gli alimenti e i medicinali). Quest'agenzia (abbreviato in FDA) è l'ente governativo statunitense che si occupa della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici. 5. Infezione. Anche con l'utilizzazione di un nuovo ago, le attrezzature per tatuaggi sono tuttavia difficili da sterilizzare. Quando viene utilizzato un apparecchio che non è sterile, c'è un rischio di trasmissione di malattie ematica come l'epatite o HIV. Gli studi negli Stati Uniti indicano che farsi un tatuaggio aumenta il rischio di prendere l'epatite C del 300 per cento. A causa di questi rischî d'infezione, l'American Association of Blood Banks (l'Associazione americana di banche del sangue) richiede un'attesa di un anno tra l'ottenimento di un tatuaggio e la donazione di sangue. Il tempo di attesa dopo un tatuaggio varia da paese a paese e da regione a regione. Stando alla Guida dei Consumatori italiana: «La Croce Rossa sta tentando, di incoraggiare molte persone alla donazione del sangue, ma la gran parte dei volenterosi donatori vengono spesso rifiutati. Una delle ragioni di ciò è nell' aumento della popolarità dell'arte della decorazione del corpo (tatuaggi, piercing); se avete fatto un tatuaggio o aggiunto un piercing nel corso dell'ultimo anno correte il rischio di non essere considerati idonei, in accordo con le regole esistenti, per la donazione del sangue». Tanti calciatori portano un tatuaggio o diversi tatuaggi ma c'è un'eccezione molto importante: Cristiano Ronaldo. Il 30 Giugno gli è stato domandato la ragione per cui lui non portasse tatuaggi. La sua riposta? «Non ho tatuaggi perché m'impedirebbero di donare il sangue». Ronaldo dona il sangue regolarmente. Lui è anche donatore del midollo osseo. I nostri giovani hanno bisogno di modelli. Se si sta discutendo con i giovani per convincerli a non farsi un tatuaggio non aiuta molto il fatto che il Vescovo o il parroco non abbia un tatuaggio. Ma sentire che Ronaldo non ha un tatuaggio e conoscerne il motivo, cioè per poter donare il sangue, potrebbe aiutare un giovane a fermarsi e pensare per un attimo. Almeno così io credo. Ci sono altre malattie infettive, per esempio la lebbra, la tubercolosi e la rosolia che possono essere trasmesse con l'uso di tatuaggi e di piercing anche ai nostri giorni soprattutto nei paesi in cui vengono trascurate norme igieniche. Il secondo rischio citato dalla Food and Drug Administration è quello di Reazioni allergiche. Anche se le reazioni allergiche ai pigmenti del tatuaggio sono relativamente rare; tuttavia quando si verificano, possono essere particolarmente fastidiose perché i pigmenti possono essere difficili da rimuovere. Di tanto in tanto, le persone possono sviluppare una reazione allergica ai tatuaggi che hanno avuto per anni. Il terzo rischio che abbiamo visto sulla lista delle linee guida del Ministero italiano della Salute sono le complicazioni da risonanza magnetica nucleare RMN): «l'interferenza con la qualità delle immagini». La Food and Drug Adminstration informa che tante persone con tatuaggi o trucco permanente provano gonfiore o una sensazione di bruciore alla zona tatuata. Il quarto rischio citato dall'Agenzia per gli Alimenti e i Medicinali sono i problemi di rimozione a causa dell'insoddisfazione del cliente. Nonostante i progressi nella tecnologia laser, la rimozione dei tatuaggi è un processo doloroso, anche se il dolore varia a seconda della persona e della zona trattata. Di solito coinvolgono diversi trattamenti e spese notevoli. Le spese della laser-terapia per rimuovere tatuaggi dipendono da una serie di fattori, il prezzo delle apparecchiature laser stesse - fino a 140.000 euro - la dimensione dei tatuaggi, i loro colori, la parte tatuata del corpo e da quanti anni hanno i tatuaggi. Normalmente per rimuovere un tatuaggio sono necessarî tra cinque e venti trattamenti. In Europa o in America settentrionale ci si può aspettare di pagare almeno 100-300 euro a trattamento. Ho consultato un sito web italiano (www.inerboristeria.com) riguardo alle spese della laserterapia per rimuovere tatuaggi. Cito: «Dal momento che la rimozione del tatuaggio può richiedere diversi trattamenti per essere completata, il costo totale potrebbe andare da un minimo di 1.000 fino a un massimo di 10.000 curo». Non c'è nessuna garanzia che i tatuaggi scompariranno completamente perché non è sempre possibile eliminare tutto il pigmento. Le particelle d'inchiostro verranno eliminate attraverso il sistema linfatico. Il professor Francesco Bungaro dice: «L'esito dipende dalla profondità del tatuaggio, dall'uso dei colori (agisce meglio se sono definiti e peggio se sono sfumati), dalla zona corporea (più facile su schiena e glutei che sono zone più resistenti, più difficile su braccia, caviglie e seno, zone più delicate), dal tipo di pelle (agisce meglio sulle pelli chiare perché crea un contrasto maggiore con il tatuaggio e perché il laser funziona meglio con le differenze cromatiche». Inoltre i colori reagiscono diversamente al laser. Per esempio il verde scuro è molto difficile da eliminare, mentre il nero è meno difficile. La rimozione dei tatuaggi ha anche i suoi rischi, reazioni allergiche e infezioni. Con il laser i pigmenti vengono arsi dal calore, che aumenta la volatilità delle sostanze chimiche e genera nuove sostanze cancerogene. Secondo un recente studio in Germania, rimuovendo pigmenti rossi e gialli per irraggiamento il laser può aumentare le concentrazioni di molecole tossiche fino a settanta volte. Comunque per donare il sangue dopo la rimozione si devono aspettare almeno quattro mesi. Sebbene la terapia laser sia il metodo di scelta per rimuovere i tatuaggi, esistono altri metodi attualmente usati. La salas-abrasione o elettrosalatura con fresa o con cristalli salini è una rimozione chirurgica cruenta per chi ama il dolore, ma è possibile usare un anestetico locale prima della procedura. Dopo il trattamento può rimanere una cicatrice pigmentata e a volte brutta. Un secondo metodo è la dermoabrasione, un intervento chirurgico anche usato per guarire la cicatrice, e le lesioni pre-cancerose. Questo metodo si avvale di ciò che può essere descritto come uno strumento di levigatura per togliere l'inchiostro tramite sfregamento o carteggiatura degli strati più superficiali della pelle. È buono per tatuaggi molto piccoli e anche meno invasiva della terapia laser. Un terzo metodo è la rimozione con acido tricloroacetico, un altro metodo chimico, anche una procedura dolorosa. Un quarto metodo spesso utilizzato in Nord e Sud America è la coagulazione con infrarossi o il trattamento a raggi infrarossi. Si usa questo metodo in Europa per alcuni trattamenti per esempio il trattamento di emorroidi ma non si usa con molta frequenza per la rimozione dei tatuaggi. La luce infrarossa viene utilizzata per bruciare lo strato di pelle che contiene l'inchiostro del tatuaggio. Il trattamento sfuma il tatuaggio. Si forma una crosta. Quando la crosta cade, l'inchiostro va o scompare con essa. Tutti i colori reagiscono bene a questo metodo che secondo me è il metodo migliore e normalmente il più economico. Purtroppo non può essere utilizzata la coagulazione con infrarossi sulla gente di colore. Il trattamento a raggi infrarossi è il metodo di scelta per ex detenuti ed ex membri delle gang che vogliono vivere una vita normale e trovare un lavoro. Vale la pena ricordare qui il programma Adios Taniajes iniziato dalla società missionaria americana, i Padri e Frati di Maryknoll nel 2000 a san Pedro Sula in Honduras. Ci sono molte gang a san Pedro Sula. Ognuna di esse ha il suo logo che i membri portano su di sé tatuati. Guerra tra gang e omicidi sono comuni. Un tatuaggio visibile della propria banda nel territorio controllato da un'altra gang è molto pericoloso. Molti datori di lavoro non impiegheranno giovani con tali tatuaggi. Ma dopo due anni e mezzo di attività, il programma Adios Taniajes è riuscito a rimuovere i tatuaggi da più di 14.000 giovani a san Pedro Sula. Il programma è gestito da Maryknoll in quattro paesi dell'America centrale, ma l’ordine non è l'unica organizzazione che aiuta gli ex membri delle bande togliendo i loro tatuaggi e contribuendo a reintegrarli nella società. Simile al programma Adios Tatuajes è quello introdotto nel 2007 da laici cattolici nella diocesi di Austin, Texas sotto il nome dello St. Dismas Tattoo Removal Ministry (Ministro san Dísma per la rimozione dei tatuaggi). Da allora si è diffuso ad altre diocesi e regioni degli Stati Uniti. Il trattamento a raggi infrarossi, come ogni metodo di rimozione dei tatuaggi non può garantire che tutte le tracce di un tatuaggio vengano rimosse. Questo trattamento, tuttavia, è relativamente poco costoso soprattutto perché l'apparecchiatura costa non più di 10.000 Euro invece di 100.000 (costo delle apparecchiature laser più economica per tatuaggi) e perché non richiede la presenza di un medico o di un infermiere. In breve non è un metodo per fare soldi com'è in realtà il caso della terapia laser. In Italia ci sono oggi molti centri medici specializzati nella rimozione di tatuaggi con la terapia laser. Il tatuaggio non è solamente un ostacolo per vecchi membri di una gang, di una banda. Come scrive il professor Andrew Timming della scuola di Management all'Università di St. Andrews in Scozia, tatuaggi in posti visibili riducono la possibilità di trovare un lavoro. Nel suo studio Timming e i suoi colleghi hanno intervistato 15 manager di aziende che erano responsabili delle assunzioni presso diverse società, tra cui librerie, banche, alberghi, enti pubblici ed università. Il professor Timming ha riportato che la maggioranza degli intervistati aveva giudicato inaccettabile la presenza di uno o più tatuaggi sul corpo del candidato. L'impressione principale che hanno riportato i manager di fronte al candidato tatuato è stata quella di una persona sporca e magari anche un delinquente. Tra i tipi di tatuaggi più accettabili, vi erano quelli a motivo floreale oppure farfalle o altri simboli innocui; invece quelli rappresentanti teschi, ragnatele, morte e altre situazioni giudicate negative sono stati quelli oggetto di maggior rigetto e considerati offensivi. È vero che sempre più datori di lavoro assumono persone tatuate a condizione che i tatuaggi non siano offensivi. Tuttavia, in una società in cui la disoccupazione è alta i tatuaggi possono costituire un ostacolo per ottenere un posto di lavoro. Indubbiamente è più sicuro tatuarsi nei paesi occidentali piuttosto che in altre parti del mondo perché ci sono più alte probabilità che gli operatori usino attrezzature sterilizzate. Ma non si deve presumere che sia sempre così. Nel 2003 la regione italiana della Toscana è stata la prima ad approvare leggi per regolamentare tatuaggi e piercing. Per esempio è vietato eseguire tatuaggi e piercing ai minori di diciotto anni senza il consenso dei genitori. La legge prevede anche un obbligo formativo per tutti gli operatori di tatuaggi e piercing. Spiegò Enrico Rossi che nel 2003 era in Toscana assessore regionale al diritto alla salute: «Con questa decisione abbiamo voluto tutelare i cittadini dai rischi che corrono se si rivolgono a chi s'improvvisa tatuatore o piercer, ma non possiede i requisiti igienici e la preparazione professionale in grado di garantire la salute dei propri clienti. Basti pensare che l'ottanta per cento degli operatori dispone di una sterilizzatrice, ma soltanto metà di loro la usa correttamente. Ecco quindi l'importanza della formazione, dei controlli e delle sanzioni per gli inadempienti». Spero che oggi la situazione in Toscana sia meglio di allora. Ora voglio parlare dei rischi provocati dalla mancanza di sterilizzazione, in particolare dagli ingredienti dell'inchiostro usato per fare il tatuaggio. In altre parole, anche se si va in uno studio per tatuaggi con i più elevati standard igienici, rimane comunque la possibilità di infezioni cutanee gravi. Due anni fa c'è stata negli Stati Uniti, in quattro stati, un'insorgenza d'infezioni della pelle causate da un tipo di batteri chiamato "nontuberculous mycobacteria (NTM) (microbatteri non tubercolari)". Queste infezioni richiedono un minimo di quattro mesi di trattamento con due o tre antibiotici. Questo tipo d'infezione può portare ad altre condizioni tra cui malattia polmonare, infezione da stafilococco e a infezioni di altri organi. La fonte delle infezioni in New York era un inchiostro grigio contaminato proveniente dall' Arizona. Purtroppo infezioni da NTM (microbatteri non tubercolari) non sono l'unica cosa di cui preoccuparsi se si vuole ottenere un tatuaggio. Il Centro Nazionale per la Ricerca Tossicologica negli Stati Uniti ha trovato sostanze cancerogene tra gli ingredienti d'inchiostri per tatuaggio, per esempio metalli pesanti come piombo, titanio e cadmio così come gli idrocarburi. Alcuni inchiostri contengono coloranti «adatti per l'inchiostro tipografico o la vernice auto». L'inchiostro nero presenta problemi dal punto di vista dei cancerogeni. Quest'inchiostro contiene spesso idrocarburi policiclici aromatici. L'Agenzia per la Protezione dell'Ambiente (Environmental Protection Agency) dice che questi idrocarburi sono (cito): «tra i cancerogeni della pelle più potenti e ben documentati». Secondo l'Agenzia c'è un aumento del numero dei casi di melanoma cutaneo associati con i tatuaggi. Uno studio condotto da Jorgen Serup, professore di dermatologia all'ospedale universitario di Copenhagen, ha rilevato composti cancerogeni in tredici dei ventuno inchiostri per tatuare utilizzati in Europa. Nello stesso modo le Tattoo Ink Manufacturers of Europe (L'Associazione dei fabbricanti di inchiostro per tatuaggi in Europa) riconosce questi pericoli e aggiunge che fino al 30 % dell'inchiostro utilizzato in studî per tatuaggi, contiene microbi, che in casi estremi potrebbero portare alla morte. Quest'avviso si può leggere sul sito web dell'associazione. L'Henné, una colorazione fatta da una pianta, è approvata solo per l'uso come tintura per capelli negli Stati Uniti. Non è approvato per applicazione diretta sulla pelle, come nel processo di decorazione organismo chiamata "mehndi". Quest'uso non autorizzato di un additivo colore rende questi prodotti adulterati e quindi illegale. Un avviso d'importazione è in vigore per henné destinati a essere utilizzati sulla pelle. Perché henné produce tipicamente un marrone, arancio-marrone, o una tinta bruno-rossastro, altri ingredienti devono essere aggiunti per produrre altri colori, come quelli commercializzati come "henné nero" e "henné blu." Anche le tonalità marroni di prodotti commercializzati come henné, possono contenere altri ingredienti destinati a renderli piú scuri o prolungare la durata del colore. Il cosiddetto "henné nero" può contenere il "catrame" colore p-fenilendiammina, noto anche come PPD, che è permesso solo per l'uso di tintura per capelli. In alcuni casi, il cosiddetto "henné nero" consiste solo in tintura di capelli, che l'artista mescola direttamente dalla confezione e applica alla pelle del cliente. PPD e alcuni altri ingredienti di tinture per capelli possono causare reazioni in alcuni individui. Questa è la ragione per cui sulle tinture per capelli ci deve essere una dichiarazione di cautela e le istruzioni per fare un "patch test" su una piccola zona della pelle prima di utilizzarli. Henné, innocuo? Sì, come un serpente velenoso. Il piercing segno di schiavitú IL PIERCING a differenza del tatuaggio non ha una lunga storia in molte culture, ma la pratica, tuttavia, è antica. Secondo Esodo 21,6 e Deuteronomio 15,7, indossare orecchini ERA UN SEGNO DI SOTTOMISSIONE AL DOMINATORE OPPURE AL PADRONE. «Allora il suo padrone lo condurrà davanti a Dio, lo farà accostare al battente o allo stipite della porta e gli forerà l'orecchio con la lesina; quegli sarà suo schiavo per sempre» (Esodo 21,6). La parola piercing deriva dall'inglese "to pierce" (forare, perforare) e ha cominciato, secondo la psicoterapeuta e sessuologa Giuliana Proietti, ad essere praticato negli anni 70/80 negli ambienti punk, nelle comunità omosessuali, tra i praticanti del sado-maso e tra i feticisti, insomma tra tutti coloro fortemente propensi ad una vita "fuori dagli schemi". Sì, una vita "fuori dagli schemi". Non è politicamente corretto dire "una vita perversa". Oggi le perversioni si chiamano le preferenze. Nella coppia omosessuale o sado-maso, chi portava il piercing era solitamente lo "schiavo", e i suoi anelli ai genitali o ai capezzoli erano il simbolo di sottomissione al "padrone". Questa è la storia poco edificante del piercing. Oggi il piercing è una moda praticata da differenti persone per età, ceto sociale, e cultura, ma particolarmente tra i giovani. C'è anche un altro piercing. Cito qui ancora la psicoterapeuta Giuliana Proietti che come sessuologa ha scritto ampiamente sul piercing genitale. Non voglio parlare qui in dettaglio su questo argomento. La dottoressa dice: «Piercing molto più 'pesanti' e dunque completamente fuori dal discorso della tendenza del momento, sono ad esempio il taglio della lingua, in modo da renderla biforcuta e il "dental" piercing, con applicazione di capsule d'oro e brillantini, oppure "lo scaring" (tagli in profondità per ricavare cicatrici indelebili) e il branding (marchi a fuoco), o "il cutting" (il corpo viene tagliuzzato). In questo caso si tratta di scelte 'estreme': una sorta di "acting out", ovvero compiere un atto che esprima e riesca a sedare i pensieri angosciosi che affollano la mente. Farsi un piercing piace alle persone perché: - consente di raggiungere gli ideali di bellezza dettati dalla moda del momento; suscita stupore e curiosità, catalizzando l'attenzione di chi guarda ed in molti casi crea scandalo; - è un modo per essere al centro dell'attenzione, per uscire dall'anonimato, per trasgredire; - è un'espressione di "diversità" dalla massa (anche se poi la moda tende invece ad omologare i comportamenti, rendendo tutti simili nel loro voler essere diversi); - è l'affermazione decisa di un diritto di disporre del proprio corpo come della propria identità e della propria vita; - può rappresentare un forte impegno con sé stessi a ricordare un'esperienza, un amore, una persona per tutta la vita; - può servire, specie nel piercing "pesante" ad esorcizzare il dolore e la morte e guadagnarsi un pezzo di eternità; - spesso il fine del piercing nelle parti intime ha uno scopo funzionale più che di seduzione: si pensa, infatti, che questo intervento possa aumentare la sensibilità delle parti forate». Anche per quanto riguarda il piercing dobbiamo chiederci a che età si possa ottenere. Giuridicamente piercing e anche tatuaggi sono considerati lesioni intenzionali che rimangono impuniti solamente se la persona interessata acconsenta all'intervento. La foratura dei lobi delle orecchie per orecchini sembra l'eccezione alla legge, nonostante il rischio d'infezione rimanga. Guardate da vicino uno degli autoritratti di Rembrandt e vedrete un lobo dell'orecchio infetto, un'infezione probabilmente causata da un piercing abborracciato. Più pericoloso del piercing al lobo è il piercing nell'orecchio superiore. Come dice il professor Francesco Bungaro: «Irrorazione nel lobo è normale mentre la cartilagine è una zona non irrorata e quindi con minori difese locali e sulla quale non possono arrivare gli eventuali antibiotici sistemici che fossero necessarî per un'infezione». Due anni fa lo stato di New York ha approvato una nuova normativa riguardante il piercing. Il piercing è ammesso all'età di sedici con il consenso dei genitori, all'età di diciotto anni senza il consenso dei genitori. Il governatore Andrew Cuomo, ha detto a quel tempo: «Il piercing può portare a gravi rischî per la salute ed è nostro obbligo come newyorkesi e genitori di assicurarci che i nostri ragazzi stiano prendendo ogni precauzione per rimanere sani e sicuri». La California ha una legge simile. Nel Regno Unito il piercing dei genitali non è consentito prima dei diciotto anni. Nel giugno di quest'anno, l'Austria ha approvato una tra le leggi più chiare relative al piercing e al tatuaggio. Gli operatori dei negozi di piercing o tatuaggi devono informare i giovani e i loro genitori o tutori legali dei trattamenti necessari di rifinitura e di tutti i rischî. I giovani devono firmare che hanno capito l'informazione e sono d'accordo con il trattamento. Il piercing dei giovani di età inferiore ai quattordici è vietato. Se il giovane ha tra i quattordici e diciotto anni, il permesso dei genitori è necessario. Il tatuaggio è consentito per i giovani a partire dall'età di sedici, ma solo con il consenso scritto dei genitori. C'è ancora un'altra considerazione da fare soprattutto quando qualcuno ha molti piercing visibili. Può avere difficoltà a trovare un lavoro e può essere respinto in alcuni paesi. Pochi mesi fa Rolf Buchholtz, un tedesco con moltissimi piercing è arrivato a Dubai per una vacanza. Non gli fu permesso di entrare nel paese e fu subito rimandato in Germania sulla base del sospetto di praticare la magia nera. Non c'era niente associato alla magia nella sua valigia. La decisione era esclusivamente basata sull'aspetto. Milioni di persone sono tatuati e portano il piercing. Ci sono molti studi sui rischi per la salute del tatuaggio e del piercing. Posso citare solo alcuni di questi. Per esempio, uno studio effettuato nel 2009 dall'Istituto di Dermatologia dell'Università Ratisbona in Baviera. L'Istituto ha effettuato un sondaggio su Internet nei paesi di lingua tedesca. In Germania la provenienza dei partecipanti è stata equamente distribuita in tutto il paese. C'erano 3411 partecipanti tatuati. Dopo il tatuaggio, il 67,5 % (sì 67,5!) dei partecipanti ha descritto problemi di pelle e il 6,6 % ha ammesso reazioni sistemiche. Quattro settimane dopo essersi fatto tatuare, il 9 % aveva ancora problemi di salute. Il 6 % di partecipanti ha indicato problemi di salute persistenti, e tra questi c'erano più donne che uomini. Lo studio dell'Istituto di dermatologia all'Università di Ratisbona conclude: 1) milioni di persone nel mondo occidentale presumibilmente hanno problemi di salute temporanei o persistenti dopo il tatuaggio; 2) i tatuatori iniettano diversi grammi d'inchiostro nella pelle, che in parte si diffonde nel corpo e rimane per tutta la vita. Un altro studio condotto su 454 studenti negli Stati Uniti e pubblicato dal “Journal of the American Medical Association" ha registrato una percentuale di complicazione mediche pari al 17% dopo un piercing: si trattava d'infezioni, ma anche di cicatrici ed emorragie. Aspetti biblici, religiosi e morali. Lasciamo gli aspetti medici alle spalle ed esaminiamo ora gli aspetti biblici, religiosi e morali. Cominciamo con la storia di Caino nel libro del Genesi. Affinché Caino non sia ucciso per vendicare l'uccisione di suo fratello, Dio gli dà un segno. Gli studiosi della Bibbia non sono d'accordo sul segno. Che cosa è? Il testo biblico non dice molto. Tutto fa supporre che si tratti di un segno corporale. Tuttavia, il problema principale è che questo segno sembra essere equivoco. Deve proteggere Caino, ma Caino resta maledetto. Il grande esegeta tedesco Claus Westermann non vede alcune contraddizione tra la protezione e la maledizione di questo segno. Secondo Westermann il segno in sé è neutrale. È un segno che Caino appartiene a Dio, che assume la responsabilità per il destino di Caino. Cioè Caino dipende interamente dalla grazia e misericordia di Dio. È vero che Caino non può essere vendicato ma la sua vita è maledetta. Che tipo di punizione è questa maledizione? Secondo Genesi 4,16: «Caino si allontanò dalla presenza del Signore è si stabili nei paesi di Nod, a oriente di Eden». Però, un paese con questo nome non è mai esistito. C'è una piccola eccezione. A Yorkshire in Inghilterra c'è un villaggio chiamato Land of Nod (paese di Nod). La parola "ebraico" Nod deriva dal verbo nadad che significa girare senza meta. Il paese di Nod è un paese dove Caino gira senza meta; in cui Caino è nessuno; un paese dove il rapporto con Dio è rotto; una regione minacciosa in cui non ci si sente benvenuto. In tale paese, segni di appartenenza come i tatuaggi sono importanti. Danno alla gente un senso di sicurezza, reale o falso. Senza aver ucciso qualcuno, come ha fatto Caino, ci sono moltissime persone che oggi vivono nel paese di Nod. Il tatuaggio è sempre un rito religioso o quasi-religioso, un atto di culto sincretistico anche se il tatuato è ateo. Soprattutto, il tatuaggio è l'espressione del profondo desiderio dell'uomo di perpetuare sé stesso. Veniamo infine agli aspetti morali ed etici. Cominciamo con le altre grandi religioni. Per quanto ne so, l'induismo non ha una posizione ufficiale su questo tema. Molte donne indù hanno il segno Bindi (cioè un puntino) sulla fronte, ma questo segno non è sempre un tatuaggio permanente. Ci sono anche buddisti con tatuaggi, ma un tatuaggio di Buddha potrebbe essere pericoloso. È stato causa di espulsione immediata per due turiste dallo Sri Lanka, quest'anno. Per quanto riguarda l'Islam possiamo dire che la maggior parte considera il tatuaggio permanente "haram", che significa proibito o tabù. Secondo un hadith (cioè racconto) di Abu Juhayfah: il profeta (Maometto) ha maledetto sia il tatuatore sia il tatuato. Secondo un altro hadith, un tatuato è qualcuno che ha scelto Satana come suo amico e ha respinto Allah. La ragione principale data per il divieto di tatuaggio nell'islam è quella della mutilazione del corpo e dell'alterazione della creazione di Allah. Questa è la posizione dei musulmani sunniti. Che tutti gli sciiti siano d'accordo, è un'altra cosa. Invece, le donne beduine indossano spesso i tatuaggi. La proibizione del tatuaggio nel giudaismo, vale a dire dell'ebraismo ortodosso e tradizionale, si basa su due versetti della Bibbia, il primo è Levitico 19,27 o 28 secondo la traduzione: «Non vi farete incisioni nella carne per un morto, né vi farete tatuaggi addosso. Io sono il Signore». Il secondo passo è Levitico 21,5: «I sacerdoti non si faranno tonsure sul capo, non raderanno i lati della barba e non si faranno incisioni nella carne». Sembra che si tratti del primo passo delle usanze pagane di lutto a quei tempi. Anche se il divieto potrebbe essere stato originariamente limitato alle usanze pagane di lutto, nel corso del tempo la proibizione è stata interpretata per includere tatuaggi in generale come troviamo li commento delle Tosafot sul Talmud bavli Gittin 20b. È importante notare che la spiegazione data per il divieto è che l'uomo è creato a immagine di Dio, b'tzelem Elohim. Il nostro corpo non è una nostra proprietà personale di cui possiamo beneficiare a piacimento. È un dono, ma un dono in prestito da Dio. Questo è un concetto molto profondo che vedremo tra breve. Questa proibizione si applica solo ai tatuaggi volontari. Va da sé che uno schiavo tatuato dal suo padrone o un prigioniero tatuato dai nazisti in un campo di concentramento non ha violato alcun precetto. Inoltre, non compresi nel divieto sono i tatuaggi che segnano il corpo o gli organi corporali per il trattamento salvavita. Alcuni rabbini potrebbero rifiutare di seppellire persone tatuate in un cimitero ebraico, ma non vi è alcun divieto generale. Certamente si vedono ebrei tatuati che non sono d'accordo con l'insegnamento del giudaismo sul tatuaggio oppure non sono a conoscenza dell'insegnamento. Fanno quello che vogliono, come anche moltissimi cattolici di oggi. Da quello che vedo, la Chiesa è stata raramente così rigorosa sul tatuaggio come l'ebraismo, tuttavia ci sono alcune dichiarazioni negative. San Basilio il Grande nel IV secolo ha messo in guardia dal tatuaggio che ha definito una pratica pagana associata agli apostoli di Satana. Ho già menzionato il divieto di tatuaggi da Papa Adriano I nel 787 al Concilio di Calcuth in Inghilterra, un concilio sotto la direzione del Secondo Concilio di Nicea. Questo divieto generale è stato ripetuto nel corso dei secoli, ma senza molto successo. Si dice, in questo concilio che i cristiani che realizzano un tatuaggio religioso devono essere elogiati, ma io non ho visto il testo del concilio. È vero che un gran numero di Crociati erano tatuati. E anche vero che ancora oggi molti pellegrini ortodossi a Gerusalemme ottengono tatuaggi di croci nello studio della famiglia Razzouk che è in sede da quasi 300 anni. Secondo gli appassionati del tatuaggio la ragione per la proibizione della Chiesa era l'associazione del tatuaggio con le pratiche pagane. Secondo gli oppositori del tatuaggio era la mutilazione del corpo. Oggi non è politicamente corretto chiamare il tatuaggio mutilazione del corpo ma questo termine tecnico era usato per giustificare il divieto del tatuaggio nel cantone di Rema fino al 1996. A quanto pare ci sono alcuni, forse molti, sacerdoti e laici che esercitano la funzione della liberazione o dell'esorcismo e che pregano su persone tatuate. Tra i più noti è il teologo Simone Iuliano, che ha scritto diversi libri sul Maligno. Egli descrive bene le conseguenze spirituali del tatuaggio: «Detto tutto questo, qual è il problema, se ci facciamo tatuare una piccola figura, una colomba o una croce di Gesù stesso? Quando si acconsente alla tatuatura, si realizza un patto di sangue con la persona che realizza il tatuaggio, si apre la vita a qualunque spirito con il quale egli è legato, gli si permette di entrare in noi. A volte gli Indiani si facevano tatuare immagini di animali. In seguito essi chiamavano lo spirito di quegli animali e li invitavano a entrare dentro di loro per dare loro l'abilità che l'animale possedeva. Ciò dimostra che il tatuaggio è direttamente connesso con il regno degli spiriti. Tramite il consenso di sangue si apre un passaggio per permettere ai demoni di venirci dentro. Questo è il problema principale. Quando ci tatuiamo, apriamo la porta a spiriti demoniaci di tormento, spiriti impuri, anche se il tatuaggio non è la conseguenza di un gesto di ribellione, ma semplicemente un'espressione estetica. Sono venuti alcuni giovani cristiani a dirmi dell'esistenza di tatuatori cristiani. In realtà il fatto di tatuarsi immagini e simboli cristiani non fa alcuna differenza. I legami spirituali che si creano con chi realizza il tatuaggio e tutti i sui clienti sono esattamente gli stessi. La maledizione arriva lo stesso e i demoni entrano tramite questo varco». Che cosa dobbiamo prendere in considerazione nella formazione di un giudizio morale su tatuaggi e piercing? Cominciamo con la Sacra Scrittura. Come ho già accennato in precedenza, ci sono due citazioni nel Levitico 19 e 21: «Non vi farete incisioni sul corpo per un defunto né vi farete segni di tatuaggio. Io sono il Signore» (Levitico 19, 28); «Signore disse a Mose: Parla ai sacerdoti ... i sacerdoti non si faranno tonsure sul capo né si raderanno ai lati la barba né si faranno incisioni nella carne. Saranno santi per i loro Dio e non profaneranno il nome del loro Dio...» (Levitico 21,5-6). Vi è inoltre anche la storia del confronto tra Elia e i profeti di Baal nel primo libro dei Re, al capitolo 18. Cito il versetto 28: «Gridavano a voce più forte e si fecero incisioni, secondo il loro costume con spade e lance, fino a bagnarsi tutti di sangue». Queste tre citazioni sono utili, sono parola di Dio, ma non sono sufficienti per dare un giudizio morale. Per molti teologi cattolici queste norme sono regole dell'Antico Testamento che non dobbiamo osservare oggi. Più importante se si vuole dare un giudizio morale è Genesi 1,27: «Dio creò l'uomo a sua immagine, a immagine di Dio la creò». L'antropologo spagnolo Ramón Lucas Lucas, della Facoltà di Filosofia dell'Università Gregoriana, commenta: «L'uomo è immagine di Dio nella totalità del suo essere, corpo e spirito». Si può dire che questo concetto, l’uomo creato a immagine di Dio, è uno dei temi più importanti del pontificato di Papa Giovanni Paolo II. Questo concetto si trova anche nel Catechismo al n. 364: «il corpo dell'uomo partecipa alla dignità di immagine di Dio: è corpo umano proprio perché è animato dall'anima spirituale, ed è la persona umana intera ad essere destinata a diventare nel Corpo di Cristo, il tempio dello Spirito». In un articolo intitolato "Under the Needle: An Ethical Evaluation of Tattoes und body Piercings" (Sotto l'Ago: Una valutazione etica di tatuaggî e piercing) nella rivista Christian Research Journal, Lorne Zelyck, teologo all'Università di Alberta in Canada, identifica e discute quattro aspetti dell'immagine di Dio: 1) strutturale; 2) funzionale; 3) relazionale; 4) teleologico. 1) L'aspetto strutturale dell'immagine di Dio indica che gli esseri umani hanno la capacità di conoscere, di ragionare e di prendere decisioni morali (Gen 2,16- 17). 2) L'aspetto funzionale indica che gli uomini debbano agire come rappresentanti di Dio in terra, per il governo sulla natura (Gen 1,26;2,5). 3) L'aspetto relazionale dell'immagine di Dio indica che gli esseri umani hanno la capacità di rispecchiare l'unità della Trinità attraverso le relazioni con Dio e per glorificare Dio, e attraverso le relazioni con altri esseri umani. 4) L'aspetto teleologico indica che gli uomini sono creati per rendere visibile il Suo carattere. La maggior parte di noi sentendo questi quattro aspetti dell'immagine di Dio potrebbe probabilmente giungere alla conclusione che tatuaggi e piercing sono una profanazione di questa immagine. Se si accettano i passi di Levitico come parola di Dio di attualità ancora oggi, i tatuaggi violano l'aspetto strutturale. Essi violano l'aspetto funzionale perché mutilano il corpo rendendolo suscettibile alle malattie. I tatuaggi violano l'aspetto relazionale perché creano spesso uno scandalo e provocano divisione nella società. Come dice lo psichiatra Armando Favazza: «Molte persone - soprattutto quelli appartamenti a gruppi non conformisti - si fanno tatuare per dimostrare la loro sfida dell'autorità tradizionale. Molti studi collegano una molteplicità di tatuaggi con una personalità antisociale ed un'incidenza più elevata di comportamenti assaltativi». ¿Che cosa dice dell'aspetto teleologico dell'immagine di Dio? I tatuaggi glorificano Dio? Più spesso esaltano il brutto e l'empio. È sorprendente che ci siano anche cristiani - forse non molti - che sostengono non solo che i tatuaggi siano morali, ma che anch'essi mostrerebbero l'immagine di Dio. Io trovo le loro argomentazioni deboli ma, in tutta franchezza, devo menzionare le loro affermazioni: 1) I tatuaggi dimostrano l'immagine di Dio perché gli esseri umani sono creati con la capacità di riconoscere la bellezza artistica. Ci si può dunque decorare seguendo questa capacità. 2) I tatuaggi dimostrano l'aspetto funzionale dell'immagine di Dio perché gli uomini hanno il libero arbitrio di fare quello che vogliono con i loro corpi: «È il mio corpo e posso farne quello che voglio». Purtroppo tale ragionamento è utilizzato per giustificare anche l'aborto. E come facciamo a capire 1 Corinzi 6, 19-20?: «Non sapete che il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete ricevuto da Dio? Quindi non appartenete a voi stessi. Poiché foste comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo». 3) Si dice che i tatuaggi dimostrino l'aspetto relazionale dell'immagine di Dio, perché creano diversità tra i membri del corpo di Cristo. Io mi domando: non c'è abbastanza diversità senza tatuaggi? 4) Infine, si dice che i tatuaggi dimostrino l'aspetto teleologico perché sono un mezzo con cui un cristiano può comunicare il carattere di Dio. Io non sono certo che cosa s'intenda qui. Forse una croce tatuata potrebbe trasmettere l'amore di Dio. Il professore di Teologia morale alla Facoltà teologia dell'Italia Centrale a Firenze, Don Gianni Cioli, riassume molto bene alcune riserve nei confronti del tatuaggio: «Le riserve si possono ricondurre a tre ragioni fondamentali. La prima ragione è che i tatuaggi possono costituire, specie se praticati senza le dovute cautele, un pericolo per la salute. La seconda ragione è che la moda adesso in voga è spesso collegata a una cultura della trasgressione e a una tendenza all'esibizione provocatoria ed erotizzata del corpo, indubbiamente problematiche per la morale cristiana. La terza ragione e che la cultura che ha incrementato l'attuale moda ha talora radici nell'esoterismo e perfino nel satanismo: un simbolo apparentemente innocuo proposto dalla cultura del tatuaggio potrebbe avere significati nascosti che un cristiano dovrebbe sicuramente aborrire, anche perché si tratta di segni sul corpo che rimangono e che non è facile cancellare». Il professor Bungaro aggiunge: «Il nemico camuffa: dietro l'aspetto estetico c'è un leone ruggente, come dice S. Pietro, che cerca sempre qualcuno da divorare; e S. Paolo ci mette in guardia dai rischi che dobbiamo affrontare: Rivestitevi dell'armatura di Dio per poter resistere alle insidie del Diavolo... Tenete sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potete spegnere tutti i dardi infuocati del Maligno: prendete anche l'elmo della salvezza e la spada dello spirito, cioè la parola di Dio...». Ci sono alcuni esorcisti e altre persone nel ministero della liberazione che hanno esperienza con persone tatuate. Possiamo leggere la loro esperienza nel libro dal teologo Simone Iuliano: Conosci il tuo avversario? Questo libro è scritto in collaborazione con Padre Mario Granato. L'autore sostiene che ogni tatuaggio è almeno una consacrazione indiretta a Satana. Dice anche che un sacerdote di Satana ha l'obbligo di consacrarsi proprio con il tatuaggio. Inoltre, Simone luliano descrive le difficoltà che i tatuati hanno durante le preghiere di liberazione o l'esorcismo. Hanno infatti la sensazione che le zone tatuate brucino. I tatuaggi sono spesso collegati al satanismo e a culti satanici. Poiché culti satanici sono più diffusi tra i giovani in Italia che in molti altri paesi, esorcisti italiani probabilmente incontrano più posseduti e oppressi tatuati che in molti altri paesi. In ogni caso penso che dovremmo chiedere a tutta questa gente che viene da noi per un aiuto se ha un tatuaggio nascosto. Perché no? Chiediamo alle persone di buttare via oggetti occulti ed esoterici oppure di bruciarli. Essi sono potenziali porte di entrata per i demoni. Per esempio, qualcuno potrebbe avere uno spirito della morte che non lo lascia fin quando ha un tatuaggio di Satana, sia visibile sia nascosto. È difficile per me immaginare che, quando una persona si fa tatuare con l'immagine di Satana o di un teschio, quella persona non si sia in qualche modo consacrata a Satana, almeno indirettamente. Una tale consacrazione potrebbe essere involontaria, ma è comunque efficace. E qual è l'effetto spirituale sul maestro tatuatore che di prima mattina tatua un bel fiore, alle undici un teschio, alle tredici un cuore con la scritta "amo la nonna" e alle quindici Satana con la barba? La bellezza è negli occhî dello spettatore, si dice. Ma non esiste la bellezza oggettiva? Non esiste la bruttezza oggettiva? Satana odia la creazione di Dio. Odia in modo particolare la bellezza dell'umanità. Dio dopo la creazione vide tutta la sua creazione essere molto buona. Non siamo d'accordo che molte persone - non dico tutte - rendono i loro corpi brutti con i tatuaggi? E anche se troviamo alcuni tatuaggi colorati attraenti, non dobbiamo dimenticare che in pochi anni gli stessi tatuaggi si sbiadiranno. Che cosa possiamo dire riguardo al piercing? Per alcune persone con molti piercing è considerato una specie di autopunizione simile all'autolesionismo. Ci si taglia per sentirsi meglio. L'autolesionismo è naturalmente una malattia, come molti disturbi mentali, per esempio, i disturbi della personalità borderline. La ferita serve a scaricare una tensione. Il piercing in sé non è una malattia, ma quando una pratica provoca malattie nel 25% dei casi, non possiamo dire che il piercing sia solamente un'opera d'arte. Sappiamo che è il 25 per cento da uno studio su 10.000 persone realizzato dalla Health Protection Agency (l'Agenzia per la protezione della Salute) in Inghilterra nel 2008. Ora vorrei fare una domanda un po' strana. Che cosa dicono i Satanisti sui tatuaggi e i piercing? Sappiamo molto bene che cosa essi dicono del potere della Madre di Dio contro i demoni, una persona che temono molto. Ma cosa dicono i Satanisti sui tatuaggi? Cito le parole di Anton La Vey, il fondatore della Chiesa di Satana e l'autore della Bibbia Satanica: «Ho conosciuto tante persone che avevano tatuaggi e ogni altro tipo di modifiche al corpo, e che io direi sono veramente fuori di testa». Questa è un'opinione basata sulla sua esperienza. Però sentite anche quello che lui è noto per aver detto: «Ogni tatuaggio, se il tatuaggio rappresenta un dragone, Satana o un bel fiore, è sempre satanismo». "Sempre". La Vey dice una bugia? Lo spero. Ma perché dovrebbe mentire? Molte persone, se sapessero in anticipo che un bel fiore tatuato ha qualcosa a che fare con il Satanismo, non si tatuerebbero e Satana perderebbe potenziali aderenti. Tuttavia mi pare difficile da credere che i pochissimi tatuatori che offrono solo i tatuaggi con motivi cristiani siano coinvolti in attività satanica. Dicendo questo però io continuo ad essere ancora contrario ai tatuaggi con motivi cristiani, perché tali tatuaggi sono aperture potenziali all'attività del Maligno. Vi ho dato molte altre ragioni per evitare in qualsiasi caso il tatuaggio e il piercing. Sono pericolosi per la salute, ma non solo per la salute fisica e mentale, sono pericolosi anche e soprattutto per la salute morale e spirituale. Nel libro dell'Apocalisse di Giovanni (13, 16-18), non si trova solo il numero della bestia: 666, 616 o 665, secondo la tradizione testuale, ma è menzionato anche un marchio, un segno fisico. Questo marchio in greco riappare nel capitolo 14, 16-17. I testi suonano così: «Inoltre obbligò tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi, a farsi mettere un marchio sulla mano destra o sulla fronte. Nessuno poteva comprare o vendere se non portava il marchio, cioè il nome della bestia o il numero che corrisponde al suo nome. Qui sta la sapienza, chi ha intelligenza, calcoli il numero della bestia, perché è un numero d'uomo; e il suo numero è seicentosessantasei» (Apocalisse 13, 16-18). «Seguì un terzo angelo, dicendo a gran voce: Chiunque adora la bestia e la sua immagine, e ne prende il marchio sulla fronte o sulla mano, egli pure berrà il vino dell'ira; e sarà tormentato con fuoco e zolfo davanti ai santi angeli e davanti all'Agnello» (Apocalisse 14, 9-10). Che cosa è questo marchio? Si vede qui un parallelismo antitetico ai tefellin menzionati nei libri dell’Esodo e del Deuteronomio. I tefellin o filatteri sono i due piccoli astucci quadrati di cuoio nero con cinghie fissate che gli Ebrei portano durante la preghiera feriale del mattino. Quattro passi biblici sono incollati all'interno della scatola di pelle: due brani del Deuteronomio, due dell'Esodo. Per esempio Esodo 13,9: «Sarà per te segno sulla tua mano e ricordo fra i tuoi occhî, perché la legge del Signore sia sulla tua bocca. Con mano potente intatta il Signore ti ha fatto uscire dall'Egitto». Attraverso l'uso dei tefellin, il pio Ebreo lega la parola di Dio sulla sua mano e sulla fronte e giura fedeltà a Dio. Invece, il marchio della bestia è un segno di appartenenza a Satana ed espressione di fedeltà a lui. Alcuni ipotizzano che il segno della bestia possa essere un tatuaggio elettronico o un microchip impiantato nella pelle. Citano il versetto nell'Apocalisse 14,17: «Nessuno poteva comprare o vendere se non portava il marchio». Oggi esiste la tecnologia. Motorola ha già brevettato tatuaggi elettronici, tra cui uno che può leggere i pensieri umani. Che cosa manca? Manca la bestia. Manca l'anticristo. Secondo la descrizione nel libro dell'Apocalisse, il marchio sembra essere un segno fisico e concreto. Forse un tatuaggio, forse un piercing, forse un microchip. A causa della popolarità di queste pratiche -a mio parere- abbiamo già un anticipo inquietante dei tempi escatologici. Una riflessione molto interessante su un fenomeno dilagante nel mondo occidentale, che pone molte domande inquietanti sulla contiguità con l'esoterico e il demoniaco, insieme ad altre notizie sull'uso del tatuaggio in ambito cristiano orientale da vagliare con attenzione (vedi articolo Osservatore Romano "L'originale iniziativa dell'organo educativo cattolico tedesco degli adulti in una chiesa di Francoforte" ) Per questo abbiamo ritenuto utile aggiungere l'Esorcismo Maggiore di Leone XIII. Esorcismo maggiore di Leone XIII [Mettiamo in appendice questo esorcismo (che solo gli esorcisti possono proferire con licenza dei propri vescovi), per conoscere come la Chiesa prega e ciò che la Chiesa crede riguardo al demonio e alle sue opere.] Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen Dal Salmo 67 Sorga Dio, i suoi nemici si disperdano e fuggano davanti a lui quelli che lo odiano. Come si disperde il fumo, tu li disperdi; come fonde la cera di fronte al fuoco, periscano gli empi davanti a Dio. Preghiera a San Michele Arcangelo Gloriosissimo Principe delle celesti milizie, Arcangelo san Michele, difendici nella battaglia contro le potenze delle tenebre e la loro spirituale malizia. Vieni in aiuto degli uomini creati da Dio a sua immagine e somiglianza e riscattati a gran prezzo dalla tirannia del demonio. Combatti oggi le battaglie del Signore con tutta l’armata degli Angeli beati, come già hai combattuto contro il principe dell’orgoglio Lucifero e i suoi angeli apòstati; e questi ultimi non poterono trionfare e ormai non c’è più posto per essi nei cieli. Ma è caduto questo grande dragone, questo antico serpente che si chiama lo spirito del mondo, che tende trappole a tutti. Sì, è caduto sulla terra e i suoi angeli sono stati respinti con lui. Ora, ecco che questo antico nemico, questo vecchio omicida, si erge di nuovo con veemenza. Trasfiguratosi in angelo di luce, egli nascostamente invase e circuì la terra con tutta l’orda degli spiriti maligni, per distruggere in essa il nome di Dio e del suo Cristo e per manovrare e rubarvi le anime destinate alla corona della gloria eterna, per trascinarle nell'eterna morte. Il veleno delle sue perversioni, come un immenso fiume d’immondizia, cola da questo dragone malefico e si immette in uomini di mente e spirito depravato e dal cuore corrotto; egli versa su di loro il suo spirito di menzogna, di empietà e di bestemmia ed invia loro il mortale alito di lussuria, di tutti i vizî e di tutte le iniquità. La Chiesa, questa Sposa dell’Agnello Immacolato, è ubriacata da nemici scaltrissimi che la colmano di amarezze e che posano le loro sacrileghe mani su tutte le sue cose più desiderabili[1]. Pertanto, o mai sconfitto Duce, vieni incontro al popolo di Dio contro questa irruzione di perversità spirituali e sconfiggile. Tu sei venerato dalla Chiesa quale suo Custode e Patrono, e a te il Signore ha affidato le anime che un giorno occuperanno le sedi celesti. Prega, dunque, il Dio della Pace a tenere schiacciato Satana sotto i nostri piedi, affinché non possa continuare a tenere schiavi gli uomini e a danneggiare la Chiesa. Presenta all'Altissimo, con le tue, le nostre preghiere, perché discendano tosto su di noi le Sue divine misericordie, e tu possa incatenare il dragone, il serpente antico, Satana, e incatenato ricacciarlo negli abissi, donde non possa più sedurre le anime. Così, affidandoci alla tua protezione e alla tua tutela, con l’autorità del nostro sacro ministero è con ogni fiducia che intraprendiamo di respingere, in nome di Gesù Cristo, nostro Dio e Signore, le infestazioni dell’astuzia diabolica. V - Ecco la Croce del Signore, fuggite potenze nemiche; R - Vinse il Leone della tribù di Giuda, il discendente di Davide. V - Che la tua misericordia, Signore, sia su di noi. R - come noi abbiamo sperato in Te. V: O Signore, esaudisci la mia preghiera R: e il mio grido giunga a Te Preghiamo Dio e Padre di nostro Signore Gesù Cristo, invochiamo il Tuo santo Nome; e, supplichevoli, chiediamo insistentemente la Tua clemenza, per l’intercessione dell’Immacolata sempre Vergine Maria, Madre di Dio, di San Michele Arcangelo, di San Giuseppe, sposo di Maria, dei Santi Apostoli Pietro e Paolo e di tutti i Santi, degnati di concederci soccorso contro Satana e tutti gli altri spiriti impuri che percorrono il mondo con l’intento di nuocere al genere umano e di perdere le anime. Per Cristo nostro Signore. Così sia. ESORCISMO Ti esorcizziamo, spirito immondo, potenza satanica, invasione del nemico infernale, con tutte le tue legioni, riunioni e sette diaboliche, in nome e potere di nostro Signore Gesù † Cristo: sii sradicato dalla Chiesa di Dio, allontànati dalla anime riscattate dal prezioso Sangue del divino Agnello †. D'ora innanzi non ardire, perfido serpente, d'ingannare il genere umano, di perseguitare la Chiesa di Dio, e di scuotere e crivellare, come frumento, gli eletti di Dio. † Te lo comanda l'Altissimo Dio †, al quale, nella tua grande superbia, presumi di essere simile; Te lo comanda Dio Padre †; Te lo comanda Dio Figlio †; Te lo comanda Dio Spirito Santo †; Te lo comanda il Cristo, Verbo eterno di Dio fatto carne †, che per la salvezza della nostra razza perduta dalla tua gelosia, si è umiliato e fatto ubbidiente fino alla morte; che edificò la sua Chiesa sulla ferma pietra, assicurando che le forze dell'inferno non avrebbero mai prevalso contro di Essa e che sarebbe con Essa restato per sempre, fino alla consumazione dei secoli. Te lo comanda il segno sacro della Croce † e il potere di tutti i misteri di nostra fede cristiana. Te lo comanda la eccelsa Madre di Dio, la Vergine Maria †, che dal primo istante della sua Immacolata Concezione, per la sua umiltà, ha schiacciato la tua testa orgogliosa. Te lo comanda la fede dei santi Pietro e Paolo e degli altri Apostoli †. Te lo comanda il Sangue dei Martiri e la potente intercessione di tutti i Santi e Sante †. Dunque, dragone maledetto, e tutta la legione diabolica, noi scongiuriamo te per il Dio † Vivo, per il Dio † Vero, per il Dio † Santo; per Iddio che tanto ha amato il mondo da sacrificare per esso il suo Unigenito Figlio, affinché, chiunque crede in Lui non perisca, ma abbia la vita eterna; cessa d'ingannare le umane creature e di propinare loro il veleno della dannazione eterna; cessa di nuocere alla Chiesa e di mettere ostacoli alla sua libertà. Vattene Satana, inventore e maestro di ogni inganno, nemico della salvezza dell'uomo. Cedi il posto a Cristo, sul quale nessun potere hanno avuto le tue arti; cedi il posto alla Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica, che lo stesso Cristo conquistò col suo sangue. Umíliati sotto la potente mano di Dio, trema e fuggi all'invocazione che noi facciamo del santo e terribile Nome di quel Gesù che fa tremare l'inferno, a cui le Virtù dei cieli, le Potenze e le Dominazioni sono sottomesse, che i Cherubini e i Serafini lodano incessantemente, dicendo: Santo, Santo, Santo il Signore Dio Sabaoth. V - O Signore, ascolta la mia preghiera. R - E il mio grido giunga fino a Te. Preghiamo O Dio del cielo, Dio della terra, Dio degli Angeli, Dio degli Arcangeli, Dio dei Patriarchi, Dio dei Profeti, Dio degli Apostoli, Dio dei Martiri, Dio dei Confessori, Dio delle Vergini, Dio che hai il potere di donare la vita dopo la morte, e il riposo dopo la fatica, giacché non v'è altro Dio fuori di Te, né ve ne può essere, se non Tu, Creatore eterno di tutte le cose visibili e invisibili, il cui regno non avrà fine; umilmente supplichiamo la tua gloriosa Maestà di volerci liberare da ogni tirannia, laccio, inganno e infestazione degli spiriti infernali, e di mantenercene sempre incolumi. Per Cristo nostro Signore. Amen. V: dalle insidie del demonio, R: liberaci, Signore V: Affinché la vostra Chiesa sia libera nel vostro servizio, R: ti preghiamo, ascoltaci V: Affinchè ti degni di umiliare i nemici della santa Chiesa R: ti preghiamo, ascoltaci Non ricordarTi, Signore, delle nostre offese, ne quelle dei nostri genitori: né prendi vendetta dei nostri peccati. Padre nostro… Ringraziamo per la segnalazione gli esorcisti d.Giovanni Volta e d.Giuseppe Agnello, delle diocesi di Mantova e di Patti. [1] A questo punto della preghiera, nell’originale di papa Leone XIII, secondo il preciso momento storico vissuto dalla Chiesa a seguito della conquista della Roma papale dagli eserciti sabaudi e massonici, si trovava quanto segue: «Laddove c’è la sede del beatissimo Pietro posta a cattedra di verità per illuminare i popoli, lí hanno stabilito il trono abominevole della loro empietà, affinché colpendo il pastore, si disperda il gregge».
  6. La questione sulla Chiesa torna sempre in maniera puntuale, soprattutto se si considera quella tendenza, oggi alquanto presente, di vedere il «pluralismo» dovunque. Infatti, se dal punto di vista religioso avanza fortemente la posizione del pluralismo non solo de facto ma anche de iure, pare che questa posizione, in maniera più o meno silente, si rifletta anche nell’ambito ecclesiologico. Pertanto, non una moltitudine di chiese soltanto de facto, ma anche de iure. Quale sarebbe la differenza? L’espressione de facto riguarda la constatazione «di fatto» di una realtà che si presenta tale, ma che in principio non è stata stabilita come tale; l’espressione de iure riguarda ciò che «di diritto» è tale, per cui dal punto di vista governativo e, a questo punto, causale. Infatti, la vita umana in quanto tale merita rispetto (de iure), ma si constata che purtroppo, in alcuni casi, non è così (de facto). In tal caso occorre il percorso che parta dal de iure per giungere al de facto.[1] Semmai avvenisse il contrario, si potrebbe concludere che in quanto la vita umana non sempre viene rispettata, allora essa può non essere rispettata. Per evitare una simile conclusione, si cercherà di partire «dall’alto», non dal basso, soprattutto perché l’origine della Chiesa è divina, nonostante la sua natura teandrica. E dal punto di vista ecclesiologico sarà di enorme importanza la guida di Joseph Ratzinger, per capire se la Chiesa sia «cattolica» de iure o de facto, ossia se di per sé la Chiesa sia cattolica perché tale è la sua origine da Dio o se lo sia diventata. Nonostante vi siano tanti testi di Ratzinger in cui si riscontra la sua posizione ecclesiologica, in questa sede se ne prederanno alcuni. Anzitutto occorre affermare l’origine trinitaria della Chiesa e la sua inscindibilità da Cristo, quindi dal regno di Dio. Inoltre, dal momento che si tratta di ἐκκλησία, si ritrovano già due elementi per la futura nozione di Chiesa: «nel nuovo popolo di Dio, nel senso di Gesù, è insita la dinamica per cui tutti divengono una cosa sola, quell’andare gli uni verso gli altri andando verso Dio. E inoltre il punto di raccolta interiore del nuovo popolo è Cristo; esso, d’altro canto, diventa un popolo solo attraverso la chiamata di Cristo e attraverso la risposta alla chiamata, alla persona di Cristo».[2] Ciò ruota attorno ad una nozione che, nella ecclesiologia di Ratzinger, è centrale: «corpo di Cristo». La nozione di corpo di Cristo è fondamentale non solo per l’unità della Chiesa, ma anche per la sua cattolicità[3], infatti: «come l’antico Israele venerò allora nel tempio il suo centro e il pegno della sua unità, riproducendo vitalmente questa unità nella celebrazione della Pasqua, così questo nuovo convito dev’essere ora il legame di unità di un nuovo popolo di Dio. Non occorre più il centro locale di un unico tempio esterno, poiché il nuovo popolo di Dio ha trovato in questo nuovo convito un’unità interna molto più profonda: in questa cena è tra di loro l’unico e lo stesso Signore, ovunque essi siano; tutti godono dell’unico Signore, in cui essi così si confondono: il corpo del Signore, che è il centro della cena del Signore, è l’unico nuovo tempio, che lega i cristiani di tutti i luoghi e tempi in una unità molto più reale di quanto potesse ottenere il tempio di pietra. Con molta più efficacia e realtà si può quindi dire della nuova Pasqua ciò che si disse dell’antica: che non solo fu, ma è e rimane fonte e centro del popolo di Dio».[4] Pertanto, oltre a riportare i passi che trattano della sostituzione del vecchio tempio con il nuovo, che è il corpo di Cristo (Mc 14,58 e Mt 26,61; Mc 15,29 e Mt 27,40; Gv 2,19; cf. Mc 11,15-19 par; Mt 12,6), Ratzinger riassume in tal modo: «Gesù ha creato una ‘chiesa’, cioè una nuova, visibile comunità di salvezza. Egli la intende come un nuovo Israele, come un nuovo popolo di Dio, che ha il suo centro nella celebrazione della cena, da cui è sorto e in cui ha il suo permanente centro vitale. O, detto diversamente: il nuovo popolo di Dio è popolo in forza del corpo di Cristo».[5] Da tutto ciò risulta chiaro che la Chiesa, in quanto «nuovo popolo di Dio» trova il suo fondamento e il suo nutrimento nel «corpo di Cristo». A questo punto Ratzinger coglie un dato alquanto importante, il quale poche volte viene ribadito, ossia che la Chiesa non è cattolica solo per una constatazione di fatto o per eventi storici, ma è nata cattolica perché stabilita così da Dio. Infatti, muovendosi a partire dalla Pentecoste (At 2,1-13), afferma che la Chiesa non nasce da decisione umana, ma è creazione dello Spirito Santo: «alla Chiesa appartengono le molte lingue, cioè le molte culture che nella fede si comprendono e si fecondano a vicenda. In questo senso possiamo dire che qui si delinea il progetto di una Chiesa che vive in molte e multiformi Chiese particolari, ma proprio così è l’unica Chiesa. Nello stesso tempo con questa raffigurazione Luca vuole affermare che nel momento della sua nascita la Chiesa era già cattolica, era già Chiesa universale. Sulla base di Luca è dunque da escludere la concezione secondo la quale per prima sarebbe sorta in Gerusalemme una Chiesa particolare, a partire dalla quale si sarebbero formate via via altre Chiese particolari, che in seguito se sarebbero gradatamente associate. È avvenuto al contrario, ci dice Luca: per prima è esistita l’unica Chiesa che parla in tutte le lingue – l’ecclesia universalis, la quale genera poi Chiese nei luoghi più diversi, che sono tutte e sempre attuazioni della sola e unica Chiesa. La priorità cronologica e ontologica appartiene alla Chiesa universale; una Chiesa che non fosse cattolica non sarebbe affatto Chiesa…».[6] Sulla base di queste precisazioni ecclesiologiche di Joseph Ratzinger, le quali riprendono importanti passi della Scrittura, è possibile concludere che la Chiesa è cattolica per fondazione divina. In altre parole, la Chiesa è costitutivamente una, santa, cattolica, apostolica. Questa è quella parte d’identità della Chiesa che andrebbe ribadita, qualora si propendesse per il dialogo e il confronto esterno, altrimenti verrebbe meno quella missionarietà propria della Chiesa e la riduzione verso l’appiattimento totale, che non è affatto segno del dialogo ma sintomo patologico del ‘vogliamoci bene’ che conduce al nulla. [1] Si tenga conto che l’intenzione non è quella di includere tutto in questo tipo di processo, poiché non sarebbe possibile e reale, ma del caos in questione è doveroso. [2] J. Ratzinger, La Chiesa. Una comunità sempre in cammino, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 19922, 16. [3] La parola «cattolica» significa «universale» nel senso di «secondo la totalità» o «secondo l’integralità». La Chiesa è cattolica in duplice senso. È cattolica perché in essa è presente Cristo. «Là dove è Cristo Gesù, ivi è la Chiesa cattolica». In essa sussiste la pienezza del corpo di Cristo unito al suo Capo, e questo implica che essa riceve da lui «in forma piena e totale i mezzi di salvezza» che egli ha voluto: confessione di fede retta e completa, vita sacramentale integrale e ministero ordinato nella successione apostolica. La Chiesa, in questo senso fondamentale, era cattolica il giorno di pentecoste e lo sarà sempre fino al giorno della Parusia. Essa è cattolica perché è inviata in missione da Cristo alla totalità del genere umano (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 830-831). [4] J. Ratzinger, Il nuovo popolo di Dio. Questioni ecclesiologiche, Queriniana, Brescia 19924, 87. [5] Ibid., 88; Cf. J. Ratzinger, La Chiesa. Una comunità sempre in cammino, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 19922, 19-20. [6] Ibid., 30.
  7. La Chiesa sinodale. Malintesi e pericoli di un “grande reset” ecclesiastico scritto nella prima parte da Don Nicola Bux e nella seconda da Guido Vignelli, edito da Fede & Cultura, è un testo che pone, al centro del panorama ecclesiastico attuale, la questione della sinodalità, e lo fa con quello spirito critico tipico di chi alle parole dona un peso, di chi sa che la parola ha una forza illocutoria e perlocutoria, come ha ben detto il giurista-filosofo J.W. Austin. La prima parte del testo si articola in un excursus dogmatico, con qualche accenno storico, mentre la seconda parte è più storica con dei riferimenti inziali dogmatici che fungono da cerniera con la prima parte del testo. Chi scrive è un presbitero ed un laico, come ad indicare che la sinodalità è un camminare insieme, ma senza stravolgere i ruoli, in quanto la Chiesa è gerarchica e non sinodale. Per tal motivo il contributo del prof. Vignelli è ancorato e segue quello di don Nicola Bux, confermando i dati dottrinali espressi da quest’ultimo. Se la sinodalità vuole essere una proposta che ha come obiettivo quello di ribaltare una visione di Chiesa gerarchica, ci si chiede, dice don N. Bux, in che modo possa essere questa una garanzia per la missione della Chiesa, che è quella di suscitare la fede e di guidare il popolo di Dio verso l’incontro definitivo con Cristo. Se la Chiesa, come afferma Lumen gentium 18, ha il compito di insegnare, santificare e governare, come può farlo se non vi sarà più alcuno designato a farlo? Se non vi sarà più distinzione tra docenti e discenti? Tra pastori e pecore? Babele fu proprio questo: assenza di gerarchia: non vi erano progettisti e architetti, capi cantiere e capi squadra, ma un cumulo di uomini orgogliosi e abili, che amavano il fai da te. La gerarchia della Chiesa, vuole a mio parere dirci l’autore, è voluta da Dio perché necessaria alla natura umana, che corrotta dal peccato, tende sempre a voler affermare se stessa e così disperdere i suoi talenti e le sue energie, anziché saggiamente porsi a servizio di un corpo che mediante il suo capo sapiente che è Cristo stesso, organizza e incanala talenti ed energie affinché il corpo cresca sano e bello, pronto per le nozze finali a cui lo sposo non tarderà ad arrivare una volta che la sua sposa sarà pronta. È necessario dunque distinguere tra pastori e pecore, ognuno con i loro compiti. Su questa linea si pone G. Vignelli che rileggendo la storia si accorge di alcune similitudini con ciò che sta accadendo oggi, sul frasario che viene utilizzato quando si parla di “sinodalità”, e criticamente espone delle considerazioni denunciando la Chiesa di cedere alle lusinghe del mondo moderno, di volersi pian piano adeguare ai parlamenti si potrebbe dire, rinunciando al suo essere società gerarchica. Così l’autore: «fino a pochi decenni fa, la Chiesa militante era sempre stata qualificata come Magistra, Mater et Domina gentium, ossia come autorità designata da Dio a insegnare la Verità rivelata, generare popoli cristiani, dominare le società per guidarle al compimento della loro vocazione morale e religiosa. Invece, secondo la nuova ecclesiologia, la Chiesa del futuro dovrà subire un grave declassamento: sarà non più Magistra ma “esperta consulente” degli organismi mondiali; non più Mater ma “sorella maggiore” delle altre Chiese; non più Domina e guida ma serva del popolo e compagna degli erranti; insomma, da società di santificazione e di salvezza si ridurrà a comunità “promotrice della dignità umana”». Un testo che parla al cuore del cattolico di oggi, disorientato dal vasto panorama socio-culturale che oggi pretende di relativizzare l’unica Verità per imporre ogni cosa, ogni suggestione, come verità voluta da Dio.
  8. Le vicende scandalose che vedono implicato il pittore gesuita Marko Ivan Rupnik - di cui parleremo in maniera più diffusa in seguito - pongono alla nostra attenzione un problema che da decenni attende una risposta convincente e adeguata: quello dell'arte moderna che si ispira a modelli bizantini. L'arte sacra tradizionale dell'Occidente viene spesso accusata di essersi discostata dalla spiritualità bizantina per prendere vie razionali e realistiche che sono sfociate nel porre l'attenzione maggiormente sull'uomo piuttosto che su Dio. Curiosamente la nostra epoca impedisce ai pittori contemporanei di ispirarsi e di realizzare opere figurative di arte sacra classiche in linea con la tradizione italiana che va dal 1400 al 1700, opere che si legano perfettamente sia con la liturgia che con l'architettura occidentali. Per quel che riguarda la pittura dell'ottocento occorre dire che ebbe un lento ma graduale declino causato dalla nascita e dall'uso della macchina fotografica la quale portò l'artista a trascurare lo studio dell'anatomia e di altre discipline utilissime. Infatti si ebbe l'impressione che la fotografia potesse sostituire tali studi, ma non fu cosi e i risultati di questa pratica si manifestarono pienamente nell'arte del novecento. Inoltre occorre dire che l'artista cominciò a non esprimersi più liberamente tramite un'idea dell'opera nata completamente dal di dentro, ma fu costretto a mediarla con l'immagine che la fotografia gli forniva dall'esterno e ciò andava a discapito della spiritualità e della qualità dell'opera che inevitabilmente perdeva la sua unitarietà, specialmente per quel che riguarda l'impianto della composizione generale. L'uso di fotografie spesso porta anche oggi l'artista a eccessi di realismo inopportuni per l'arte sacra la quale necessita di un certo distacco dalla visione materiale a vantaggio di una certa spiritualità, come rimarca opportunamente l’enciclica "Mediator Dei" nella quale Pio XII chiede un'arte che "eviti l'eccessivo realismo da una parte e l'esagerato simbolismo dall'altra". Ciò che sorprende, comunque, è che gli artisti contemporanei si ispirino all'arte bizantina, chiaramente appartenente a un periodo più remoto, piuttosto che all'arte italiana tradizionale. Perché avviene questo? Sicuramente perché l'arte bizantina non richiede uno studio approfondito della geometria, né dell'anatomia e tanto meno della prospettiva. Questo spiega il proliferare di tanta arte pseudo-bizantina nella nostra epoca. Improvvisamente molti artisti, le cui raffigurazioni erano ispirate all'action painting di Pollok, all'espressionismo astratto di Rothko o all'astrattismo di Kandinski, sono passati tranquillamente ad un'arte di ispirazione bizantina. Infatti per questi artisti passare alle rappresentazioni classiche sarebbe stato impossibile, dato che questo tipo di pittura richiede un lunghissimo periodo di apprendimento, di almeno 20 anni, nello studio della tecnica utilizzata dai grandi maestri della tradizione occidentale. Con l'avvento delle varie correnti "moderniste" del novecento, purtoppo, si è perso gran parte del bagaglio che avrebbe contribuito alla formazione di detti artisti, per cui molti di loro ripiegano verso la pittura bizantina più stilizzata e più semplice da eseguire. Sarebbe opportuno comunque comprendere per sommi capi il processo creativo utilizzato dai grandi artisti della tradizione italiana, in modo da metterlo in relazione con l'arte bizantina e comprenderne lo sviluppo. Esso viene spiegato in modo analitico e soddisfacente dal grande pittore e incisore del cinquecento tedesco Albrecht Durër nel suo libro "Della simmetria dei corpi umani" il quale compì un viaggio in Italia espressamente per apprendere il sistema utilizzato da tutti i grandi pittori italiani dell'epoca per le loro raffigurazioni artistiche, specialmente per quel che riguarda la figura umana. Detto sistema era fondamentale, e lo è ancor oggi, per poter rappresentare la figura umana senza ricorrere ad un modello vivente, specialmente quando era necessario raffigurare scorci arditi o gruppi di figure in movimento e in relazione fra loro, cosa che non si potrebbe ottenere copiando dal vero e neanche con l'ausilio di fotografie. Esso consisteva nel disegnare varie sezioni del corpo umano poste a vari livelli, quindi la faccia frontale e il profilo del singolo pezzo anatomico, per ottenere in seguito, tramite le proiezioni ortogonali, i relativi ribaltamenti e finalmente le numerose visioni in scorcio delle singole parti anatomiche. Un procedimento lungo, complesso e meticoloso che richiedeva una pazienza e un'abnegazione fuori del comune e che veniva condotto a riga e squadra. Questa pratica durava molti anni e ci fa comprendere il motivo per cui i nostri grandi artisti dell'epoca diventavano anche esperti architetti. Infatti la pratica di mettere in prospettiva un corpo umano richiede un'abilità infinitamente maggiore che non il mettere in prospettiva un solido geometrico come un cubo, un cilindro o una piramide. Molti di loro erano infatti pittori, scultori e architetti non a caso. Pensiamo al campanile di Giotto, alla cupola di S. Pietro progettata da Michelangelo, al colonnato del Bernini in piazza San Pietro, solo per citare alcuni esempi. Il metodo descritto dal Dürer probabilmente sostituiva quello di Piero della Francesca descritto nel suo " De perspectiva pingendi", il quale trattava solo la prospettiva del volto umano, mentre quello di Durër analizza il corpo intero. Un tipico esempio pittorico eseguito con questo sistema è il "Cristo morto " del Mantegna. Il problema vero purtroppo è stato causato da alcuni grandi storici dell'arte. Uno dei più importanti è Kennet Klark il quale nel suo libro: "Il nudo" Aldo Martello ed. afferma a pag. 23, riferendosi al trattato di Dürer: "non ho letto questo libro, ma ho dato solo un'occhiata alle illustrazioni come tutti i miei colleghi". Questa è un'affermazione grave, poiché tutta l'arte pittorica del '500, '600 e '700 e anche l'architettura traevano origine dal procedimento descritto nel succitato libro. Infatti anche l'architettura teneva molto in considerazione la figura umana come capolavoro di Dio, applicandone le proporzioni nelle colonne, negli archi a tutto sesto, nelle cupole e perfino nelle decorazioni a forma di S che volevano simulare la clavicola umana. Inoltre non sarebbe possibile comprendere appieno la straripante esplosione artistica del Rinascimento, del barocco e del rococò senza conoscere la tecnica che ha generato questi capolavori. Nei disegni di Luca Cambiaso (1527- 1585) si può osservare non solo l'applicazione del suddetto metodo, ma anche una sua semplificazione. Si comprende anche quale sia la grande differenza che separa un artista come Raffaello o Michelangelo - abituati sin dalla più tenera età allo studio analitico del disegno tramite le costruzioni geometriche - e il Caravaggio che dipingeva esclusivamente dal vero. Ma sarebbe opportuno anche cercare di capire la concezione spirituale che sottende le opere dei grandi artisti bizantini . Possiamo notare come le figure dei santi rappresentati erano essenzialmente piatte e mancavano di chiaroscuro, dovevano infatti risultare completamente spirituali per cui il volume avrebbe rappresentato un impedimento a questo scopo. Le mani e soprattutto i piedi dovevano essere piccoli a indicare lo scarso attaccamento alla vita terrena. Di solito non si guardavano mai tra di loro, ma il loro sguardo era fisso e si perdeva all'infinito a contemplare direttamente la divinità. In loro era assente qualunque tipo di espressione mimica come il pianto, la tristezza, la gioia ecc. a rimarcare la loro impassibilità verso le passioni umane. Inoltre era assente la prospettiva lineare e quella aerea. La prospettiva lineare mancava anche perché gli artisti di allora erano a digiuno di questa scienza riservata agli architetti, tanto è vero che il Beato Angelico desiderava ardentemente imparare questa nuova disciplina e non nascondeva questo suo desiderio, frequentando gli studi di coloro che ne erano già in possesso. È noto il dialogo che ebbe col Brunelleschi di cui era molto amico e le spiegazioni che ne ebbe da lui e che Deda Pini riporta nel suo libro "Il Beato Angelico" (pagg. 49-50-51) concludendo così: "Questa spiegazione così evidente giovò molto all'Angelico, che comprese come occorresse adeguar la pittura all'architettura in quanto ai volumi, mediante la prospettiva. I risultati di quella lezione si riscontrano sulle sue opere, che il pittore domenicano eseguì in seguito e sulle quali si ammirano non solo le figure disposte su diversi piani e proporzionate a essi nelle dimensioni, ma anche diversi motivi architettonici ". Sicuramente comunque lo studio e l'applicazione della prospettiva non tolsero nulla alla spiritualità delle opere del Beato Angelico, anzi ci appaiono ancor più coerenti e libere. Con Giotto e Masaccio l'immagine statica bizantina cominciò già a modificarsi e si notano alcuni dipinti con architetture in cui viene applicata una sorta di assonometria o prospettiva anche se ancora intuitiva. Le figure dei santi cominciano a guardarsi tra di loro e nei volti si notano varie espressioni e atteggiamenti più naturalistici e questo non tolse nulla alla pittura bizantina, ma la perfezionò solamente in quello che erano i suoi scopi e cioè coinvolgere lo spettatore nella scena raffigurata e muoverlo alla preghiera. Non si tratta quindi di una rivoluzione o di un cambiamento, ma solo di un perfezionamento tecnico atto a rendere con più naturalezza ciò che già era in nuce nella pittura bizantina. Si nota anche una migliore comprensione del chiaroscuro e i volumi si fanno più evidenti. Michelangelo perfezionò ulteriormente questa visione inserendo la linea serpentina ad S di cui parla Hogarth (1697- 1764) nel suo trattato "Analisi della bellezza", facendo assumere alla figura umana il movimento di torsione che faceva apparire come animate le figure. Quando ebbe finito il Giudizio Universale e la gente fu invitata ad ammirare il capolavoro, pare che la prima emozione che essa ebbe fu di paura e stupore insieme, dovuti al fatto che le figure dei demoni e dei dannati sembravano animate e si aveva l'impressione che si staccassero dal muro per quanto erano naturali. Anche i volti vengono rappresentati non solo di fronte di profilo o di tre quarti, ma anche nelle varie visioni dall'alto e dal basso in scorci arditissimi. Possiamo desumere da quanto detto che la pittura rinascimentale, contrariamente a ciò che si pensa, non è in contraddizione con la pittura bizantina, ma anzi la porta a compimento come la larva, che mutandosi in farfalla, non muta la sua natura. Tutto questo ci fa capire come sia inopportuno da parte di alcuni artisti prediligere forme più approssimative a forme più compiute. Questo è anche il caso di Marko Rupnik. Per comprendere la personalità dell'uomo Rupnik, è necessario analizzarne l'opera o meglio le brutte copie di mosaici bizantini. L'arte infatti svela e riflette perfettamente ciò che l'artista realmente è nel suo io più profondo. Per quanto abbiamo detto sopra, comprendiamo bene che nelle opere di Marko Rupnik vi è solo un'imitazione superficiale e puramente esteriore della pittura bizantina. Non basta usare la tecnica del mosaico con le sue belle tesserine dorate e inondare di luce gli sfondi, incorniciare di aureole a tutto spiano i volti delle figure rappresentate per ottenere qualcosa di spirituale, o disegnare in modo scorretto le prospettive degli ambienti ostentando una falsa ingenuità e purezza quasi infantili, per produrre qualcosa di simile all'iconografia bizantina. È necessario invece vivere una vita di preghiera, essere intrisi seriamente di una spiritualità, sottoporsi a penitenze di vario genere prima di mettere mano ai pennelli, cose che erano soliti fare i pittori bizantini. È necessario essere animati e mossi dallo Spirito Santo oltre che da una grande fede e dal desiderio vivo di comunicarla ai fratelli senza puntare su guadagni astronomici. E qui risuonano come un'eco lontana le parole di Cennino Cennini nel suo "Trattato della pittura" "...all’arte non si perviene con sete di guadagno, né per vanagloria..." Purtroppo, come spesso accade, la contraffazione diventa evidente in alcuni particolari: in un piede troppo grande ben piantato sul terreno, in una mano troppo carnale avezza più al possesso che alla preghiera, a volti tutti identici, stereotipati, quasi fatti con lo stampino, all'espressione di un volto imbambolato più che rapito in estasi mistica, ad occhi senza una scintilla di luce che pare contemplino le tenebre degli inferi anziché la luce sfolgorante del Tabor, ad un disegno troppo arrotondato, affrettato e superficiale che a volte sembra rasentare il fumetto. Qualcuno ha voluto paragonare Rupnik a Caravaggio (riguardo la vita sregolata), ma su questo punto è preferibile tacere https://instagram.com/giorgioesposito52?igshid=MzRlODBiNWFlZA==
  9. Notre tour viendra bientôt d’être rassemblés dans votre grange et dans votre aire, Quand la gloire de Dieu vivant éclatera comme un coup de tonnerre! (Paul Claudel, Processional, 1910) Qual è lo scopo della Risurrezione di Cristo? La domanda è meno banale di quanto non appaia ad un primo esame. Se consideriamo l’evento con cui Gesù Cristo sconfisse nella Sua carne mortale la morte stessa il più grande miracolo operato nella Historia Salutis, allora dobbiamo anche chiederci quanto sia lecito parlare di “comprensione” di questo miracolo e del suo scopo. Il miracolo della Risurrezione Due distinte considerazioni si impongono qui. La prima è legata alla natura dei miracoli in generale. In genere ci accostiamo ai gesti operati da Gesù nella sua vita terrena (guarigioni, risurrezioni, esorcismi e segni profetici) interpretandoli con la categoria del “miraculum”, vale a dire come fenomeni che destano “meraviglia” perché esulano da una spiegazione naturale. Definiamo implicitamente quei fatti con una negazione: tutto ciò che non è soggetto alle leggi naturali. Così risparmiamo tempo, ma complichiamo la nostra posizione dispettatori del fenomeno. Se non disponiamo di strumenti capaci di spiegare le azioni soprannaturali di Gesù, allora le accogliamo senza comprenderle fino in fondo. Ci fermiamo alla loro superficie (la “meraviglia”) ma ce ne sfugge il senso. E il senso è il loro scopo. Possiamo comprendere un atto di cui non cogliamo il fine? Più da lontano, possiamo contemplare il fine di un atto che si situa al di fuori delle logiche naturali? La nostra nozione di finalità, sviluppata tutta dentro il cerchio della comprensione naturale delle cose, può guidarci oltre il confine dal quale si entra nel regno del soprannaturale? Soprattutto, può evitarci una deformazione naturalistica dei gesti soprannaturali di Cristo per guidarci ad una loro comprensione autentica? La seconda considerazione attiene più in dettaglio a quel particolarissimo tipo di miracolo che è la Risurrezione di Cristo. Risorgendo da morte, e sconfiggendo dunque l’estremo nemico della condizione creaturale, Cristo è in certo qual modo uscito tanto dall’ambito naturale (ciò che è proprio della nozione di miracolo) quanto dal cerchio chiuso della storia. La Risurrezione di Cristo è esterna alla storia umana. Entra in essa come evento, ma solo per trasfigurarla. È storica, ma non viene dalla storia. Non si lascia inghiottire da essa, non le cede il suo segreto. La vivifica proprio perché introduce in essa un principio che quella non conosce. Concedere alle nostre facoltà intellettive di comprendere fino in fondo la Risurrezione come evento (cioè come fenomeno reale con un’origine e un fine) significa ammettere che dobbiamo contemplarne il posto nell’ordine delle cose. Dobbiamo vederne il fine, e dobbiamo farlo rispettando la sua natura divina. Dobbiamo lanciare il nostro sguardo dove gli sguardi umani non possono arrivare. Contemplare il fine (ossia l’intelligibilità) della Risurrezione, ma con il caveat di rispettarne il carattere divino. È questa una delle doti della fede: riconoscere che il significato non si estingue con la storia né si lascia soffocare nelle pieghe della natura, ma continua -trasfigurato e finalmente condotto a pienezza- nell’eternità. «Ognuno al suo posto» L’estesa riflessione che san Tommaso d’Aquino dedica alla pericope di 1Cor 15, 20-28 (Super I Epistolam B. Pauli ad Corinthios, XV, L.3, 926-950) può aiutarci a trovare una risposta a queste domande. In riferimento al versetto commentato nella lectio precedente, 1Cor 15,13: Se non c’è risurrezione dei morti, neanche Cristo è risorto. che san Tommaso ritiene essere una dimostrazione della Risurrezione di Cristo secondo il procedimento logico della negazione del condizionato (modus tollens: è falso che Cristo non sia risorto, perciò è falso che non ci sia risurrezione dei morti), ora il v. 20 ci introduce alla stessa verità affermata positivamente: Ora invece Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti. L’apostolo Paolo, riguardo a questa affermazione, sviluppa tre aspetti. Innanzitutto, mostra come la Risurrezione di Cristo sia collegata a quella degli altri. Poi mostra l’ordine in cui essa avviene («unusquisque autem in suo ordine»). Infine, mostra lo scopo ultimo della Risurrezione («deinde finis»). La relazione della Risurrezione di Cristo con quella di tutti gli altri è illustrata da san Paolo secondo una schemadi priorità ontologica e cronologica. Tutti risorgeranno. Ma la «primizia» che è Cristo precede «coloro che sono morti» («dormientium») secondo la successione temporale e secondo la dignità («tempore et melioritate, seu dignitate»): esiste una gerarchia dei risorti. Questa gerarchia è causa di speranza: se Cristo -la primizia di coloro che dormono in attesa della Risurrezione (cf Ap 1,5)- è risorto, allora anche gli altri risorgeranno dopo di Lui. San Paolo deve ora provare che la relazione tra la primizia e tutti gli altri passa attraverso la natura umana di Cristo. Per fare ciò, dimostra in generale che (v.21) se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti. Dio intendeva reintegrare la natura umana corrotta a causa dell’uomo stesso, perché a causa di Adamo la morte entrò nella creazione (v.22: «Come infatti tutti muoiono in Adamo»). Era dunque conveniente («pertinebat») alla dignità della natura umana che essa venisse restituita alla sua piena integrità da un uomo («reintegraretur per hominem»). La morte era stata causata da un uomo, e così doveva esserlo anche la sconfitta della morte. La prova particolare arriva subito dopo (v.22): Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita. Condannati in Adamo a subire la morte del nostro corpo, riceviamo in Cristo il dono della vita («vivificamur in Christo»), secondo il dettato di Rm 5,12. Tutti saranno reintegrati nella vita («vivificabuntur»), i buoni e i cattivi. Ma, come anticipato sopra, sussiste un ordine dei risorti (v.23): Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo. «Unusquisque autem in suo ordine»: è la gerarchia della Risurrezione. È vero, lo ripetiamo, che tutti in Cristo siamo vivificati. Ma non si può ignorare la duplice differenza che seziona l’insieme dei risorti: quella tra il capo e le membra non meno che quella i buoni e i malvagi. Questo taglio è per l’ordine (ossia per la relazione), non semplicemente per la separazione. Che cosa determina questo ordine? La dignità. La primizia, Cristo, precede i fratelli nella Risurrezione perché è il ricettacolo perfetto della Gloria del Padre. Da qui viene la Sua dignità preminente (cf Gv 1,14) di Figlio e capo del corpo dei risorti. Ma dopo di Lui (e a causa di Lui) vengono tutte le membra, che risorgono proprio perché appartengono a Lui («qui sunt Christi»). Costoro sono coloro che hanno vissuto la passione del loro Signore nel loro corpo, consegnandogli la loro vita nella fede e crocifiggendo il peccato nelle loro membra. Tra di essi, annota san Tommaso, non c’è ordine di tempo, perché la loro Risurrezione sarà istantanea («in ictu oculi»). Sussisterà invece un ordine derivante dalla dignità («quia martyr resurget ut martyr, apostolus ut apostolus...»). Veniamo dunque alla questione da cui abbiamo preso le mosse. Si può definire lo scopo della Risurrezione? San Tommaso ci introduce alla risposta: sì, e questo scopo è duplice. Il v.24 dichiara: Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo avere ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza. «Deinde finis»: l’intento dell’Apostolo è quello di mostrare che la Risurrezione trova il suo compimento non solo nel raggiungimento del bene supremo («adeptionem boni»), ma anche, correlativamente, nella eliminazione del male («remotionem mali»). Cristo, infatti, dovrà raccogliere in sé la signoria su tutte le cose (v.25: «oportet illum regnare»), senza eccezioni. Il bene supremo è il rimanere uniti a Dio («inhaerentia ad Deum»), che si realizzerà totalmente e immediatamente con la riduzione a nulla di tutte le potenze angeliche(«cum evacuaverit omnem principatum, et potestatem, et virtutem»). La fine e il fine di cui stiamo parlando, precisa san Tommaso, non sono accostabili a quello che si figurano nelle loro speranze escatologiche gli ebrei e i musulmani. Essi immaginano la vita eterna come un’esistenza finalizzata ai piaceri corporei. In realtà, la fede ci insegna che la vita eterna consisterà nella unione a Dio per visione immediata e godimento di Lui. I credenti («fideles») saranno consegnati da Cristo al Padre: questo è il Regno che Egli si è acquistato a prezzo del proprio sangue (Ap 5,9), e che mette nelle mani di Dio, il Padre. San Tommaso distingue i due nomi («cum tradiderit regnum Deo et Patri»): Cristo consegnerà il Regno a Dio (nel senso di Creatore) in quanto possessore di una natura umana, e al Padre in quanto detentore della natura divina. Non è la natura divina ad essere duplice. È la particolare identità di Cristo a rendere necessario per Lui porsi di fronte a Dio in due atteggiamenti diversi. Un tale sdoppiamento dell’azione redentiva di Cristo può forse apparire cervellotico, ma non è fine a se stesso. Con questa distinzione san Tommaso si riserva un dispositivo ermeneutico che gli permette di chiarire la questione del fine della Risurrezione, mettendola in prospettiva e spingendola oltre la sfera umana, fin nel cuore della vita divina. La logica del ragionamento diverrà più chiara alla fine. «Tutto in tutti» Nella seconda metà del v.24 san Paolo proclama l’annullamento del potere delle gerarchie angeliche (Principati, Potenze e Virtù). L’unione a Dio dovrà realizzarsi senza la mediazione angelica. Seguendo Gal 4,1, san Tommaso riporta lo stato presente dell’umanità a quello del bambino che necessita di un pedagogo. Nella condizione presente gli uomini sono sotto la tutela e la guida degli angeli. Ma una volta che il Regno sarà consegnato a Dio Padre, quella tutela sarà assolutamente superflua. Tutte le potenze angeliche cesseranno le loro funzioni, e tutta la realtà si ritroverà immediatamente sotto la sovranità di Dio. La fine delle mediazioni non significherà la fine delle gerarchie angeliche, ma solo la fine della loro attività efficace nei nostri confronti. Allora sarà noto e sperimentabile da tutti che tutto, compresi gli angeli, trae la propria esistenza e la propria potenza da Dio, principio di tutte le cose («ex quo sunt omnia»). Ridotte al nulla tutte le realtà, cioè rivelata la loro totale dipendenza da Dio, dovrà essere completata la sottomissione di tutte le forze che Gli sono ostili (v.25): È necessario infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. La rimozione del male è il secondo lato del fine della Risurrezione. I nemici di Cristo verranno distrutti. Stanno già da ora sotto i piedi di Cristo, ma in due modi diversi: perché si sono convertiti a Lui oppure perché - nonostante la loro opposizione- Cristo compie comunque la Sua volontà. Perciò sono sconfitti, o in quanto conquistati da Lui, o in quanto puniti da Lui. Ciò che avverrà alla fine però si distacca qualitativamente dallo stato presente, poiché i nemici di Cristo staranno sotto i Suoi piedi nel senso che dovranno sottomettersi alla Sua umanità («sed in futuro ponet sub pedibus, id est sub humanitate Christi»). I reprobi saranno non solo sottomessi al capo (la divinità di Cristo), ma anche ai suoi piedi (la sua natura umana). La forma paolina «donec ponat» («finché abbia posto») significa che il Regno di Cristo crescerà gradualmente, manifestandosi in modo sempre più chiaro e indubitabile fino a che tutti i Suoi nemici non saranno stati sottomessi, cioè fino a quando ogni forza ostile a Cristo non avrà riconosciuto che Egli regna. Allora il Regno cesserà di crescere, perché avrà raggiunto la sua massima estensione manifestandosi in tutto e in tutti. La forza più ostile di tutte, la morte, sarà infine compresa in questo Regno (vv.26-27a): L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi. Ostile alla vita in quanto tale, la morte dovrà essere la «novissima inimica», perché il suo posto è la fine. Essa infatti non può coesistere con la vita, e a fortiori con la vita reintegrata da Cristo. La Risurrezione è la morte della morte (cf Os 13,14 nella versione della Vulgata: «Ero mors tua, o mors!»). La rimozione della morte potrà avvenire solo alla fine, secondo l’ordine con cui la totalità delle cose viene da Dio («ut servet ordinem, quia quae a Deo sunt, ordinata sunt»). Completata la sottomissione, tutte le cose rimangono sottomesse a Cristo. Ma sono sottomesse a Dio Padre nella misura in cui Cristo stesso è sottomesso al Padre. Dobbiamo forse leggere in ciò una subordinazione del Figlio al Padre (vv.27b-28)? Però, quando dice che ogni cosa è stata sottoposta, è chiaro che si deve eccettuare Colui che gli ha sottomesso ogni cosa. E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anch'egli, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti. All’umanità del Figlio il Padre ha sottomesso tutto («subiecit omnia Filio, inquantum est homo»); è quindi all’umanità del Figlio che il Padre si rivela superiore («et sic Pater est maior Filio»), e non alla divinità, giacché il Figlio è pari al Padre e opera col Padre, facendo tutto ciò che Egli fa. Di conseguenza, l’umanità di Cristo è tanto sottomessa al Padre quanto è sottomessa alla natura divina del Figlio, e precisamente perché tutto -senza esclusione- sia sottomesso a Dio, e così Dio sia «omnia in omnibus». Ecco che infine lo sdoppiamento della consegna del Regno al Padre prende tutto il suo senso. San Tommaso suppone infatti che, affermando che tutto sarà sottomesso a Cristo (v.28: «cum autem subiecta fuerint illi omnia»), l’Apostolo volesse indicare che non è nell’umanità di Cristo che deve essere cercato il fine ultimo della Risurrezione. La creatura razionale sarà condotta oltre, fino alla contemplazione beata di Dio. In essa infatti, e in nient’altro, è la felicità dell’uomo («in ea est beatitudo nostra»). L’itinerario che dalla natura umana, assunta dal Verbo, conduce fino alla reintegrazione della dignità primigenia nella sconfitta della morte e del peccato, introduce ultimamente -e trova il suo riposo- solo nella visione di Dio, unione perfetta. Questo è il vero scopo della Risurrezione: la riconduzione di ogni bene alla sua origine divina, perché solo in Dio sia riconosciuta e sperimentata eternamente la vita, la salvezza, la virtù, la Gloria, e ogni cosa. Perché solo Dio sia la nostra felicità («solus Deus sit beatitudo») e l’esistenza, spogliata di tutto ciò che non è Lui, corra incontro al suo destino, che è quello di riceversi in pienezza per l’eternità dal Suo Redentore.
  10. San Giovanni Rotondo, Santuario S. Maria delle Grazie 1 Maggio 2023 “Cari amici, oggi la Chiesa celebra San Giuseppe lavoratore. Il Papa Pio XII volle istituire questa celebrazione al primo maggio che, com’ è noto in tutto il mondo, è la festa del lavoro, per sottolineare che senza Dio, il lavoro dell’uomo non ha futuro. San Giuseppe è esempio dell’uomo che opera, che agisce, senza anteporre nulla a Dio. E siamo venuti qui, nella chiesa dove san Pio per tanti anni ha confessato tanti, donando il sacramento della riconciliazione e ha celebrato la santa Eucaristia. Quindi, questo luogo è particolarmente sacro. Qui egli per tanti anni ha portato su di sé la Passione di Gesù Cristo, insegnando a tutto il mondo che, soltanto portando la croce di nostro Signore, noi siamo salvati. Siamo in un tempo in cui questa verità è offuscata, perché si pensa che serve altro per salvare l’umanità, ma noi non siamo più grandi di nostro Signore, come sapeva bene padre Pio. Egli sapeva che la salvezza viene unicamente dall’unione con Gesù e pertanto la sua esistenza è stata nient’altro che un abbraccio sempre più stretto con Lui. Noi dobbiamo sempre e di nuovo, imparare questa verità. Non è scontato che i cristiani seguano Gesù Cristo, particolarmente nel mondo odierno e perciò dobbiamo imparare da questo Santo come si segue il Signore. Sappiamo tutti dalla vita di padre Pio, che egli non ha fatto nulla di più che il sacerdote, non ha fatto nulla di più che ascendere verso la santità: quindi, anche noi siamo chiamati, sebbene con diversi doni, nei diversi stati di vita, a percorrere la via della santità. Ma, senza i sacramenti della Confessione e dell’Eucaristia non è possibile farsi santi. Meditiamo molto su quello che san Pio ha trasmesso alla Chiesa. Ricordo soltanto che alle sue figlie spirituali, egli amava dire che bisogna lasciarsi sbozzare come avviene con le pietre, se si vuole diventare preziosi e utili alla costruzione dell’edificio ecclesiale. Cosa significa questo? Significa che dobbiamo imparare ad amare la Chiesa, anche quando la Chiesa ci percuote. Ci vuole pazienza, come insegna san Pio. Non sto qui a ricordare le persecuzioni che egli ha subito: le conosciamo tutti … Ma, sapete, la Chiesa mette alla prova la verità di ciò che noi viviamo e se ciò è vero, prima o poi, si afferma. Non pensate che costruendo un’altra chiesa, le cose migliorino. Come ha scritto papa Benedetto: il tentativo di creare un’altra chiesa è già stato fatto ed è fallito. Noi apparteniamo alla Chiesa, una, santa, cattolica ed apostolica. Ed in questa appartenenza, in questa sofferenza, come l’oro nel crogiuolo, ci purifichiamo, come si è purificato san Pio. Non possiamo andare in cerca di altre soluzioni: è rimanendo uniti al Corpo di Cristo, che è la Chiesa, di cui Cristo stesso è la testa, che noi ci convertiamo, giorno dopo giorno e, finalmente, ci santifichiamo. Dobbiamo imparare molto da questo Santo che, come sapete è un santo mondiale, proprio perché ha fatto ciò che deve fare un sacerdote, cioè perdonare e rendere grazie. Invochiamo san Pio, unito a san Giuseppe, del quale fu tanto devoto, affinché ottenga a tutti noi la conversione, la pazienza dell’amore e la pace del cuore. Sia lodato Gesù Cristo.”
  11. Un cattolico di criterio oggi non può non preoccuparsi del crollo della civiltà (occidentale e cristiana ) ed è costretto a chiedersi come e perché ciò sia avvenuto. Molti affermati intellettuali son convinti di saper spiegare perché una civiltà sorge e declina fino a morire. Taluni son convinti che sia legata al ciclo del progresso tecnico scientifico. Altri son più cauti e scettici sul significato stesso di progresso e impatto su civiltà. Abbiamo letto libroni sul crollo della civiltà egizia, etrusca, romana, vichinga… Siam stati costretti a leggerci le interpretazioni più o meno suggestive sul crollo della civiltà occidentale (che non tutti, ”prudentemente“, hanno più chiamato cristiana… ) .Le interpretazioni più famose di questo declino o crollo son state imposte dal cosiddetto pensiero politicamente corretto dominante, cercando di non fare “moralismo”… . Per esempio Oswald Spengler (nel 1918) nel suo Tramonto dell’Occidente , spiega il declino dell’occidente grazie alla perdita della fede …, ma quella illuministica . Paul Hazard ( nel 1935 ) ,nella sua Crisi della coscienza europea, si avvicina al vero (fuochino, diremmo) senza sprecarsi troppo, individuandola nella trasformazione da una società fondata sui doveri a quella fondata solo sui diritti. Sottovalutando un po' il fatto che chi proprio ha diritti maggiori (ignorati però) è la dignità della creatura umana. Frederic Nietzsche ben prima dei due colleghi citati ( intorno al 1885) non si limitò a spiegare, bensì a profetizzare il declino dell’Occidente. Anticipando la ineluttabilità di quello che stiamo vivendo oggi con il Transumanesimo: malthusiano e ambientalista. Ma il nostro Frederic porta altre tesi molto forti, affermando che il declino dell’occidente era obbligato ed auspicabile, proprio perché fondato su radici cristiane (lui lo riconobbe!) e perché il cristianesimo ha corrotto ed indebolito la civiltà intera . Interessante capire Nietzsche per capire i tempi che stiamo vivendo. Solo pochissimi, meno conosciuti e magari anche poco convinti , han tentato di spiegare che il crollo della civiltà cristiana è dovuta alla negazione di Dio. Se io dovessi scrivere il perché la civiltà cristiana è crollata, scriverei perché non ha saputo mantenere fuse Conoscenza e Sapienza. Ma perché non ha saputo farlo? Questo è il punto chiave. Perché? Ciò che determina il crollo di una civiltà come quella cristiana è certo il crollo dei valori creduti e vissuti. Certo ma perché ciò è avvenuto? Perché? Ed eccoci alla risposta . Il prof. don Alberto Strumia ( teologo tomista , fisico e matematico) propone una riflessione fondamentale per rispondere ai “perché” . Perché la religione si è degenerata, la Verità è stata corrotta, le Leggi Naturali ( come primario criterio di Verità) son state negate e contraddette , la razionalità andata persa. Ciò ha influenzato il crollo dei valori e infine il crollo della stessa civiltà . La storia degli ultimi 50 anni in proposito è esemplare, se si volesse capirla analizzando le cause, anziché solo gli effetti. Il prof. Strumia propone queste riflessioni in due libri (Cosa è una religione. Cantagalli 2006 e Scienza e Teologia a confronto. Fede & Cultura 2014) . Confesso che dopo averli letti (soprattutto Scienza e Teologia a confronto) ho scoperto quante considerazioni ci son state “tenute nascoste“ o confuse , grazie a un preteso dialogo fra scienza e fede spesso troppo superficiale, accomodante, insufficiente a rafforzare la fede verso quelle tesi scientifiche orientate a svalorizzarla ( si pensi solo al tema Evoluzionismo) . Leggendo detto libro si intuisce (almeno io l’ho intuito così ) che il declino della civiltà cristiana inizia grazie alla crescita del pensiero scientifico, che è però prevalso intimidendo il pensiero teologico e filosofico, grazie soprattutto all’indebolimento della ragione. Ed il famoso dialogo tra scienza e fede ha visto la fede sempre più in posizione subalterna, intimidita, subordinata alla Scienza , che non vuol sentir parlare di “fiat Lux”. Così , nell’ansia dei teologi di ricercare l’unità del sapere, si è imposta una ricerca ossessiva di “concordismo”, cioè di ricerca da parte dei teologi di accostamento e identificazione della Creazione con il big-bang della cosmologia scientifica . La Sapienza ha dovuto conformarsi alla Conoscenza. Perché mai ? Ed allora a che serve ? Indebolendo il carattere scientifico della Teologia, si è indebolita la filosofia, si è indebolita la ragione, e si è indebolita la fede . Come non intendere ora perché la civiltà cristiana è considerata da tanti teologi morta, sepolta e comincia persino a puzzare ? Ne parleremo a Bassano in agosto .
  12. Non poche volte si assiste alla presentazione della scienza teologica in maniera frammentata, o meglio, frantumata. Vale a dire che negli ultimi tempi sono emerse ‘varie teologie’: teologia del progresso, teologia della speranza, teologia della croce, teologia della morte di Dio e via di questo passo. Senza fare di tutta l’erba un fascio, riconoscendo la legittimità di una di queste rispetto all’altra, sembra proprio che una simile presentazione non arrechi altro che frantumazione all’interno della unica scienza teologica. Infatti, nonostante nella teologia rientrino varie aree come quello dogmatico, morale, spirituale, biblico ecc., in quanto scienza essa è «una». Il rischio che si potrebbe correre – di fatto accade – è quello di perdere di vista la totalità a causa di una eccessiva attenzione verso la parzialità. Inoltre, esprimersi come sopra riportato: «teologia di…», non pare sia il modo più corretto, nonostante la bontà delle intenzioni. Questo problema è stato avvertito anche da Joseph Ratzinger, il quale ci indirizza mediante le seguenti parole: il pluralismo che porta alla rovina dell’unità nasce là dove uno non si sente capace di tenere insieme la grande tensione interiore della totalità della fede. Esso presuppone sempre al suo inizio una riduzione e un impoverimento, che non vengono eliminati dalla fioritura di concezioni parziali del cristianesimo, che emergono e sprofondano in forma concomitante o successiva – al contrario, anzi, diventa così del tutto evidente la povertà di ogni singolo tentativo. È più fruttuoso invece il pluralismo teologico, là dove riesce a ricondurre all’unità la multiforme varietà delle manifestazioni storiche della fede, che non cancella questa molteplicità, ma la riconosce come intreccio organico di quella verità che oltrepassa l’uomo.[1] Quelle di Ratzinger sono parole alquanto importanti e rimandano al fatto che non bisogna perdere di vista l’unità della teologia, in particolar modo: ricondurre all’unità la multiforme varietà delle manifestazioni storiche della fede. Vediamo in che modo si coglie l’unità della scienza teologica, la quale è una proprio in riferimento al suo subiectum, e lo vedremo con l’aiuto del Doctor Angelicus. Nella prima pars della sua Summa Theologiae e proprio nella prima questione, l’Angelico riporta precisazioni che andrebbero più che mai riprese, e cercheremo di farlo, per quanto riguarda l’«unità» della scienza teologica, con gli articoli 2, 3, 7. Iniziamo col prendere in considerazione l’articolo 2: Utrum sacra doctrina sit scientia. La risposta è affermativa, ma con alcune precisazioni. Infatti, vi sono due generi di scienze: quelle che procedono da princìpi noti alla luce naturale dell’intelletto (come l’aritmetica, la geometria) e quelle che procedono da princìpi noti alla luce della scienza superiore (così come la prospettiva procede da princìpi notificati per la geometria, e la musica da princìpi noti per l’aritmetica). La sacra dottrina è scienza in questo modo, perché procede da princìpi noti alla luce della scienza superiore, che è quella di Dio e dei beati.[2] Nell’articolo 3 si procede ulteriormente: Utrum sacra doctrina sit una scientia, con la distinzione materialiter e formaliter. Pertanto, l’oggetto materialmente preso può essere l’uomo, l’asino, la pietra; formalmente preso risponde alla ragione formale dell’essere «colorato», che è l’oggetto della vista. In tal caso l’oggetto non deve essere preso materialmente, ma secondo la ragione formale di «colorato», che interessa tutti e tre gli oggetti. Parimenti con la sacra dottrina: considera alcune cose che sono rivelate divinamente, per cui tutte le cose che possono essere rivelate divinamente rientrano nella ragione formale dell’oggetto della scienza divina, alla luce della quale sono comprese sotto la sacra dottrina come sotto quella scienza che è una.[3] Ora, ciò che non bisogna perdere di vista è che la sacra dottrina non si riferisce a Dio e alle creature equamente, sed de Deo principaliter, et de creaturis secundum quod referuntur ad Deum, ut ad principium vel finem. Unde unitas scientiae non impeditur.[4] Questa precisazione è molto importante, poiché il riferimento è principalmente a Dio, secondariamente alle creature ma sempre in riferimento a Dio. Allorché ci si concentrasse sull’indagine di un aspetto particolare, offuscando il riferimento principale a Dio, si avrebbe una indagine frantumata che comporterebbe il raccogliere quei pezzi che dovrebbero servire per ricomporre la totalità. Ma in tal caso la totalità sarà contraffatta, proprio perché la partenza dell’indagine teologica non considererà Dio come il riferimento principale e finale. Gli aspetti particolari devono rientrare in Dio come principio e fine, non come aspetti a sé come una sorta di puzzle da comporre. Infatti, con l’articolo 7 si ha il chiarimento definitivo: Utrum Deus sit subiectum huius scientiae. E la risposta non avrebbe bisogno di ulteriori precisazioni: in hac scientia fit sermo de Deo, dicitur enim theologia, quasi sermo de Deo. Ergo Deus est subiectum huius scientiae.[5] Non solo, ma omnia autem pertractantur in sacra doctrina sub ratione Dei, vel quia sunt ipse Deus; vel quia habent ordinem ad Deum, ut ad principium et finem. Solo Dio è il subiectum della teologia e tutto ciò che la medesima tratta è sub ratione Dei, o perché è Dio stesso o perché dice ordine a Dio. Ma veniamo al punto che occorre sottolineare maggiormente, per avviarci alla conclusione, ossia il fatto che spesse volte alcuni argomenti sono trattati non sub ratione Dei, ma come se tali argomenti fossero il subiectum di se stessi. Già accadeva al tempo dell’Aquinate: vel res et signa; vel opera reparationis; vel totum Christum, idest caput et membra. Tuttavia, questi argomenti non possono essere trattati in maniera a sé stanti, sed secundum ordinem ad Deum. Occorre recuperare l’unità del sapere teologico partendo dal modo di esprimersi, evitando le «teologie di/del/della/dello…», le quali, in tal modo, non esprimono altro che una sorta di frantumazione. Al riguardo, è possibile leggere quanto riportato dalla Commissione Teologica Internazionale, nel documento Teologia oggi: prospettive, principi e criteri: Nei tempi moderni, in misura crescente, la parola «teologia» viene utilizzata al plurale. Si parla delle «teologie» di diversi autori, periodi o culture, riferendosi ai concetti distintivi, temi significativi e prospettive specifiche di queste «teologie».[6] Il documento precisa che una certa pluralità è legittima, ma prestando attenzione alla teologia in quanto scientia fidei e scientia Dei, nel salvaguardare il subiectum della teologia che è Dio. Per questo motivo sarebbe meglio se si parlasse di «pluralità» anziché di «pluralismo», o meglio, sarebbe una esigenza, dacché la molteplicità presuppone l’unità. [1] J. RATZINGER, Natura e compito della teologia. Il teologo nella disputa contemporanea. Storia e dogma, Jaca Book, Milano 20184, 85. [2] Cf. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 1, a. 2. [3] Cf. Ibid., a. 3. [4] Ibid., ad 1um. [5] Ibid., a. 7. [6] Commissione Teologica Internazionale, Teologia oggi: prospettive, principi e criteri, n. 75.
  13. In questo breve articolo vogliamo puntare l’attenzione su un punto problematico di una parte purtroppo non minoritaria dell’esegesi neotestamentaria contemporanea: l’interpretazione della storicità della Risurrezione di Cristo e il ruolo della comunità primitiva nell’elaborazione dei racconti della tomba vuota. La Risurrezione va intesa come un fatto storico vero e proprio oppure come una pura esperienza interiore degli apostoli? Se la seconda ipotesi fosse vera, si dovrebbe creare artificiosamente nell’insieme delle testimonianze pasquali del Nuovo Testamento una cesura ingiustificabile: quella tra storia e fede. Ma questa dicotomia non rivestiva nessun interesse per la prima generazione cristiana. Il programma esegetico del protestantesimo liberale seguiva, nei confronti del Nuovo Testamento, un precetto che non poteva essere messo in discussione: considerare ogni professione di fede nella Risurrezione di Gesù Cristo e ogni racconto delle visioni del Risorto presenti nei Vangeli e negli Atti degli Apostoli -ma anche in alcuni testi paolini- come il risultato di una lunga e intricata elaborazione letteraria e teologica. La funzione di un tale lavorìo teologico sarebbe stata quella di costruire un racconto capace di restituire in termini narrativi la testimonianza di un’esperienza che non era strettamente storica, ma interiore e mistica. Il fatto che si trattasse di una interpretazione la cui logica rimaneva tutta interna alla testimonianza stessa rendeva impossibile -e in fondo sbagliato- cercare di ricostruire gli eventi storici soggiacenti a quei testi. I racconti pasquali non dovevano essere presi alla lettera. Il loro valore storico doveva considerarsi nullo. Ciò che contava era la loro interpretazione. Nel migliore dei casi, si ipotizzava che a questa elaborazione apostolica e subapostolica si accompagnasse una sostanziale buona fede; nel peggiore, si immaginava di aver a che fare con una dannosa sofisticazione dell’originaria esperienza cristiana. In ambedue i casi, tale elaborazione avrebbe avuto il suo punto di partenza in una intuizione “spirituale”, in un fenomeno puramente interiore. La fede degli apostoli, allo sguardo demistificatorio dell’esegeta, doveva perciò risultare indipendente dai racconti degli incontri sensibili col Risorto, come anche dai racconti della tomba vuota. Occorreva separare quella fede da qualunque concezione esplicitamente e crudamente “fisica” della Risurrezione di Cristo, e questo fin negli strati più arcaici della documentazione evangelica. Il modernismo cattolico (sia nella sua forma originale, tra fine ottocento e primi del novecento, sia nella sua incarnazione “progressista” postbellica) seguì il protestantesimo su questa strada. Una fede impossibile? L’impostazione era essenzialmente ideologica, e rispondeva a un presupposto storico e filosofico preciso, cioè alla postulata impossibilità di credere a una Risurrezione (intesa come rianimazione) reale di Cristo nella cornice della Weltanschauung moderna. Il significato dei racconti evangelici veniva quindi ridotto secondo la misura di una mancanza di fede che doveva essere ormai assunta come un dato inconfutabile ed irreversibile. Gli strumenti di questo programma di lungo corso -che arriva coi suoi più recenti epigoni sino a noi- si sono avvicendati e sovrapposti: lo storicismo romantico con la sua fascinazione per lo spessore poetante e trasfigurante della tradizione biblica, il sociologismo con il suo corollario di eziologie contestuali, l’esistenzialismo con la sua smania di attualizzare l’appello alla conversione -il kérygma - saltando a pie’ pari la concretezza storica dell’evento evangelico. Parlando della Risurrezione come di un «mito», Rudolf Bultmann fu in fondo onesto riguardo al suo programma teologico, e rivelò al di là di ogni ragionevole dubbio quale è l’esito a cui esso conduceva. Le cause prossime e quelle remote di un simile programma intellettuale (e pastorale: questa impostazione doveva tracimare immediatamente, con un entusiasmo degno di altre imprese, nella predicazione, la quale si imbottì in men che non si dica di richiami al «Sitz im Leben», alla «comunità primitiva pre e postpasquale» e alla «comprensione non mitica della Risurrezione») devono essere cercate nella inamovibile convinzione che sia assolutamente impossibile, all’uomo entzaubert (disincantato) dell’epoca tecnologica, credere ad eventi soprannaturali. Il rifiuto pregiudiziale del miracolo è la tara di questo atteggiamento spirituale. La Risurrezione del Signore è il più clamoroso tra i miracoli, e in quanto tale doveva essere espunta nella sua letteralità, per entrare in quel limbo fumoso e anfibio che è lo spazio interpretativo. A mediare tra l’evento storico concreto, la sua risonanza esperienziale nel mondo interiore degli apostoli e l’espressione linguistico-narrativa di quell’esperienza sarebbe rimasto solo il milieu esegetico di una modernità intellettualmente avara, che legifera tirannicamente sui confini della credibilità spostandone continuamente i paletti, ma senza rendersi mai conto fino in fondo della sua soffocante autoreferenzialità. All’interno di questo spazio cangiante può regnare solo il sospetto, che non a caso è stato coltivato come una virtù cardinale. Non parliamo in questo caso di quel sospetto metodologico che è parte insostituibile della dimensione critica della ricerca esegetica. Parliamo di un sospetto che si insedia nel campo in cui normalmente dovrebbero prosperare l’amore al testo, l’obbedienza alla verità e la serietà nei confronti della rivelazione; parliamo di una diffidenza pervicace e prevenuta verso qualunque affermazione soprannaturale, che smette di essere una precauzione metodologica per farsi -sotto la maschera austera dell’onestà intellettuale- postura teoretica e atteggiamento esistenziale . Due tipi di testimonianza? Su di un piano strettamente metodologico, questo genere di esegesi comporta l’introduzione di una rottura, di una disomogeneità nella interpretazione delle testimonianze apostoliche. Avremmo così, secondo questa impostazione, due tipologie di racconti: quelli in cui si riferiscono fatti reali, storici, e quelli in cui si riferisce -sotto una veste narrativa che sarebbe in realtà una protointerpretazione teologica- l’esperienza propriamente indicibile del Gesù vivo nello Spirito. Che uno schema simile sia -come detto- di natura ideologica lo dimostra il fatto, molto chiaro, che non sia affatto questa l’intenzione dei testi neotestamentari. Prendiamo, a titolo di esempio, il discorso di Pietro a Cornelio riportato in At 10, in particolare ai vv.39-41. Gli apostoli sono testimoni tanto delle cose compiute da Gesù nella regione dei giudei e a Gerusalemme quanto della sua Risurrezione. Non c’è soluzione di continuità tra i due generi di testimonianza; non sono riferiti l’uno a fatti esteriori -sensibili- e l’altro ad un’esperienza interiore del Cristo vivente e glorioso, che poi debba essere tradotta nei termini immaginativi di una narrazione. Sono invece le due parti di una testimonianza omogenea, che si riferisce in tutti e due i casi a eventi storici. Non abbiamo a che fare con due esperienze eterogenee, che avrebbero come oggetto l’una il Gesù della storia e l’altra il Cristo della fede. Distinzioni di questo genere rispondono molto bene alla mentalità dell’esegeta moderno, ma di sicuro non si riscontrano nella natura specifica della testimonianza degli apostoli e nell’intenzione autentica dei testi in cui essa si è depositata (cf. At 4,20). Le apparizioni non sono dunque l’esplicitazione immaginativa di una qualche esperienza interiore con cui Cristo si sarebbe rivelato come vivente. Non è questo che intendono i nostri testimoni. Una simile affermazione sarebbe una pura invenzione a posteriori, che rifletterebbe la mentalità dell’esegeta, non quella degli apostoli e dei discepoli. [...] “Risuscitato” non può avere due sensi. O significa che il corpo del Cristo non è rimasto nella tomba, ma è stato vivificato dalla potenza di Dio ed ha così potuto essere visto e toccato, allo stesso modo di prima, dai testimoni, o non significa niente. (Jean Danielou, La Risurrezione, 1969) Intendere la Risurrezione di Cristo come la pura “interpretazione” di una “esperienza interiore”, prescindendo dalla sua natura di fatto concreto, rende di fatto impossibile comprendere o anche solo giustificare la predicazione apostolica così come ci è trasmessa in testi come quello di At 2,29-31, in cui il discorso sul corpo, sulla «carne» di Cristo, diventa il criterio di verifica della profezia. Di questo parlavano gli apostoli. Questo volevano testimoniare al mondo. Non è la fede della comunità primitiva in quella “esperienza interiore” ad aver generato i racconti evangelici come affabulazione e mitopoiesi; piuttosto, è la testimonianza delle apparizioni sensibili del Risorto offerta dagli apostoli di fronte alla comunità a costituire il senso di quei racconti. Racconti che la Chiesa ha sempre recepito come resoconti di eventi reali. La Risurrezione di Cristo non è il prodotto della fede: è la fede ad essere la conseguenza della Risurrezione.
  14. Propongo una domanda provocatoria introduttiva: non potrebbe essere proprio questo momento confuso e “oscuro” nella chiesa e nella stessa civiltà cristiana, la grande occasione per unire nella difesa dei valori cristiani, spiegati quali fondanti in modo imprescindibile la civiltà e poi convertire alla fede, gli “uomini di buona volontà” con cui allearsi per difenderli, che siano atei devoti o saggi agnostici ? Prescindendo da considerazioni scontate su fede e ragione, mi domando spesso come mai , riconoscendo che è il cristianesimo ad aver permesso lo sviluppo scientifico ed il progresso anche economico, si voglia oggi, grazie al cosiddetto ultimo utopistico reset transumanista , cancellarlo perché considerato nemico di entrambi. Anzi , proprio oggi, riconoscendo il fallimento di un modello di globalizzazione fondato su scelte innaturali, invece di pensare di rivalutare il cristianesimo-cattolicesimo (ormai) riconoscendolo indispensabile, o almeno utile, all’uomo confuso di questo secolo , poiché gli da certezze e speranze, lo si considera ancor più responsabile degli errori che l’uomo ha fatto proprio in questo periodo . Sorgono spontanee alcune domande : -1° Ma è vero progresso quel “progresso” che sembrerebbe voler cancellare il cristianesimo ? O chi lo vuol fare è piuttosto chi se ne è impossessato e pensa di controllarlo ? –2° Ma le accuse al cristianesimo sotto attacco sono vere accuse al vero cristianesimo ? –3° Se un falso progresso stesse attaccando con false accuse il vero cristianesimo, che si dovrebbe fare ? Proviamo a riflettere . Oggi, proprio oggi, ci sono molte domande che un cattolico di criterio si dovrebbe porre . Cosa sia civiltà oggi per esempio e la sua correlazione con il cristianesimo . Era fino a ieri opinione condivisa che la civiltà occidentale si è affermata ( dal XI sec.) grazie al cristianesimo ed è declinata nel XIX e XX sec. negandolo Ha accelerato il declino de fine XX e inizio XXI sec. grazie a un processo “imposto” nel mondo occidentale che ha influenzato il mondo intero . Dopo la rivoluzione della riforma protestante e l’illuminismo , l’occidente si era convinto di poter ri-civilizzare il mondo intero ridimensionando progressivamente il ruolo della religione (ormai solo) cattolica , adattandolo sempre più alle “esigenze” del progresso e alle spiegazioni scientifiche . Certo ha modernizzato ed arricchito il mondo occidentale , ma lo ha migliorato ? Che significa “migliorare “il mondo ? chi sa e può farlo e come ? Questa domanda è obbligatorio porsela . Anni fa un grande e santo Cardinale mi concesse una discussione sulla ragione o torto del pensiero laicista che ritiene che la sopravvivenza della religione cattolica segua lo sviluppo della scienza che a sua volta spiega (quasi) tutto quello che prima spiegava la religione ,rendendola progressivamente inutile . E ciò viene ritenuto senza voler cercare di capire se sviluppo e progresso scientifico non siano proprio conseguenza della cultura di fede-opere della religione cattolica. Ma il pensiero laicista non sembra permettere detta discussione , privando il cattolico di libertà di pensare e affermare che lo sviluppo della civiltà è frutto della Verità vissuta con opere. Insinuando che pertanto la religione non è solo inutile ma anche dannosa per l’uomo e per la civiltà occidentale . Nietzsche esulterebbe oggi ,vedendo avverata la sua profezia . Purtroppo . Perché è molto probabile , se non certo, che il progresso scientifico ed economico di cui siamo fieri , sia anche segno di contraddizione , avendo si generato tanti straordinari vantaggi ed opportunità ,ma avendo anche creato tante “confusioni” nella testa dell’uomo pieno di conoscenza, ma sempre meno dotato di sapienza. Sapienza indispensabile per saper gestire la conoscenza che non può avere autonomia morale e può sfuggire di mano al poveruomo . Questa probabilmente è la vera risposta alle tre domande poste all’inizio . Peraltro anche la Genesi dice lo stesso… Ma con il riconoscimento del fallimento della globalizzazione occidentalizzante che succederà ora ? La religione cattolica verrà cancellata definitivamente o verrà ricercata e rinascerà, riconoscendosi di non poterne fare a meno ? Per rispondere a questa ultima domanda propongo una riflessione sulle “forze in gioco”. Mi limito a tre attori in gioco. – Attori contro . I laicisti nietzschiani , che sostengono che l’uomo debba autodeterminarsi senza affidarsi ad una entità divina ed addirittura persino a un sedicente suo rappresentante sulla terra , insegnano che l’uomo deve imparare ad accettare le verità scientifiche ( anche se provvisorie e temporaneamente ancora incomplete ). Solo con il transumanesimo sperimentato e vissuto l’uomo non necessiterà più una religione . Una religione peraltro origine di tutti gli errori fatti , avendo imposto il concetto di libero arbitrio ( irrazionale e soggettivo ) , che deve subito convertirsi in determinismo scientifico ,onde evitarne altri peggiori. -Attori neutrali.Gli “atei devoti”( genericamente parlando) e gli agnostici saggi , che alla fine ,con un certo distacco , sostengono i valori culturali del cristianesimo senza quelli spirituali ( cioè l’appartenenza senza credenza ). Ma oggi cominciano a preoccuparsi dei rischi del relativismo che confonde bene con male e della negazione del libero arbitrio che si vuole sostituire con determinismo scientifico. -Attori confusi . I cattolici infine , negli ultimi anni soprattutto grazie alla ambiguità dottrinale di vari teologi e di molti stessi pastori , hanno perso buona parte della fiducia nella gerarchia e han subito la rottura al loro interno , prima tra “tradizionalisti e progressisti” , poi all’interno degli stessi ( cosiddetti) “tradizionalisti “ . Con la conseguenza di allontanarsi o cercare fuori dalla Chiesa Cattolica Apostolica Romana , soluzioni verso altre forme religiose o persino accettando persino l’ipotesi del “piccolo gregge” ininfluente , piuttosto a rischio di esser assimilabile ad una setta religiosa e pericolosa. Laicisti, Indifferenti e Cattolitiganti , sembrano esser i nostri attori principali interessanti (ovviamente ignoro appartenenti ad altre religioni ecc. ) che recitano in questo palcoscenico. Dobbiamo riflettere strategicamente riferendoci al bene della cultura e civiltà cristiana prodotta dal cristianesimo , scomparso il quale l’uomo ritornerà pagano e homo homini lupus . Cattolici , atei devoti e agnostici saggi sono una moltitudine , sono maggioranza potenziale , in grado di reagire e difendere i valori cristiani . E alla fine chi difende un valore si può convertire al principio del valore . Per far smettere di litigare i cattolici , per far entrare gli atei devoti e gli agnostici saggi oltre la soglia del “cortile dei gentili” e garantirsi una alleanza strategica con loro , necessaria a manifestare la nostra verità verso la cultura laicista , abbiamo bisogno di “pastori “ perché siamo, e dobbiamo restare, un “grande gregge” che serve , che insegna , che converte , come ha preteso il Fondatore del gregge stesso. Anzi proprio questo momento oscuro potrebbe essere grande occasione per unire , e poi convertire alla fede, gli “uomini di buona volontà” . Si dovrebbe chiedere ai nostri santi pastori di esplicitare con chiarezza e coraggio cosa dovrebbe essere la Chiesa oggi , concretamente , se vuole essere Chiesa di Cristo e non di altri . Basterebbe convincerli a porsi domande semplici ma attuali . Per esempio : < Vien prima la fede o la misericordia ?> ; < Vien prima la miseria morale o quella materiale ? >; <Il senso della vita è la difesa dell’ambiente o lo è prima la ricerca della salvezza ?>; < Per gestire queste crisi in corso si deve cambiare gli strumenti o il cuore dell’uomo ?> . <Chi ha responsabilità per cambiarlo e con quali mezzi ?? . > , ecc. Ecco . Saper rispondere a queste domandine semplici semplici può aiutare a capire le prospettive che dobbiamo affrontare per stare nella Verità e per riconoscere e difendere la vera libertà della civiltà che il cristianesimo ha fondato , che , forse non è chiaro a tutti , ma è in pericolo .
  15. Questo mio contributo è il primo di una serie di articoli attraverso cui si vuole render ragione del pensiero cattolico, il quale trova la sua fonte e il suo culmine nella Fede consegnataci dalla Chiesa Cattolica Apostolica Romana, professata nel Credo, espressa nella dottrina definitiva ed applicata nella morale definitiva. Lo scopo è quello di dimostrare come la Fede Cattolica sia una fede razionale perché il Dio che ne rivela i contenuti è in principio Logos, ossia Ragione e Ordine, Parola Sapiente. Nel sottotitolo ho riportato la celebre frase agostiniana: Credo ut intelligam intelligo ut credam. La traduzione più usata di questa espressione è Credo per comprendere, comprendo per credere. Mi si permetta di specificare il perché della scelta dei termini mediani “comprendere comprendo”. Agostino usa il verbo intelligere, da cui viene il nome “intelligenza”. Letteralmente intelligere, composto da inte (a propria volta da intus) e da legĕre, vuol dire “leggere dentro”. L’intelligente, dunque chi comprende pienamente, è colui che sa leggere dentro le cose, che sa andare oltre l’apparenza e questa capacità presuppone una fede: non esistono solo le realtà visibili, ma esiste qualcosa che non vediamo che supera ciò che vediamo e lo sorregge. Quando l’uomo intelligente crede, inizia a comprendere, e quando inizia a comprendere crede. Comprendere, a sua volta, viene dal latino cum-prendere, ossia prendere insieme, riuscire ad abbracciare la complessità del reale, universalizzare, ossia tendere verso l’unità superando la complessità. L’uomo intelligente è allora colui che, in base alla sua fede, comprende. Ecco allora giustificata la scelta dei termini “comprendere - comprendo” per tradurre “intelligam intelligo”. Veniamo ora al significato che Agostino ha voluto attribuire a questa lapidaria espressione. Prima di essere il Santo che tutti noi conosciamo, Agostino era un pagano in preda alla concupiscenza della carne, degli occhi e della superbia della vita. Tuttavia non ha mai smesso di cercare la Verità e, come è noto, chiunque cerchi la Verità, cerca Cristo. È certo che le preghiere della madre Monica siano state il sostentamento del suo cammino di vita, come egli stesso riconosce nelle sue Confessioni, ma è anche vero che il suo desiderio di verità ha contribuito alla sua conversione. Il primo approccio alla filosofia, che inizierà a fargli prendere le distanze da una vita sregolata, avviene grazie alla lettura di Cicerone. Qui inizia a prender forma il suo desiderio della Verità, ma sotto forma di verità filosofica, influenzata dal neoplatonismo del suo tempo, che non escludeva le realtà invisibili, di cui la più importante è l’Essere: anzi, tali realtà venivano indicate come modello perfetto rispetto alle realtà materiali visibili. Vigeva, infatti, la dicotomia anima-corpo. Inebriato dal grande retore latino, Agostino inizia a cercare una dottrina che possa render ragione di ciò che ha appreso e in un primo momento crede di averla trovata nella eretica dottrina del manicheismo, la quale sosteneva l’esistenza di due realtà antitetiche: il Bene e il Male. Due divinità in guerra la cui fine sarebbe stata segnata dal trionfo del dio del bene. Agostino non essendo come i fideisti che accettavano le dottrine ricevute senza ragionarci su, senza porsi domande, capì che la tanto amata verità, quella “Bellezza Tanto Antica” cui anelava ormai da tempo, non era in quella dottrina e se ne distaccò, grazie alla Rivelazione della Santa Dottrina Cattolica, propostagli dal Vescovo di Milano Ambrogio, di cui aveva sentito parlare in ambiente romano soprattutto dall’oratore Quinto Aurelio Simmaco: questi, resosi conto delle qualità oratorie di Agostino, lo aiutò ad andare a Milano per opporlo al vescovo suo nemico in campo politico e sociale. Lo scontro tra Ambrogio e Agostino fu vinto nettamente dal vescovo e tale vittoria vinse l’Agostino pagano e fece nascere l’Agostino cristiano che poi divenne Santo. Da questa brevissima sintesi della sua vita comprendiamo allora che la frase che dona il titolo a questo articolo è frutto di una presa di coscienza: la fede e la ragione sono in relazione tra loro, così come Dio e l’uomo. Qui fede e ragione devono essere considerate due realtà che costituiscono l’uomo, dove la ragione, l’intelletto, con le sue categorie, serve per comprendere il dato rivelato a cui ha deciso di credere per comprenderne sempre più la sua ragionevolezza. È necessario distinguere qui la fede oggettiva da quella soggettiva. La Fede oggettiva è il dato rivelato a cui ci viene chiesto di credere. La fede soggettiva è l’atto personale con cui ognuno di noi, con volontà e intelletto, crede nella fede oggettiva. Chiarito questo possiamo affermare come Agostino, quando dice Credo per comprendere, stia facendo riferimento alla fede soggettiva, quella sua, personale, che ha dato alla Fede oggettiva, offertagli da Sant’Ambrogio e grazie alla quale ha iniziato a comprendere veramente. Dunque, per Agostino la voglia di comprendere, la fame di verità, trova ora nella fede il suo compimento, la sua ragione: cioè, quella di render ragione della Verità Cristiana, di dare risposta alle problematiche culturali, sociali, morali e politiche del suo tempo. Precisiamo qui che Agostino andò a Milano spinto dal retore pagano Simmaco che sosteneva la veridicità della religione romana contro quella cristiana. Egli, dunque, doveva render ragione della superiorità, per l’impero, della religione romana, e finì per essere convinto da Ambrogio del contrario, ossia che l’unica vera religione è quella cristiana, mentre le altre religioni non hanno motivo di esistere. Quattro anni prima, nel 380, Teodosio aveva dichiarato la religione cristiana la Vera Religione dell’Impero, e successivamente allontanò tutti coloro che si opponevano a tale verità, fra questi Quinto Aurelio Simmaco. Capiamo così che Agostino da sempre aveva avuto a cuore la verità, e una volta che gli fu rivelata l’accolse e la difese con volontà ed intelletto, usando quegli strumenti che aveva appreso dalla filosofia pagana, dai grandi retori, con la differenza sostanziale che, mentre i retori desideravano farsi ragione esclusivamente attraverso l’abile uso delle parole, in Agostino la retorica, illuminata dalla Fede, si faceva strumento per la difesa della Verità di Cristo. Così il Santo generò la celebre frase che diede i natali, se così si può dire, alla ricchissima riflessione sul rapporto fede-ragione, che contraddistingue la Vera Religione da tutte le altre false religioni, il Cristianesimo Cattolico dalle dottrine varie e peregrine. “Credo per comprendere”, in Agostino, così come in ogni vero cristiano cattolico, è la consapevolezza che senza l’adesione di fede non si può essere veramente intelligenti, non si può comprendere pienamente, si rimane in qualche modo ciechi e monchi nella comprensione. Una volta compreso ciò, si può allora intendere il comprendo per credere, e cioè che la ragione che Dio ci ha donato è fatta principalmente per credere. Vorrei render ragione, con delle mie considerazioni personali, di queste ultime affermazioni servendomi di ciò che gli ebrei insegnano circa l’apprendimento della Sacra Scrittura. A tal riguardo essi individuano quattro momenti: Damanah che è star fermi e zitti. Nell’apprendimento della Verità non ci deve essere precomprensione, né pregiudizio. Nessuna attività umana deve interferire, bisogna solo ascoltare. Shemà Israel! Ecco il secondo momento. Gli ebrei esprimono questo momento con una parola la cui radice è formata da tre consonanti del loro alfabeto, Kaf-Vav-Nun. Questa radice indica l’atto dello star saldi in ciò che si è ascoltato, il credere, il prestar fede. Questi due momenti possiamo, per analogia, attribuirli a due fasi della vita di Agostino: il primo è consistito nell’ascolto prestato ad Ambrogio; il secondo nel prestare fede a ciò che ha ascoltato. Il terzo momento gli ebrei lo chiamano Darash, che significa ‘mettersi in cammino, alla ricerca’. È l’intelletto che si muove alla ricerca di Dio, ma non è lasciato solo, così come avviene per lo gnostico che cerca e ricerca, ma è un intelletto illuminato dalla fede, guidato, critico. Questo intelletto è quello di un uomo che cerca Dio, che vuole entrare in relazione con Dio, poiché crede che Egli sia, esista, pensi, parli, agisca. A quest’uomo viene donata la comprensione di Dio e la conoscenza per mezzo dello Spirito Santo. In questa fase Agostino sperimenta le parole del Vangelo “continuate a cercare e troverete, continuate a bussare e vi sarà aperto. Perché a chiunque chiede lo Spirito Santo nel mio Nome il Padre mio glielo concederà”. Lo Spirito Santo è la Persona della Trinità che conduce alla Verità, a Cristo. La quarta e ultima fase gli ebrei la chiamano Asah, il mettere in pratica, che per noi è l’abbandono del peccato, la crescita spirituale in Cristo, la vita cristiana che alla fine Agostino abbracciò e che lo condusse alla santità. Non posso comprendere senza prestar fede a ciò che mi è stato rivelato e consegnato come oggetto degno di fede, e se non comprendo non potrò realmente credere. Pensiamoci! Nel prossimo articolo approfondiremo come la Fede sia il fondamento della ragione, meditando su ciò che Sant’Anselmo d’Aosta ha voluto dirci nell’espressione Credo ut intelligam.
  16. Dominica Resurrectionis Domini Nostri Iesu Christi Chiesa dei Santi Michele e Gaetano Firenze 9 aprile 2023 Epistola: 1 Cor. 5, 7-8 Evangelium: Marc. 16, 1-7 Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Così sia. Il nostro agnello pasquale, Cristo, è stato immolato, alleluia. Festeggiamo dunque la Pasqua con i pani azzimi in purezza e verità, alleluia, alleluia, alleluia[1]. Queste parole divinamente ispirate dell'antifona alla Comunione, tratte dalla Prima Lettera di San Paolo ai Corinzi, esprimono la realtà oggettiva che è all'origine dell'inesprimibile meraviglia e gioia di oggi, giorno della Risurrezione di Nostro Signore. È la realtà che l'Angelo Pasquale ha annunciato alle sante donne che si erano recate al sepolcro di Cristo per ungere il suo corpo senza vita e avevano trovato la tomba vuota: Non vi meravigliate; voi cercate Gesù di Nazareth, che è stato crocifisso. È risorto, non è qui; guardate il luogo dove l'hanno deposto[2]. Dopo essere stato crudelmente torturato e giustiziato con la crocifissione, e dopo aver versato interamente il suo sangue, quando il soldato romano gli ha trafitto il costato dopo che era morto, Cristo è risorto dai morti, vincendo per sempre la morte nella nostra natura umana e conquistando per noi l'eredità della vita eterna. Dal suo trono nella gloria, alla destra di Dio Padre, Nostro Signore riversa incessantemente e senza misura la sua vita per noi. Dal suo Cuore glorioso e trafitto, Egli riversa nei nostri cuori la grazia onnipotente - santificante ed attuale - dello Spirito Santo. È così che noi, vivi in Cristo grazie all'effusione dello Spirito Santo, siamo destinati a godere della vita eterna. Alla nostra morte, le nostre anime sono destinate a riposare eternamente in Dio. I nostri corpi, una volta deposti nella tomba, sono destinati, nell'ultimo giorno, a risorgere a vita eterna nella stessa gloria del Signore risorto. Egli è infatti, secondo le parole di San Paolo, "primizia di coloro che sono morti"[3]. Dom Prosper Guéranger commenta così le parole dell'Angelo Pasquale alle sante donne, riportate nel Vangelo di oggi: « Non è qui, perchè é risorto ». Un morto, che delle mani pietose avevano steso là, su quella tavola di pietra, in quella grotta, ecco che si è levato e senza neppure manomettere la pietra che ne chiudeva l’ingresso, si è slanciato in una vita che non dovrà più avere fine. Nessuno gli ha portato soccorso; nessun profeta, nessun inviato da Dio si è chinato su quel cadvere per richiamarlo in vita. È lui stesso che, per virtù propria, è risuscitato. Per lui, la morte non è stata una necessità, ma l’ha subita perchè l’ha accettata; e l’ha spezzata quando ha voluto. Oh! Gesù che potete beffarvi della morte, voi siete il Signore Dio nostro![4] È il Corpo glorioso e incruento di Cristo - il suo glorioso Corpo, il suo Sangue, la sua Anima e la sua Divinità -, frutto del suo cruento Sacrificio sul Calvario, che riceviamo nella Santa Comunione, sia come Pane celeste per sostenerci nel nostro pellegrinaggio terreno, sia come pegno sicuro del destino del nostro pellegrinaggio: la vita eterna. Così preghiamo davanti al Santissimo Sacramento, con le parole di San Tommaso d'Aquino: "O sacra mensa in cui ci nutriamo di Cristo e ne ricordiamo la Passione! L’anima viene inondata di grazia e ci è dato il pegno della vita futura"[5]. La realtà che celebriamo oggi cambia la nostra vita per sempre. Viviamo ora alla presenza di Cristo Risorto, partecipando al dono stesso della sua vita, che è vita eterna. Riceviamo da Lui, finché restiamo fedelmente in Sua compagnia, la grazia di vivere ogni momento della vita in attesa del suo compimento nel Regno dei Cieli. La Parola viva di Nostro Signore definisce la straordinarietà della nostra vita quotidiana ordinaria: "Cingete i vostri fianchi e accendete le vostre lampade, e siate come uomini che aspettano che il loro padrone torni a casa dal banchetto di nozze, per aprirgli subito quando verrà a bussare"[6]. Così pregherò nella Secreta: "Accogli, Te ne preghiamo, o Signore, le preghiere del tuo popolo insieme all’offerta di questi doni, affinché ciò che ha avuto inizio nei misteri pasquali, con la tua grazia ci sia di rimedio per l’eternità "[7]. Dom Guéranger commenta questa Secreta: L'intera assemblea dei fedeli sta per partecipare al banchetto pasquale; l'Agnello divino li invita ad esso.... La santa Chiesa, nella sua Secreta, invoca su questi ospiti favoriti le grazie che procureranno loro la beata immortalità di cui stanno per ricevere il pegno[8]. Che ogni nostro pensiero, parola e azione rifletta la realtà oggettiva della nostra vita in Cristo. Che ogni aspetto della nostra vita quotidiana sia una cooperazione con la grazia divina per la gloria di Dio, per la nostra salvezza e per la salvezza del mondo. Preghiamo oggi per la nostra santa Madre Chiesa che è attaccata da coloro che, specialmente al suo interno, nella ribellione, separano la loro volontà dalla volontà di Dio e cadono così in tanta confusione ed errore con i loro frutti mortali: divisione, eresia, apostasia e scisma. Preghiamo per una rinnovata conoscenza e amore della Sacra Tradizione, di Cristo che solo è la nostra salvezza e che solo, in una linea ininterrotta dai tempi degli Apostoli, ci insegna la verità divina, ci anima con l'amore divino e ci dà la grazia dell'obbedienza alla volontà di Dio e, quindi, della salvezza eterna. Preghiamo anche per i popoli del mondo che soffrono la violenza e la morte a causa dell'ingiustizia frutto della menzogna, della corruzione e dell'odio, soprattutto in Ucraina, ma anche in molte altre nazioni e comunità e famiglie. Preghiamo affinché la grazia che sgorga incessantemente e a dismisura dal Cuore trafitto di Nostro Signore Risorto raggiunga i loro cuori per guarirli e raggiunga i cuori di tutti per ristabilire l'ordine della giustizia con il suo frutto che è l'armonia e la pace. Uniti al Cuore Immacolato di Maria e sotto la protezione paterna del Cuore purissimo di San Giuseppe, mettiamo ora i nostri cuori completamente nel Cuore glorioso e trafitto di Gesù, mentre Egli rende sacramentalmente presente per noi il suo Sacrificio sul Calvario. Che i nostri cuori, purificati da ogni peccato e animati dall'amore divino nel Sacro Cuore di Gesù, siano un tutt'uno con i cuori di tutti i nostri fratelli e sorelle, specialmente di quelli più bisognosi. Il nostro agnello pasquale, Cristo, è stato immolato, alleluia. Festeggiamo dunque la Pasqua con i pani azzimi in purezza e verità, alleluia, alleluia, alleluia[9]. Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Così sia. Raymond Leo Cardinale BURKE [1] "Pascha nostrum immolatus est Christus, alleluia: itaque epulemur in azymis sinceritatis et veritatis. Alleluia, alleluia, alleluia". "Dominica Resurrectionis: Communio", Missale Romanum ex Decreto Sacrosancti Concilii Tridentini restitutum Summorum Pontificum cura recognitum, Editio iuxta typicam. [Missale Romanum]. Traduzione italiana: “Domenica di Pasqua Resurrezione del Signore: Ant. alla Comunione", Gaspare Lefebvre, Messale Romano Quotidiano, ed. Apostolato Liturgico di Genova (Marietti Editori Ltd., 1963), p. 546. [Messale Romano Quotidiano]. Cfr. 1 Cor 5, 7-8. [2] Mc 16, 6. [3] 1 Cor 15, 20. [4] " « Il est ressuscité; il n'est pas ici » : un mort que des mains pieuses avaient étendu là, sur cette table de pierre, dans cette grotte; il s'est levé et tout à coup, sans même déranger la pierre qui fermait l'entrée, il s'est élancé dans une vie qui ne doit plus finir. Personne ne lui a apporté la sécurité, aucun prophète, aucun envoyé de Dieu n'a épinglé le cadavre pour le ramener à la vie. C'est lui-même qui, par sa propre vertu, est ressuscité. Pour lui la mort n'a pas été une nécessité; l'a subie, parce qu'il l'a voulu; l'a brisée, quand'il l'a voulu. O Jésus qui vous jouez de la mort, vous êtes le Seigneur notre Dieu". Prosper Guéranger, L'Année liturgique, Le Temps Pascal, Tome I, 21ème éd. (Tours: Maison Alfred Mame et Fils, 1926), p. 194. [Guéranger]. Traduzione italiana: Prosper Guéranger, L’Anno liturgico, Volume III, Il Tempo Pasquale, tr. Lea Roberti (Alba [Cuneo]: Edizioni Paoline, 1957), p. 43. [5] "O sacrum convivium, in quo Christus sumitur: recolitur memoria passionis eius, mens impletur gratia, et futurae gloriae nobis pignus datur". Enchiridion Indulgentiarum. Normae et Concessiones, ed. 4ª (Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1999), p. 55, n. 7. Traduzione italiana: Messale Romano Quotidiano, p. 1776. [6] Lc 12, 35-36. [7] "Suscipe, quaesumus, Domine, preces populi tui cum oblationibus hostiarum : ut paschalibus initiata mysteriis, ad aeternitatis nobis medelam, te operante, proficient". "Dominica Resurrectionis: Secreta", Missale Romanum. Traduzione inglese: "Domenica di Pasqua Resurrezione del Signore:: Secreta", Messale quotidiano, p. 546. [8] "Le people saint tout entier va s'asseoir au banquet pascal; l'Agneau divin convie tous les fidèles à se nourrir de sa chair; ... la sainte Église, dans le Secrête, implore pour ces heureux convives les grâces qui leur assureront l'immortalité bienheureuse dont ils vont recevoir le gage". Guéranger, p. 196. Traduzione italiana dall’autore. [9] "Pascha nostrum immolatus est Christus, alleluia: itaque epulemur in azymis sinceritatis et veritatis. Alleluia, alleluia, alleluia". "Dominica Resurrectionis: Communio", Missale Romanum. Traduzione italiana: “Domenica di Pasqua Resurrezione del Signore: Ant. alla Comunione", Messale Romano Quotidiano, p. 546. Cfr. 1 Cor 5, 7-8.
  17. Hebdomada Sancta, Feria V in Cœna Domini Sacellum Immaculatae Conceptionis Seminarium Sancti Philippi Neri Gricigliano 6 Aprilis 2023 Epistola: 1 Cor 11, 20-32 Evangelium: Jn 13, 1-15 Omelia Abbiamo iniziato questo giorno santissimo con la preghiera delle Tenebrae, fissando lo sguardo sul Mistero della Fede che celebriamo solennemente al termine della nostra osservanza della Quaresima ed entriamo nel Tempo della Passione, nella Settimana Santa e, oggi, nel Triduo Sacro. È il Mistero dell'Incarnazione Redentrice, la realtà più profonda della nostra vita. È la verità viva e permanente che Dio Figlio si è incarnato nel seno immacolato della Vergine Maria per offrire la Sua vita per la nostra salvezza eterna, per ottenere per noi il dono incommensurabile e incessante dello Spirito Santo, il dono della grazia divina, sgorgando dal Suo Cuore glorioso trafitto nei nostri cuori. Fissando lo sguardo sul Mistero della Fede, affrontiamo l'apparente annientamento di Dio Figlio incarnato, l'apparente vittoria dei suoi nemici, di Satana, “omicida fin dal principio” e “bugiardo e padre della menzogna” [1], con la Sua Passione crudele e morte ignominiosa sulla Croce. Ma la fede nella Divina Provvidenza mostra la realtà ancora più profonda e duratura della Sua vittoria sul peccato e sulla morte, della Sua gloria alla destra del Padre e della Sua presenza costante nella Chiesa mediante la Sua Risurrezione, Ascensione e invio del Spirito Santo a Pentecoste. Commentando il quinto salmo delle Tenebrae di oggi, Dom Prosper Guéranger ci aiuta a riflettere più profondamente e pienamente su ciò che ci insegna il Mistero della fede. Scrive Dom Guéranger: Il quinto salmo trasmette un insegnamento morale che, se ascoltato, correggerebbe molti falsi giudizi sul mondo. Accade spesso che gli uomini si sentano scossi vedendo prosperare i malvagi e afflitti i virtuosi. Fu la tentazione che vinse gli apostoli, quando, vedendo il loro divino Maestro nelle mani dei suoi nemici, persero la fede in Lui come il Messia. Il salmista ammette di essere stato lui stesso turbato dallo stesso tipo di pensiero; ma Dio lo ha illuminato per vedere la verità, che se la divina Provvidenza permette all'iniquità di trionfare per un certo tempo, verrà sicuramente il giorno in cui punirà i malvagi e vendicherà i giusti che hanno subito la persecuzione[2]. La verità è espressa nel Graduale, tratto dalla Lettera di san Paolo ai Filippesi, che reciteremo frequentemente in questi giorni santi dell'Anno liturgico: Cristo si è fatto obbediente per noi fino alla morte, fino alla morte di croce. Per questo motivo anche Dio lo ha esaltato e gli ha dato un nome che è al di sopra tutti i nomi[3]. La Divina Provvidenza ci rivela che Dio non vuole ma permette certi mali, per renderci evidente il peccato del mondo, mentre è sempre all'opera per compiere la Sua opera salvifica, per portare a compimento la missione di salvezza, della vittoria definitiva sul peccato e sulla morte, per la quale ha mandato nel mondo il Suo Figlio unigenito assumendo la nostra carne umana. Celebriamo questa sera l'istituzione della Santa Eucaristia e del Santo Sacerdozio, di cui essa è la ragion d'essere. La nostra meditazione sulla volontà tollerante di Dio ci aiuta a conoscere più pienamente e ad amare più ardentemente l'azione di Cristo in nostro favore nei Sacramenti della Santa Eucaristia e del Santo Sacerdozio. Nella loro istituzione, riflettiamo su come Dio permise il sacrificio cruento sul Calvario, affinché ci fornisse sempre il suo frutto, la salvezza eterna, attraverso il Sacrificio incruento della Messa e il suo frutto, la Santa Comunione della Divinità, del Corpo, del Sangue ed dell’Anima di Cristo. Con la nostra partecipazione alla Santa Messa, con l'unione dei nostri cuori al Cuore Eucaristico di Gesù, adempiamo nel modo più perfetto la nostra preghiera dell'Introito, tratta dalla Lettera di san Paolo ai Galati: “Ma ci conviene gloriarci nella croce di nostro Signore Gesù Cristo: in lui è la nostra salvezza, vita e risurrezione; dal quale siamo stati salvati e liberati” [4]. Richiama le parole della consacrazione del Preziosissimo Sangue: “Poiché questo è il Calice del Mio Sangue del nuovo ed eterno Testamento, il Mistero della Fede; che sarà versato per voi e per molti in remissione dei peccati»[5]. Quante volte siamo confusi dai mali che assillano noi personalmente, assillano il mondo e assillano il Corpo mistico di Cristo. Nel tempo presente, noi, come membra vive della Chiesa, soffriamo con Essa mentre è lacerata dalle menzogne i cui frutti sono divisione, eresia, apostasia e scisma. Ci scandalizziamo giustamente assistendo agli attacchi alla Chiesa da parte di coloro che si definiscono cristiani e, soprattutto, di coloro che si sono consacrati per essere veri pastori del gregge. Siamo tentati, come lo furono gli Apostoli, a perdere la fede in Cristo e nella Sua promessa di rimanere sempre con noi nella Chiesa «fino alla fine dei tempi»[6]. Sappiamo da chi vengono le menzogne che assalgono la fibra stessa della nostra vita nella Chiesa: da Satana, il Maligno. Ma Cristo non mente. È sempre all'opera, usando le bugie di Satana per renderci consapevoli della corruzione che è entrata nella vita della Chiesa e portandoci a rimanere Suoi fedeli “collaboratori nella verità”.[7] Quando siamo tentati di scoraggiarci, di dubitare della presenza viva di Cristo con noi nella Chiesa, ricordiamoci di essere compagni dei tanti che hanno eroicamente seguito Cristo nel passato e dei tanti che oggi stanno facendo lo stesso nella Chiesa. Ascoltiamo ancora una volta l'esortazione divinamente ispirata contenuta nella Lettera agli Ebrei: « Anche noi dunque, circondati da tale moltitudine di testimoni, avendo deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti,2 tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento. Egli, di fronte alla gioia che gli era posta dinanzi, si sottopose alla croce, disprezzando il disonore, e siede alla destra del trono di Dio." [8] Così possiamo vivere ogni giorno la realtà della nostra comunione con Cristo nel Santo Sacrificio della Messa che Egli infallibilmente offre per noi attraverso coloro che ha consacrato come Suoi fratelli nel Santo Sacerdozio. Non dubitiamo, non diamo posto nei nostri cuori allo scoraggiamento, ma mettiamo i nostri cuori, uniti al glorioso Cuore Immacolato di Maria e al Cuore Purissimo di San Giuseppe, senza riserve nel Cuore glorioso e trafitto di Gesù. Possano i nostri cuori essere colmi dei sentimenti espressi da Dom Guéranger a conclusione del suo lungo commento sulla ricchezza della Sacra Liturgia odierna: Che giornata è questa che abbiamo trascorso! Com'è pieno dell'amore di Gesù! Ci ha dato il suo corpo e il suo sangue perché fossero il nostro cibo; Ha istituito il sacerdozio del nuovo Testamento; Ha effuso sul mondo le istruzioni più sublimi del suo Cuore amoroso. Lo abbiamo visto lottare con i sentimenti della debolezza umana, mentre guardava il calice della Passione che gli veniva preparato; ma ha trionfato su tutto, per salvarci. Lo abbiamo visto tradito, incatenato e condotto prigioniero nella città santa, per consumare il suo sacrificio. Adoriamo e amiamo questo Gesù, che avrebbe potuto salvarci con una e la più piccola di tutte queste umiliazioni; ma il cui amore per noi non era soddisfatto se non beveva fino in fondo il calice che aveva accettato dal Padre[9]. Uniti a Cristo nel Sacrificio eucaristico, riceviamo in abbondanza la grazia di abbracciare totalmente le nostre sofferenze e le sofferenze della Chiesa e del mondo per amore di Dio e del prossimo, fiduciosi nella vittoria di Cristo. “Ma ci conviene gloriarci nella croce del nostro Signore Gesù Cristo: in lui è la nostra salvezza, vita e risurrezione; dal quale siamo stati salvati e liberati” [10]. Nel nome del Padre, e del Figlio, e dello Spirito Santo. Amen. Raymond Leo Cardinale BURKE [1] GV 8, 44. [2] “Le cinquième Psaume renferme une leçon moral destinée à réformer les idées du monde. Souvent il arrive que les hommes se scandalisent en voyant le triomphe des pécheurs et l’humiliation des justes. Ce fut en ces jours l’écueil des Apôtres, que désespérèrent de la mission de leur maitre, lorsqu’ils le virent aux mains de ses ennemis. Le Psalmiste confesse que cette tentation l’a aussi ébranlé ; mai il n’a pas tardé à reconnaître que si Dieu laisse pour un temps dominer l’iniquité, il vient au jour marqué, pour punir les méchants, et venger le juste qu’ils avaient abreuvé d’amertumes.” Prosper Guéranger, L’Année liturgique, La Passion et la Semaine Sainte, 27ème éd. (Tours: Maison Alfred Mame et Fils, 1924), pp. 352-353. Traduzione inglese: Prosper Guéranger, The Liturgical Year, Passiontide and Holy Week, tr. Laurence Shepherd (Fitzwilliam, NH: Loreto Publications, 2000), pp. 318-319. [3] “Christus factus est pro nobis obediens usque ad mortem, mortem autem crucis. Propter quod et Deus exaltavit illum: et dedit illi nomen, quod est super omne nomen.” “De Missa Solemni Vespertina in Cena Domini: Graduale,” Missale Romanum ex Decreto Sacrosancti Concilii Tridentini restitutum Summorum Pontificum cura recognitum, Editio iuxta typicam. [Missale Romanum]. Traduzione inglese: “The Mass of the Last Supper: Gradual,” The Daily Missal and Liturgical Manual with Vespers for Sundays and Feasts, Summorum Pontificum edition (London: Baronius Press, 2012), p. 550. Cf. Phil 2, 8-9. [4] “De Missa Solemni Vespertina in Cena Domini: Antiphona ad Introitum.” Missale Romanum. Traduzione inglese: The Daily Missal, p. 548. Cf. Gal 6, 14. [5] “Hic est enim Calix Sanguinis mei, novi et aeterni Testamenti : Mysterium fidei : qui pro vobis et pro multis effundetur in remissionem peccatorum.” “Canon Missae,” Missale Romanum. Traduzione inglese: “The Canon of the Mass,” The Daily Missal, p. 945. [6] Mt 28, 20. [7] 3 Gv, 8. [8] Eb 12, 1-2. [9] “Cette journée est assez remplie des bienfaits de notre Sauveur : il est nous a donné sa chair pour nourriture ; il a institué le sacerdoce nouveau ; son cœur s’est ouvert pour nous dans les plus tendres épanchements. Nous l’avons vu aux prises avec la faiblesse humaine, en face du calice de sa Passion, triompher de lui-même pour nous sauver. Maintenant le voilà trahi, enchaîné, conduit captif dans la ville sainte, pour y consommer son sacrifice. Adorons et aimons ce Fils de Dieu, qui pouvait, par la moindre de ces humiliations, nous sauver tous, et qui n’est encore qu’au début du grand acte de dévouement que son amour pour nous lui a fait accepter.” Guéranger, p. 454. Traduzione inglese: GuérangerEng, p. 410. [10] “De Missa Solemni Vespertina in Cena Domini: Antiphona ad Introitum.” Missale Romanum. English translation: The Daily Missal, p. 548. Cf. Gal 6, 14.
  18. Domenica di Passione [delle Palme]. Cappella dell'Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria Pontificio Collegio Nordamericano, Roma 2 aprile 2023 Is 50, 4-7 Sal 22, 8-9. 17-18. 19-20. 23-24 Fil 2, 6-11 Mt 26, 14-27, 66 Omelia Sia lodato Gesù Cristo, ora e sempre . Amen. L'osservanza dei giorni più sacri dell'anno liturgico inizia opportunamente con la processione che ricorda l'ingresso trionfante di Cristo a Gerusalemme per celebrare la Sua ultima Pasqua, quella che Egli ha trasformato per sempre con la Sua passione, morte, risurrezione e ascensione. San Paolo nella Lettera ai Filippesi esprime il grande mistero che iniziamo a celebrare oggi e che celebreremo durante tutta la Settimana Santa: Cristo, Dio Figlio incarnato, che «si fece obbediente fino alla morte, fino alla morte di croce»,[1] è seduto la destra del Padre, «è il Signore, a gloria di Dio Padre».[2] Cristo è davvero il Re del Cielo e della Terra. Cristo rivelò la Sua gloria regale donandosi nelle mani di coloro che lo deridevano, lo torturavano crudelmente e poi lo giustiziarono nel modo più ignominioso possibile all’epoca. Si consegnò alla sofferenza e alla morte, sapendo che “non sarebbe stato deluso”,[3] poiché era stato inviato da Dio Padre per adempiere la promessa del Padre di salvezza eterna. Oggi portiamo le palme benedette e acclamiamo Cristo come nostro Re, sapendo che la sua Regalità si esercita con l'effusione della Sua vita per noi sul Calvario, resa sempre nuova nel Sacrificio eucaristico che offriamo. Quando Nostro Signore Gesù Cristo era morto per noi sulla croce, il Suo cuore regale fu trafitto dalla lancia del soldato romano, segno dell'effusione di tutta la Sua vita per la nostra salvezza eterna; il suo glorioso Cuore Reale rimane eternamente trafitto, aperto, per ricevere la nostra adorazione, i nostri cuori, e per trasformarli con l'incommensurabile e incessante effusione della grazia divina, rendendo i nostri cuori come i Suoi nell'amore puro e disinteressato. Dopo la Santa Messa di oggi, prendiamo con noi la palma benedetta e la intronizziamo accanto al crocifisso o all'immagine del Sacro Cuore di Gesù, perché ci ricordi, ogni giorno e per tutto il giorno, di donare completamente il nostro cuore a Gesù Cristo, nostro Signore e Re. Come oggi abbiamo accompagnato misticamente nostro Signore nel Suo ingresso glorioso in Gerusalemme, così accompagniamolo anche, lungo tutta la Settimana Santa, sulla Via Crucis, cammino della Sua gloria eterna e pegno della stessa gloria che Egli ha vinto per noi come nostra eredità duratura. Lasciamo che la nostra unione con Cristo durante questi giorni santissimi diventi la forma della nostra vita quotidiana, come Nostro Signore ci insegna nel Vangelo: "Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua".[4] Oggi e durante tutta la Settimana Santa, riflettiamo sul mistero della sofferenza e della morte di Cristo, il mistero del Suo cuore regale, trafitto dopo che ha dato la Sua vita per noi sulla croce. Riflettendo sulla Via Crucis, uniamo alle sofferenze di Cristo le sofferenze che sopportiamo nella nostra vita e le sofferenze dei nostri fratelli e sorelle in tutto il mondo. In modo particolare, uniamo alle sofferenze di Cristo le sofferenze del Suo Corpo Mistico, la Chiesa, che sta attraversando un tempo di confusione ed errori pervasivi, con i loro frutti che sono la divisione, l'apostasia e lo scisma. Unendo le nostre sofferenze alla passione e morte di Cristo, preghiamo per noi stessi e per i nostri fratelli e sorelle nella Chiesa e nel mondo, affinché possiamo avere un cuore indiviso, un cuore totalmente unito al Cuore di Gesù, un cuore umile che non fa sfigurare, perché appartiene completamente a Dio, confidando nella sua Provvidenza e pregando: “Ma tu, o Signore, non stare lontano! O mio aiuto, affrettati in mio aiuto”.[5] In piedi misticamente con San Giovanni Apostolo ed Evangelista ai piedi della croce di Nostro Signore, possano i nostri cuori essere tutt'uno con il Cuore Immacolato di Maria. Possano essere totalmente per Cristo. Possano sempre ascoltare il consiglio materno della Madre di Dio, la Madre della Divina Grazia, ai suoi figli in difficoltà: "Fate quello che vi dirà".[6] Possano i nostri cuori diventare regali nel Cuore Reale di Gesù, regali in tutte le virtù di Nostro Signore, le virtù dalle quali siamo ispirati e rafforzati per dare la nostra vita per la gloria di Dio e la salvezza del nostro mondo. Meditiamo l'insegnamento di Papa San Giovanni Paolo II nella sua prima Lettera Enciclica, Redenptor Homini . Riferendosi alla realtà della regalità di Cristo nel cuore umano, ci ricorda la natura regale della nostra vita in Cristo, scrivendo: Se, alla luce di questo atteggiamento di Cristo, «essere re» è veramente possibile solo «essere servo», allora «essere servo» esige anche una tale maturità spirituale che deve essere proprio definito «essere re». Per poter servire degnamente ed efficacemente gli altri dobbiamo essere in grado di dominare noi stessi, possedere le virtù che rendono possibile questo dominio. La nostra partecipazione alla missione regale di Cristo – il suo “[ufficio] regale” ( munus ) - è strettamente legata ad ogni sfera della morale sia cristiana sia umana.[7] La Regalità di Cristo sui cuori umani non è un ideale a cui tutti sono chiamati ma che solo pochi possono raggiungere. È piuttosto una realtà della grazia divina che aiuta anche il soggetto umano più debole e provato a raggiungere un grado eroico di virtù, se solo coopera con quella grazia divina. Cristo crocifisso e risorto rinnova ora sacramentalmente per noi il Sacrificio che per primo offrì sul Calvario, il Sacrificio per il quale entrò a Gerusalemme la domenica delle Palme, il Sacrificio con cui ci ha liberati dal peccato, il Sacrificio con cui fu vinto per noi la vita eterna. Nel Sacrificio eucaristico, prendiamo con Cristo la croce, ricevendo il frutto incomparabile del Suo Sacrificio: il Suo Corpo, Sangue, Anima e Divinità, cibo spirituale per il nostro pellegrinaggio terreno verso Dio Padre. Ricevendo Cristo nella Santa Comunione, possiamo portare Cristo a tutti coloro che incontriamo, secondo la Sua promessa: «Se qualcuno ha sete, venga a me e beva. Chi crede in me, come ha detto la Scrittura, fiumi d'acqua viva sgorgheranno dal suo seno».[8] Nel nome del Padre, e del Figlio, e dello Spirito Santo. Amen. Raymond Leo Cardinale Burke Pubblicazione approvata e autorizzata dall'autore [1]Fil 2, 8, [2]Fil 2, 11. [3]Is 50, 7. [4]Mt 16, 24. [5]Sal 22, 19. [6]Gv 2, 5. [7]“Si igitur secundum illum Christi habitum vel affectum aliquis «regnare» proprie valet dumtaxat «serviendo», simul postulat illud «serviendi» officium talem maturitatem spiritualem, quae dicenda sit prorsus significare aliquem «regnare». Ut quis ideo digne efficaciterque ceteris inserviat, oportet is dominetur in semet ipsum possideatque virtutes, quae permittant, ut ita dominetur. Nostra participatio regalis missionis Christi – illius quidem «muneris regalis» – arcto vinculo cohaeret cum omni regione doctrinae moralis, tam chistianae quam etiam humanae». Ioannes Paulus PP. II, Litterae Encyclicae Redemptor Hominis , «Pontificali eius Ministerio ineunte», 4 Martii 1979, Acta Apostolicae Sedis , 71 (1979), 316, n. 21. Traduzione inglese: : Pope John Paul II, Encyclicals (Trivandrum, Kerala, India: Carmel International Publishing House, 2005), p. 1116, n. 21. [8]Gv 7, 37-38.
  19. "Mentre si accende il dibattito sulla sinodalità in vista del sinodo di ottobre, pubblichiamo il puntuale contributo del Prof. Gianvito Sibilio, dottore in storia medievale e direttore di Christianitas Rivista di Storia Pensiero e Cultura del Cristianesimo. Egli ha presentato a San Severo, il libro di Nicola Bux e Guido Vignelli, La Chiesa sinodale. Malintesi e pericoli di un "grande reset" ecclesiastico Fede&Cultura, Verona 2023". Sentendo parlare tanto spesso di sinodalità, e considerando che la parola deriva da “Sinodo”, la quale a sua volta è sinonimica di “Concilio”, è facile cadere nell’errore per cui essa rimandi all’idea di un governo collegiale della Chiesa, in una forma simile a quella che si attribuisce alle Chiese Orientali separate da Roma o anche delle Chiese sui iuris. In realtà si tratta di due cose completamente differenti, la cui distinzione è stata puntualizzata dalla Commissione Teologica Internazionale, mediante il documento La Sinodalità nella vita della Chiesa, del 2018[1]. L’espressione più qualificata del governo collegiale della Chiesa si riscontra nell’antica prassi annuale dei due Sinodi diocesani e del Concilio provinciale, dei frequenti Concili plenari delle Chiese locali e di quelli generali, che poi spesso venivano riconosciuti come Ecumenici. Essa durò a lungo ma infine fu battuta in breccia dal montante centralismo papale, per cui i vescovi, a partire dal momento in cui furono quasi tutti eletti da Roma, preferirono rivolgersi a lei per risolvere i loro problemi, piuttosto che ai loro pari. Fu così che la tradizione andò a ridimensionarsi. Ma quando nel Concilio Vaticano I, con la definizione del dogma dell’Infallibilità del Papa e del suo Episcopato Universale, la centralizzazione del potere ecclesiastico nelle mani del Romano Pontefice raggiunse il suo apice, si pose anche il problema di riequilibrare le competenze tra lui e l’Episcopato stesso. La cosa è stata risolta dal Concilio Vaticano II che, con il suo magistero supremo ed ordinario, ha insegnato la dottrina del Sacro Collegio episcopale con il Papa e sotto il Papa, al quale spetta la suprema potestà sulla Chiesa tanto quanto al Pontefice stesso da solo. Tale dottrina, la cui più qualificata applicazione è senz’altro la convocazione, di libera periodicità, dei ventuno Concili Ecumenici, ha implicato uno sforzo di maggiore attuazione pratica, ancora in corso, la cui massima espressione è stata l’istituzione del Sinodo dei Vescovi, con la costituzione apostolica Apostolica Sollicitudo, da parte di Paolo VI. Organo consultivo di composizione mista, risultante dall’elezione di delegati da parte delle Conferenze Episcopali e dalla nomina di membri di scelta pontificia, il Sinodo è stato nel 2018 riformato dalla costituzione apostolica Episcopalis Communio di Francesco, che proprio tramite tale documento ha tentato di collegare il concetto di Collegio episcopale a quello, del tutto nuovo, di sinodalità. In questa costituzione si legge infatti che l’intero popolo di Dio deve avere voce tramite i suoi vescovi (nm. 6), ridotti così a suoi portavoce. La sinodalità, come afferma anche il Documento della Commissione Teologica Internazionale, si è sviluppato proprio a partire dal Concilio Vaticano II e dal magistero che lo ha seguito, ma nonostante ciò, nella stessa sede, viene definito come specifico “modus vivendi et operandi della Chiesa Popolo di Dio che manifesta e realizza in concreto il suo essere comunione nel camminare insieme, nel radunarsi in assemblea e nel partecipare attivamente di tutti i suoi membri alla sua missione evangelizzatrice (nm. 6, 3)”. Una definizione verbosa e nebbiosa al quale il Documento dà una patina esplicitamente scorretta quando suggerisce l’idea che la collegialità episcopale sia la forma più qualificata della sinodalità della Chiesa, implicando la caduta della barriera tra sacerdozio regale dei battezzati e legale degli ordinati, oltre che subordinare il potere delle chiavi a quello, del tutto nuovo, dell’insieme dei fedeli, quasi che Dio lo consegnasse ai vescovi tramite il corpo ecclesiale e non direttamente. Il Documento tenta di ravvisare nella Scrittura come nella Tradizione i luoghi teologici di questa dottrina del tutto nuova e, in palese contraddizione con sé stesso e le sue ammissioni iniziali, cerca precedenti della sua applicazione nel corso della storia ecclesiastica, in una maniera discutibile che meriterebbe di essere approfondita altrove. Peraltro la nuova concezione sinodale sembra voler giungere all’obiettivo di trasformare la “base” dei fedeli in un autentico, per quanto ancora velato, centro decisionale, quando invece ad essa può al massimo spettare una forma di consultazione, così da non pregiudicare le prerogative del sacerdozio gerarchico, della collegialità episcopale e del primato petrino. Ciò svela il background di questa nuova dottrina, ossia, senza risalire ai precedenti di matrice protestante, il Modernismo, il Patto delle Catacombe, la Teologia della Liberazione e il Neomodernismo. Un parterre piuttosto inquietante, ma sedimentato da tempo nella formazione di larga parte del clero. La cosa ha ovviamente aperto un dibattito. Gli “innovatori” affermano che la lex credendi, nella quale tradizionalmente si convertiva quella orandi, oggi sarebbe il ricettacolo anche della lex agendi, il che porterebbe però, di epoca in epoca, alla trasformazione della morale in forme sempre nuove. Essi poi slegano il nesso esistente tra magistero e sentire dei fedeli, il sensus fidei – che rettamente inteso è un luogo teologico – concependo in senso quasi sociologico il Popolo di Dio e quindi “parlamentarizzando”, per così dire, il suo ruolo, come se si potesse prescindere dai contenuti della fede che sempre, ovunque e da tutti sono stati creduti. Ciò implicherebbe, in linea di principio, non solo che le verità di fede definite dovessero essere, eventualmente, rispiegate e nuovamente argomentate, il che è avvenuto molte volte, ma anche ridiscusse e quindi riformulate, addirittura in modi diversi e in contraddizione tra loro, il che è inaccettabile, quanto meno perché autodistruttivo per la Chiesa stessa. Per adottare questa nuova metodologia nel modo più ampio e in forma definitiva, il Papa ha convocato una Assemblea sinodale specifica, che doveva tenersi nel 2022 ma che è slittata di un altro anno. Il dibattito che ne è seguito, viziato dalle ambiguità citate che Francesco, al suo solito, non ha corretto, ha prodotto un instrumentum laboris onnicomprensivo, interpretabile in diverse maniere, applicabile in ancor più modi, incapace di garantire in senso ortodosso il futuro sviluppo di questo nuovo metodo ecclesiale. Perciò l’instrumentum è stato oggetto di opposte valutazioni: dai peana della Civiltà Cattolica alle critiche vibranti dei Cardinali Pell, Burke e Müller. Quello che sarà, non sappiamo, ma è un dato di fatto che le patenti eresie esistenti, ad esempio, nella Chiesa tedesca col suo Conciliabolo, in quella Belga e in parte di quella Americana, non sono state condannate dalla Santa Sede – che è così venuta meno al suo dovere - mentre le nomine fatte nell’organigramma decisionale, tra le quali spicca quella dell’inquietante cardinal Jean Claude Hollerich non lasciano presagire nulla di buono. Il Pontefice crede che i conflitti non vadano sopiti ma suscitati, alla ricerca di una sintesi ulteriore prossima ventura, secondo una interpretazione un poco semplificata dell’opposizione polare di Romano Guardini. L’esito catastrofico dei due Sinodi sulla Famiglia, scolpito nella monumentale ambiguità dei passaggi chiave di Amoris Laetitia, è il faro, spento, in questa navigazione tormentata. Molti pensano di poter andare avanti con sicurezza, perché si tratta della convocazione legittima di un organismo ecclesiastico legale da parte del Papa regnate, il che è tutto vero. Ma questi crismi di legalità non impediranno la tracimazione del dibattito dentro e fuori l’aula, mancando una mano forte e una mente sicura a governarlo. La Curia Romana, oggi, laddove non può immediatamente modificare l’assetto disciplinare esistente, lo fa coesistere con quello nuovo che promuove di fatto, ma non il contrario. I poteri della finanza globalista, tramite i media che controllano, vogliono ipotecare il futuro della Chiesa, allo scopo di ridurre la natalità e accentrare le ricchezze, a dispetto dello stesso Pontefice e della sua formazione, un poco stantia, nella Teologia del Pueblo, che risulta del tutto inadatta a decifrare il presente, da cui viene suo malgrado rivisitata. Antiche crisi, come quella ariana o quella monotelita, possono essere comparate all’odierna e aiutano a capirla, ma nessuna di esse rende la complessa problematicità attuale che, amplificata dall’esterno, scaturisce da dinamiche interne della Chiesa che affondano le loro radici nella crisi post conciliare e nel rinnovamento teologico degli anni centrali del secolo scorso, in primis nella svolta antropocentrica della teologia rahneriana, ma anche nell’inquinamento delle fonti operato dalle infiltrazioni di agenti comunisti del COMSURGIN a partire dagli anni quaranta del secolo scorso. In verità, il problema in questione sembra articolarsi su due livelli. Il primo è quello della metodologia proposta, supportata da un formidabile schieramento di mezzi e uomini che controllano tutto il mainstream ecclesiastico, ma che rimane, a mio avviso, fragile di una vera base dottrinale, specie agli occhi di chi ben conosca l’autentica Tradizione della Chiesa. Il suo esito dunque non può essere una primavera della Chiesa, ma un rigido inverno che, dopo averla congelata, la frantumi in mille pezzettini. Da qui si risale al secondo livello, ossia al problema della formazione del clero e dei laici, che in Occidente e nelle Americhe sono del tutto inappropriati a svolgere anche solo una funzione consultiva nel governo della Chiesa, se non fermamente regolata. Gli sviluppi della questione sono quindi tutti aperti. Del resto, negli anni sessanta e settanta un primo modello di consultazione allargata si ebbe nelle Comunità di Base, coi suoi trecentomila membri, nate all’ombra della Compagnia di Gesù, del tutto allo sbando sotto il Generalato di Arrupe. In questo modello, assimilabile anche ad altri di diversa matrice, che chiamiamo della contestazione progressista cattolica, ogni principio, pastorale canonico liturgico e dottrinale, veniva sottoposto al vaglio della comunità stessa. Se è questo il modello, la Chiesa in Occidente scomparirà. Ma è anche vero che, oltrecortina, proprio negli anni disgraziati della contestazione, nella Chiesa polacca, precisamente nell’Arcidiocesi Metropolitana di Cracovia, il Cardinale Karol Wojtyla riuniva i fedeli, i religiosi e i laici in autentici comitati di base, in cui potevano esprimersi su temi politici, economici, sociali, culturali – da cui erano esclusi dall’ateismo monopartitico della dittatura bolscevica – ma anche religiosi, in materie non di fede o non definite. La cosa era possibile perché il laicato polacco era ed è fedele alla Regula Fidei e il suo clero, solidamente formato, era stato temprato dalla persecuzione nazista e comunista. Le proposte dei comitati di base, incluse quelle religiose, venivano poi portate dall’Arcivescovo in Conferenza Episcopale e all’occorrenza anche al Sinodo di Roma. Possiamo sperare che questo modello trionfi. Ma perché ciò accada, siccome il dibattito sinodale è in corso, tutti coloro che hanno a cuore la conservazione della retta fede e della Tradizione, sia pure nel quadro di una sua crescita e sviluppo regolari, possono e devono guardare al modello polacco, propugnandolo, mentre denunciano i rischi insiti nell’altro paradigma. In tal caso la meta da raggiungere sarebbe quella di una consultazione, senza pregiudizio del potere di magistero e di ordine, nelle coordinate precise di una fede ben enunciata e, di conseguenza, anche ben vissuta. Una inculturazione accettabile della Chiesa nella post modernità, non de fide, ma congrua ad essa. E’ questo l’apporto che possiamo dare alla grande e caotica consultazione in corso, avendo lo sguardo fermo a Cristo, che è il solo a guidare la Chiesa, con la consapevolezza che Egli chiama tutti ad operare responsabilmente. Un apporto tanto più necessario, perché ad oggi il dibattito sulla cosiddetta democratizzazione della Chiesa viene condotto con metodi non democratici, coi quali un gruppo ristretto di ecclesiastici rivoluzionari, dopo aver epurato i confratelli dissidenti, predetermina le opzioni di scelta della esigua base raccolta attorno a loro, anch’essa scremata delle voci contrarie, e a cui si chiede solo apparentemente di prendere decisioni. Un metodo divisivo, nonostante la drammatica diminuzione dei praticanti, un metodo settario, che perciò va combattuto con mezzi di autentica partecipazione al dibattito che è stato aperto in modo incosciente. [1] Cfr. sul tema N.BUX-G.VIGNELLI, La Chiesa Sinodale, Verona 2023; S.MADRIGAL, Che cos’è il cammino sinodale? Il pensiero di Papa Francesco, in La Civiltà Cattolica IV (2021), pp. 17-33; C.FANTAPPIE’, Metamorfosi della sinodalità, Roma 2023; A.MARTIN, Quale sinodalità, Brescia 2021; G.MÜLLER, In buona fede, Milano 2023; J. RATZINGER – BENEDETTO XVI, Questions about the Structure and Duties of the Synod of Bishops, in Communio, 48 (2021); pp. 70-78; si veda anche l’intervista di R.L.BURKE a LifeSiteNews, 18 ott. 2015, pubblicata in italiano su Scuolaecclesiamater.org; e G.PELL, The Catholic Church must free itself from this nightmare, su The Spectator, 10 gen. 2023, pubblicata in italiano su aldomariavalli.it.
  20. Sintesi In questo articolo vedremo le ragioni per le quali la conoscenza, così com’è concepita da San Tommaso e da Aristotele, presuppone un rispetto di tutti gli esseri come titolari di una natura e di prerogative indipendenti dall’intelletto dell’uomo. L’intelletto dei pensatori moderni e contemporanei, invece, è giunto a teorizzare che non debba essere il nostro intelletto ad adeguarsi alle cose, ma il contrario. Si comprende già, dunque, che San Tommaso e Aristotele riconoscono all’intelletto la capacità di aprirsi alle cose e di non chiudersi in se stesso. Ciò è fondamentale, per giungere alla verità in un dialogo non fittizio con il mondo reale e gli altri uomini, con i loro pensieri o teorie. Inoltre, è proprio questo modo di concepire l’intelletto umano, che ha permesso a San Tommaso di concepire le teorie scientifiche come mutevoli, in base alle nuove osservazioni sperimentali che avvengono nel corso dei secoli. Tanto che, secoli prima rispetto agli studi galileiani, San Tommaso scrisse, a proposito delle «ipotesi» legate alla teoria tolemaica, che era in pieno vigore al suo tempo, che esse avrebbero potuto essere superate, qualora gli uomini avessero scoperto, mediante l’osservazione, un altro modo di spiegare i fenomeni che si osservano in cielo. L’attualità di San Tommaso, dunque, è soprattutto epistemologica, cioè basata sul suo modo di concepire l’origine e gli elementi primi, per così dire, della conoscenza e il rapporto che essa ha con la realtà. 1) Premessa Scrivendo sull’attualità di San Tommaso, il Fiorentino la fa consistere principalmente nella sua epistemologia e metodologia[i]. Infatti, soprattutto nel caso dell’epistemologia, un’impostazione non corretta avrà conseguenze anche nella metodologia. Inoltre, l’epistemologia può contribuire a isolare il pensiero in se stesso, portando a una contrapposizione insuperabile tra teorie e scuole filosofiche diverse. Ed è ciò che è accaduto tra i moderni e tra i contemporanei, tra i quali le teorie filosofiche contrapposte coesistono in modo sincronico; a differenza di quanto accade nelle scienze naturali[ii], nelle quali, in genere, la teoria più attuale porta ad abbandonare o, almeno a ridimensionare, le teorie precedenti sul medesimo argomento. Le teorie filosofiche tutte chiuse nel proprio guscio ideologico, senza nessun aggancio ai problemi reali, giungono poi a suscitare nelle persone, impegnate in problemi concreti, un senso di astrusità; cosa questa che non è utile, d’altra parte, nemmeno alle scienze naturali. E ciò, in alcuni autori moderni diventa evidente, in quanto è esplicitamente detto nelle loro stesse opere. Per Berkeley, per es., «gli scienziati si divertono inutilmente quando cercano una qualsiasi causa efficiente naturale che non sia una mente o uno spirito»[iii]. Parole, nelle quali, si vedono chiaramente le conseguenze di un’epistemologia che vede l’intelletto chiuso in se stesso e la realtà esterna diventa nient’altro che il prodotto della mente. Tale chiusura sembra consistere, dunque, soprattutto a partire da Cartesio e fino a Kant e ai nostri contemporanei, in un rifiuto di confrontarsi con la realtà delle cose esterne alla mente. Meglio detto, si nega l’esistenza di una comunicazione dell’intelletto con la realtà esterna, già all’origine dell’atto del conoscere. Per questo è un problema epistemologico, cioè riguardante le primissime operazioni dell’intelletto e, prima fra tutte, la sua capacità di attingere in modo immediato il dato reale. Poiché, invece, la metodologia riguarda le operazioni successive, per questo va notato che, nella modernità ciò che presenta dei problemi non è tanto la funzione discorsiva e metodologica dell’intelletto, ma soprattutto la prima operazione dell’intelletto, che in essi è, molto frequentemente soppressa o quanto meno gravemente compromessa. Eppure stiamo parlando della capacità dell’intelletto di cogliere il ciò che è della cosa, e quindi la sua natura e le sue leggi; la capacità stessa dell’intelligere, da cui, dopo tutto, l’intelletto prende il nome e da cui ha inizio ogni altra sua attività conoscitiva. In effetti, affinché si dia la conoscenza, si devono attuare tre condizioni: 1) un soggetto con facoltà atte a conoscere; 2) oggetti esistenti e ben definiti fuori dalla mente, cioè titolari di un proprio atto d’essere; 3) e, infine, l’atto originario e immediato del conoscere, affinché il soggetto conoscente entri attualmente in relazione con l’oggetto conosciuto. 2) I soggetti come titolari dell’atto d’essere Il secondo e il terzo punto sono estremamente deficitari nel modo di pensare dei moderni, quando non del tutto assenti. Ebbene, quanto alla seconda delle tre cose elencate, bisogna dire che è necessario che l’intelletto umano non diventi esso il creatore, per così dire, assoluto della realtà, quasi che non esista nulla al di fuori della mente. Abbiamo, infatti, detto, quanto sia importante che l’uomo non rimanga chiuso nel proprio intelletto e nelle proprie teorie filosofiche e scientifiche. Perciò, l’intelletto necessita delle cose in quanto esistenti autonomamente e all’esterno della mente, e possano essere, così, il metro comune a tutti gli uomini, per rendere concreta, oltretutto, anche la possibilità del dialogo tra loro e non la chiusura reciproca nella propria ideologia. Tra i moderni, tuttavia, alcuni negano, anche molto radicalmente (si è già detto di Berkeley) che esistano oggetti esterni alla mente. Altri – tra i quali Kant è stato, forse, il più influente – stabiliscono invece, in modi diversi, che è controproducente, per la nostra conoscenza «regolarsi sugli oggetti»[iv]. Ciò che va notato, in quest’ultima espressione, così significativa della svolta dei moderni, è che in quel brano capitale della sua produzione filosofica[v], Kant intende occuparsi del mondo del pensiero (le capacità e i limiti dell’intelletto), ma egli ne parla come se ciò fosse l’ambito di cui è competente la «metafisica»[vi], che invece, per Aristotele o San Tommaso, non riguarda affatto il mondo del pensiero. Ciò significa che Kant – come accade per molti altri moderni –, con metafisica intende qualcosa di diverso. Per Aristotele, la metafisica è «una scienza che studia ciò che è in quanto ciò che è»[vii], cioè l’ente. L’oggetto della metafisica non è affatto il pensiero, ma ogni cosa che sia titolare dell’atto di essere, ogni ente, ogni cosa che esiste. Se una cosa non esiste, dunque, per Aristotele non è un’oggetto di cui si occupa la metafisica. E, inoltre, essa studia gli esseri (o enti) non sotto qualsiasi punto di vista, ma prima di ogni loro proprietà, essa li studia proprio in quanto esistono, in quanto enti, sotto lo specifico punto di vista della loro natura di esistenti, prima ancora di studiarne qualsiasi altra loro proprietà o modo di essere posteriore a questo primissimo dato. Le cose sono, prima di tutto, titolari di un’esistenza autonoma e indipendente dal pensiero. Questo dato è talmente originario, che l’intelletto, non potrebbe concepire nulla di una cosa e nemmeno ragionare su di essa, se prima di tutto non apprendesse, di ogni singola cosa, questa primissima proprietà e natura: che è un ente[viii]. Studiare l’ente in quanto ente, dunque, significa, voler conoscere quelle proprietà che per natura appartengono ad ogni ente o esistente, non in quanto ente fisico o pensato o vivente ecc., che sono tutti modi di essere di enti; ma significa voler capire quelle proprietà che appartengono all’ente «per sé stesso»[ix], cioè «per la sua stessa natura»[x], cioè la natura di ente o esistente. Ed è in ciò, cioè riguardo all’oggetto stesso e, quindi all’essenza della metafisica, che Kant si differenzia completamente. Metafisica, in Kant, significa tutt’altra cosa, cioè, come si evince dal brano citato, essa sabra piuttosto una scienza che si occupa del pensiero e delle leggi del pensiero. In effetti, per Kant la metafisica è sganciata dall’esistente, e si occupa piuttosto della nostra mente, più specificamente dei «fondamenti primi [ersten Gründe] della nostra conoscenza»[xi]. Questa nozione di metafisica, Kant l’aveva desunta e insegnata basandosi su un opera di metafisica del Baumgarten, che a sua volta la desumeva dal Wolff, per il quale, com’è noto, la filosofia è la scienza del pensabile. Anche soltanto seguendo questi tre pensatori moderni, dunque, si nota che l’oggetto esterno non è più richiesto tra le tre condizioni della conoscenza sopra elencate e che la Metafisica stessa diventò, per questi ed altri autori, un discorso razionale riguardante l’ente e non una scienza di tutto ciò che esercita autonomamente e attualmente l’atto di essere. Sicché, quando ci si accosta a un autore moderno, uno finisce sempre per chiedersi se, per quell’autore, esistono le cose oggetto di conoscenza di cui egli parla e anche in che modo, per lui, esse esistano. Ciascuno di questi autori ha risposte proprie a tal proposito, ma li accomuna il fatto che, nel loro modo di pensare, se si fa attenzione, le cose potrebbero non essere titolari di diritto di una propria esistenza, ma di un’esistenza dipendente dall’intelletto umano. E tuttavia, in questo modo di pensare, all’inizio non si è voluto esaltare le capacità dell’intelletto, ma anzi limitarle. Infatti, ciò che ha ulteriormente contribuito in questo processo, è che proprio l’intelletto è stato privato della sua prima prerogativa. La prima delle operazioni dell’intelletto umano, infatti, è quella di una capacità di attingere immediatamente il ciò che è della cosa, allo stesso modo in cui, per es., l’occhio percepisce immediatamente il colorato. Ed è questa la terza condizione elencata sopra, affinché si dia la conoscenza: che all’origine ci sia un atto conoscitivo che entra in contatto immediato con l’essenza della cosa esistente al di fuori della mente. 3) La prima operazione dell’intelletto in rapporto alle altre due C’è una differenza tra ciò che avviene originariamente e secondariamente nelle operazioni dell’intelletto; tra quando, cioè, incontro e conosco per la prima volta una cosa e quando la rivedo e la riconosco oppure quando, mediante le cose già conosciute, sviluppo ragionamenti con cui giungo a nuove conclusioni e conoscenze. Ciò che riguarda la prima fase della conoscenza costituisce l’epistemologia insegnata da un autore (prima e seconda operazione dell’intelletto), ciò che invece riguarda i ragionamenti (discorsi, sillogismi, nuove conclusioni ecc.) riguarda la sua metodologia, ciò che accade secondariamente (terza operazione dell’intelletto). In realtà, posti i princìpi epistemologici di un autore, il metodo né costituisce la conseguenza inevitabile in tutti gli autori. La terza operazione dell’intelletto, infatti, lavora coerentemente con le premesse, ragionando a partire da esse e, traccia così la via utilizzata o insegnata da un dato autore. Posti dei princìpi, siano essi veri e reali oppure irreali e falsi, la ragione è uno strumento che lavora nello stesso modo con i dati offertigli dall’intelletto all’inizio, lei fa il suo e svolge semplicemente il tema fino alle ultime conclusioni. Nella sua prima operazione, quando originariamente conosce una cosa, l’intelletto umano ha bisogno innanzitutto dei sensi esterni. E successivamente avrà bisogno di alcune facoltà sensitive interne, come l’immaginazione. Infatti, nello stato della vita presente, noi, anche quando ragioniamo su cose già conosciute, ci facciamo delle raffigurazioni sensibili. Per es., i famosi luoghi di Cicerone, sono un espediente raffigurativo che sorge da questa nostra necessità, in quanto lui, per concatenare i discorsi senza dimenticare nulla, si raffigurava dei luoghi a lui familiari, come le stanze della sua casa, per mantenere l’ordine dei concetti e ragionamenti che esprimeva durante un’orazione tenuta davanti a un pubblico. Con ciò, benché siano necessari i sensi esterni quando primariamente conosciamo qualcosa, per acquisirne «gli accidenti esterni»[xii], tuttavia, scrive San Tommaso, «soltanto l’intelletto attinge l’interno e l’essenza della cosa»[xiii]. Quando io vedo Socrate la prima volta, ne ricavo sì i dati sensibili che si fissano e si conservano in un’immagine, detta tecnicamente fantasma; ma è l’intelletto che, da questi dati sensibili ricava e imprime, per così dire, in se stesso l’essenza della cosa. Con la seconda operazione, poi, l’intelletto, avendo, per così dire, ricevuto l’essenza della cosa, come l’occhio riceve il colorato, enuncia un giudizio attribuendo a quel dato soggetto quella data essenza che egli ha riscontrato osservando la cosa. Di Socrate, per es., la prima volta che lo incontro, i sensi colgono solo il colore, l’odore ecc.; mentre l’intelletto dai dati sensibili, che vengono incamerati nell’immaginazione, ricava riguardo al soggetto Socrate, molto di più: prima di tutto che è un ente, un animale, un animale razionale e così via. Nella seconda operazione l’intelletto si pronuncia su quanto ha rilevato ed emette, si dice, un’enunciazione o giudizio. Cioè attribuisce a Socrate ciò che gli spetta da quanto l’intelletto ha rilevato esserci in esso. Da questa operazione provengono le frasi pronunciate dalle nostre corde vocali, quelle con la copula è: Socrate è (cioè: esercita l’atto di essere); Socrate è un’uomo ecc. Ciò che accade nel ragionamento, invece, cioè nella terza operazione dell’intelletto, non riguarda più questo contatto immediato dei sensi e poi dell’intelletto, ma, scrive san Tommaso, una volta che ne ha ricavato l’essenza e ha stabilito che essa appartiene a un determinato soggetto e ad altri soggetti come quello, l’intelletto «a partire dalle essenze delle cose, svolge operazioni diverse attraverso il ragionamento e la ricerca»[xiv]. E quando svolge questa sua terza operazione, l’intelletto è meglio conosciuto con un altro nome, cioè quello di ragione. 4) Cosa è accaduto nell’intelletto dei moderni Nei moderni, tuttavia, viene a mancare il momento originario della conoscenza, quello per il quale l’intelletto si apre sul mondo delle cose attualmente esistenti. Anzi, i moderni, non solo iniziano le loro ricerche filosofiche, cercando di capire come funziona la ragione pura, cioè vuota di ogni dato esterno e indipendente dalla loro mente, ma essa è privata della prima operazione dell’intelletto, che permette il primo rapporto conoscitivo tra il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto. E nei moderni si giunge persino a negare fiducia, già con Cartesio, a quelle che abbiamo visto essere, nello stato della vita presente, delle finestre dell’intelletto: i sensi. Emblematico, a questo riguardo l’incipit di una celebre pagina della filosofia moderna, quello della terza meditazione di Cartesio, che si apre con la seguente risoluzione: «Ora chiuderò gli occhi, turerò le orecchie, escluderò tutti i sensi ed eliminerò dal mio pensiero anche tutte le immagini delle cose corporee»[xv]. A partire da questa risoluta decisione, si assiste ad un gran dispendio di energie mentali da parte dei più riconosciuti pensatori degli ultimi secoli a ricostruire le strutture e gli schemi di una ragione che prescinde da ogni contenuto che le provenga dal mondo esterno degli enti. Ed è così che, da qualche secolo in qua, si molti pensatori fanno ricerche e analisi sul pensiero vuoto o puro. Il punto di svolta davvero copernicana, com’egli stesso la chiama, viene raggiunto con Kant, il quale, partito con l’intento di indagare i limiti dell’intelletto, finisce per isolarlo in una sovranità assoluta rispetto agli oggetti conosciuti, i quali si ritrovano privi di qualsiasi esistenza autonoma e qualora ne avessero, l’intelletto non avrebbe nemmeno l’obbligo di regolarsi in base a questa loro autonomia, cioè adeguandosi al fatto che essi sono titolari di un loro proprio atto d’essere. Scrive, infatti, in un’altra pagina capitale del pensiero moderno: «Finora si è creduto che ogni nostra conoscenza debba regolarsi sugli oggetti; ma tutti i tentativi, condotti a partire da questo presupposto, di stabilire, tramite concetti, qualcosa a priori intorno agli oggetti, onde allargare in tal modo la nostra conoscenza, sono andati a vuoto. È venuto il momento di tentare una buona volta, anche nel campo della metafisica, il cammino inverso, muovendo dall’ipotesi che siano gli oggetti a doversi regolare sulla nostra conoscenza»[xvi]. Persino lo spazio è una nostra forma a priori e non ci dice nulla sulla reale estensione dei corpi, la loro impenetrabilità ecc. che pure sono prerogative della loro natura, tenendo conto delle quali l’uomo opera quotidianamente nel mondo e riesce a influire in molti modi su di esso. Kant inizia la sua speculazione distaccandosi dagli autori che lo avevano preceduto, sia dagli empiristi che dai razionalisti. Tuttavia ciò che accomuna tutta la modernità è il rifiuto o il sospetto (per usare un termine cartesiano) che il mondo esistente indipendentemente dalla nostra mente ci inganni. La novità dell’epistemologia di Aristotele e San Tommaso, invece, sta nel porre proprio nella capacità dell’intelletto di conoscere le cose esistenti al di fuori e indipendentemente da sé stesso il principio di ogni sapere e agire umano sulla terra. 5) Attualità o meno di un pensiero (deve servire a qualcosa) È fondamentale, per comprendere l’epistemologia e la metodologia di un autore, capire come utilizza le varie operazioni dell’intelletto, in quanto è in base ad esse che il suo pensiero è valido e, quindi, attuale, oppure no. In che modo una epistemologia e una metodologia che misconosce l’esistenza delle cose esterne e indipendenti dalla mente, può aiutare l’uomo a conoscere il mondo in modo da poterlo anche governare e ricavarne i beni necessari alla sua sussistenza, ancor prima che alla sua conoscenza. Se le cose non avessero una natura per se stesse sarebbe impossibile non solo l’agire quotidiano in vista di un certo scopo, ma sarebbe anche impossibile lo sviluppo tecnico e scientifico e quello filosofico. Anche il dialogo tra gli uomini, tra i popoli e tra le diverse scuole di pensiero sarebbe impossibile, in quanto la ragione di una certa scuola, tutta isolata e indipendente dalle cose reali e indipendenti da tale ragione, non troverebbe nessun punto di verifica esterno alle varie scuole, capace di costituire un metro di paragone delle verità che si sono costruite all’interno di una singola scuola di pensiero. Quanto alla vita quotidiana, l’esempio è presto fatto. Infatti, quale contadino pianterebbe un chicco di frumento, invece di un sasso, se non fosse certo che nel chicco di frumento c’è una legge intrinseca alla sua natura, una legge che non dipende dall’intelletto che l’ha riconosciuta ed essa non dipende nemmeno dalle mani che piantano quel seme. Si tratta di una legge intrinseca al chicco di frumento ma che invece nel sasso non c’è, perché il sasso ha in se leggi diverse da quelle della materia organica. Allo stesso modo, come potrebbero le scienze sperimentali progredire, se gli uomini non fossero certi che nel mondo ci sono delle leggi ad esso intrinseche che lo reggono sia nei singoli enti che in esso esistono che nelle loro correlazioni. Perché la storia dell’astronomia avrebbe dovuto veder contrapposti in fasi a volte contemporanee e a volte successive posizioni tanto diverse, come l’eliocentrismo e il geocentrismo, se non in base alla consapevolezza che queste teorie avevano qualcosa da dire non relativamente a ciò che c’era nella mente dei loro inventori, ma cercavano di parlare su come le cose stavano realmente all’esterno della loro mente. Ed è questa l’attualità del modo di pensare di San Tommaso, cioè della sua epistemologia e della sua metodologia. L’intelletto, per lui, non è irrigidito e isolato in un mondo interiore, e ogni conclusione o teoria può essere modificata in base a nuove osservazioni e nuovi dati provenienti dal mondo esterno alla mente. Tanto che in San Tommaso troviamo persino gli strumenti con i quali e possibile superare anche gli stessi contenuti da lui insegnati, qualora nel frattempo la ricerca fosse venuta in possessi di nuove esperienze sul mondo esterno. Infatti, a differenza di quanto avviene per le verità rivelate, per le quali il suo insegnamento va affrontato a parte, per le verità e le conclusioni scientifiche, invece, egli insegna come esse possano nel tempo modificarsi o essere completamente superate. Ciò emerge molto chiaramente in un suo testo riguardante la teoria tolemaica che, al tempo di San Tommaso, era pur sempre la teoria predominante. Ebbene, a proposito delle ipotesi (così le chiama) che si facevano a riguardo dei fenomeni celesti, qualche secolo prima delle appassionate ricerche di Galileo che misero in discussione proprio quelle ipotesi, San Tommaso scrive: «Anche se, fatte queste ipotesi, si salvino i fenomeni, tuttavia non si può dire che esse siano vere, poiché, forse, i fenomeni celesti si potrebbero [ugualmente] salvare in qualche altro modo, non ancora noto agli uomini»[xvii]. [i] Cfr. Fernando Fiorentino, Attualità di San Tommaso, Napoli, EDI, 2017, p. 6). [ii] Cfr. ib., p. 7, dove si cita Th. KUHN, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, tr. it. a cura di A. Carugo, Torino, Einaudi, 1978, p. 30. [iii] George Berkeley, Trattato sui principi della conoscenza umana, tr. it. Mario Manlio Rossi, Bari, Laterza, 1984, p. 98. Il Rossi, contrariamente ad altre traduzioni, traduce con scienziati l’originale filosofi. Infatti, «si chiamavano filosofi anche gli scienziati, in quanto la scienza era considerala una philosophia naturalis» (Giorgio Berkeley, Il Trattato sui princìpi della conoscenza umana, a cura di Adelchi Baratono, Milano, Mondadori, 1935, p. 116, n. 2). [iv] Immanuel Kant, Critica della ragion pura, B xvi; tr. it. a cura di Pietro Chiodi, Torino, UTET, 1967, p. 44. [v] Cfr. Ib. [vi] Cfr. Ib. dove la metafisica viene posta in correlazione con il problema gnoseologico di queste pagine per ben due volte in poche righe (pp. 44 s.). [vii] Arist., Metaph., IV, 1; 1003a, 21; tr. it. mia. [viii] «Ciò che prima di tutto entra nella concezione dell’intelletto, quale cosa più di tutte nota e in cui risolve tutti i concetti è l’ente – Illud quod primo intellectus concipit quasi notissimum, et in quod conceptiones omnes resolvit, est ens» (Thom., De Ver., q. 1, a. 1). In effetti, ciò che sappiamo prima di una cosa e ciò che alla fine di tutti i ragionamenti rimane un punto fermo, è il fatto che ogni cosa è qualcosa. Nessun’altra nozione e Nessun ragionamento sarebbe possibile, se non iniziando con questo dato e finendo con questo dato. Il vuoto, per l’intelletto, non è concepibile, tanto che, per parlarne, abbiamo bisogno di immaginarcelo come un estensione buia o qualche altra vaga figura. [ix] Arist., Metaph., IV, 1; 1003a, 22. [x] Come ben interpreta la traduzione del Rossi (Bari, Laterza, 1982, p. 85), che però traduce sempre τὸ ὂν con l’essere, che è un concetto astratto, mentre τὸ ὂν si riferisce a ogni concreto soggetto dell’essere in quanto tale, a ciò che esercita attualmente l’atto d’essere visto sotto l’aspetto di ciò che esercita tale atto. [xi] Untersuchung über die…, AA. II, p. 283 (trad. it., Bari, Laterza, 1982, p. 227). [xii] Thom., De Ver., I, 12. [xiii] Ib. [xiv] Ib. [xv] Cartesio, Meditazioni Metafisiche, a cura di Antonella Lignani ed Eros Lunani, Roma, Armando, 2008, p. 73. [xvi] Immanuel Kant, Critica della ragion pura, B xvi; tr. it. a cura di Pietro Chiodi, Torino, UTET, 1967, p. 44. [xvii] «Licet enim, talibus suppositionibus factis, apparentia salvarentur, non tamen oportet dicere has suppositiones esse veras; quia forte secundum aliquem alium modum, nondum ab hominibus comprehensum, apparentia circa stellas salvantur» (In Arist. de cael., lib. 2 l. 17, n. 2; ed. Marietti, Torino, 1952, n. 451, p. 226).
  21. RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO IL SEGUENTE COMUNICATO STAMPA Da questa mattina, per 15 giorni, nei pressi del Vaticano resteranno affisse alcune decine di manifesti dedicati alla Liturgia tradizionale. Un comitato di promotori, che partecipano a titolo personale pur provenendo da diverse realtà cattoliche (come i blog Messainlatino e Campari & de Maistre, e le associazioni Coordinamento Nazionale del Summorum Pontificum e Ass. San Michele Arcangelo), ha voluto rendere pubblico il profondo attaccamento alla Messa tradizionale proprio quando ne sembra programmata l’estinzione: per amore del Papa, affinché sia paternamente aperto alla comprensione di quelle periferie liturgiche che da qualche mese non si sentono più ben accette nella Chiesa, perché trovano nella liturgia tradizionale la piena e compiuta espressione della fede cattolica tutta intera. «Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso» (Benedetto XVI). La crescente ostilità nei confronti della liturgia tradizionale non trova giustificazione né sul piano teologico, né su quello pastorale. Le comunità che celebrano secondo il Messale del 1962 non sono ribelli alla Chiesa; al contrario, benedette da una costante crescita di fedeli e di vocazioni sacerdotali, costituiscono un esempio di salda perseveranza nella fede e nell’unità cattoliche, in un mondo sempre più insensibile al Vangelo, e in un tessuto ecclesiale sempre più cedevole a pulsioni disgregatrici. Per questo, l’atteggiamento di rifiuto con cui i loro stessi pastori sono oggi costretti a trattarle, non è solo motivo di acerbo dolore, che questi fedeli si sforzano di offrire per la purificazione della Chiesa, ma costituisce anche una grave ingiustizia, davanti alla quale la carità stessa impone di non tacere: «un silenzio inopportuno lascia in una condizione falsa coloro che potevano evitarla» (S. Gregorio Magno). Nella Chiesa dei nostri giorni, in cui l’ascolto, l’accoglienza e l’inclusione ispirano ogni azione pastorale, e si vuol costruire la comunione ecclesiale “con metodo sinodale”, questo popolo di fedeli comuni, di giovani famiglie, di ferventi sacerdoti, ha la fiduciosa speranza che la sua voce non venga soffocata, ma accolta, ascoltata e tenuta nella giusta considerazione. Chi va alla “Messa in latino” non è un fedele di serie B, né un deviante da rieducare o una zavorra di cui liberarsi. Il Comitato promotore (Toni Brandi, Luigi Casalini, Federico Catani, Guillaume Luyt, Simone Ortolani, Marco Sgroi) prolibertatemissalis@gmail.com
  22. In punta di piedi e sommessamente, come colui che osa sussurrare qualche banalità mentre assiste alla discussione tra due giganti, mi intrometto nel dialogo tra Don Alberto Strumia ed il Prof. Gotti Tedeschi, ringraziandoli sin d’ora per le riflessioni che hanno condiviso. Don Alberto, in prima battuta, indica in modo chiaro la “radice del problema”, evitando che certe letture sociologiche, psicologiche o ecclesiologiche falliscano il bersaglio e non arrivino alla radice della questione. Primo auspicio: che tutti possano aver chiaro chi sia il nemico, come i medici che intendano combattere la malattia e non il sintomo. Trovo, personalmente, decisivo il richiamo nella citazione del Card. Biffi: “Gesù Cristo, per trionfare giustamente e ragionevolmente dell’Anticristo, ha bisogno della nostra collaborazione”. Secondo auspicio: che tutti sentano l’esigenza di collaborare alla battaglia. Il Prof. Gotti Tedeschi, raccogliendo la splendida indicazione, sospinge la riflessione sulla strategia della battaglia, ovvero sul come si possa offrire collaborazione e partecipare al trionfo di Cristo. Senza scordare che tutto ciò accade in tempi abbastanza apocalittici, per non dire escatologici e, secondo Don Alberto (che in parte risponde alla questione posta dal professore sulla direzione dell’operato della Chiesa), e accade quando "può dirsi ormai conclusa l’epoca dei movimenti con la morte dei loro fondatori”. In nulla volendo correggere, mi premono alcune considerazioni che contribuiscano, forse, ad integrare il quadro tracciato. Uno dei protagonisti della -usando la definizione di Don Alberto- “epoca dei movimenti”, ha affermato: “Non solo non ho mai inteso "fondare" niente, ma ritengo che il genio del movimento che ho visto nascere sia di avere sentito l'urgenza di proclamare la necessità di tornare agli aspetti elementari del cristianesimo, vale a dire la passione del fatto cristiano come tale nei suoi elementi originali, e basta”. Un altro fondatore, come sintesi di una immediata e chiara comprensione, intuisce “l’obbligo" di cercare la santità: “Avevo ventisei anni, grazia di Dio e buon umore. Null’altro. E dovevo fare l’opera”. Nella storia, come non ricordare il Crocifisso che si rivolge al giovane assisano: “Su di lui, veramente poverello e contrito di cuore, Dio posò il suo sguardo con grande accondiscendenza e bontà; non soltanto lo sollevò, mendico, dalla polvere della vita mondana, ma lo rese campione, guida e araldo della perfezione evangelica e lo scelse come luce per i credenti…” (Leggenda maior). E prima di lui c’è chi, lasciando disgustato le dissolutezze romane, trascorse il suo tempo vivendo da eremita in una grotta in isolamento spirituale, generando una delle aggregazioni di cristiani più decisive per il nostro continente e per il mondo. Prima o dopo l’ultimo concilio, non credo esista, se non nel commento storico, “un’epoca dei movimenti” (…e cosa sia un movimento, quali formazioni rientrino della definizione, quali mantengano l’ortodossia, quali l’intuizione iniziale, quali l’afflato profetico… a posteri l’arduo giudizio). Esiste invece, dalla risurrezione di Cristo in poi, il tempo dei santi. Santi, ovvero pienamente uomini, che hanno involontariamente in comune, pur in epoche diverse, una strategia: un luogo preciso, una necessità precisa, alcuni volti precisi e una relazione al destino in Cristo. Nella storia del mondo e della Chiesa, il passo è segnato da Cristo attraverso i santi e i beati. Quando il buon Dio ne dona uno, in modo tanto imperscrutabile quanto imprevedibile, appare una luce per i credenti, che allora si aggregano, spiritualmente o fisicamente, intorno a quella grazia. Persino le questioni ecclesiologiche su movimenti, associazioni, opere… appaiono necessarie ma successive, per tempo e gerarchia. E poi fatico ad immaginare Benedetto nella grotta a chiedersi se il gregge debba essere piccolo o grande, o Francesco a La Verna ad arrovellarsi sul numero di possibili followers... Questo anche perché, citando Von Balthasar, “Quale sia l’estensione della fecondità di un santo rimane, almeno sulla terra, un segreto di Dio“. Occorre, quindi, capire cosa ci aiuti nel cammino verso la santità (come riconoscimento attuale della presenza di Cristo), ovvero verso la nostra piena umanità. Ma non vorrei nascondermi dietro al generico richiamo alla santità. Oggi manca, nella stragrande maggioranza dell’umanità che incontro, la coscienza delle categorie fondamentali del pensiero cattolico. Parlo volutamente di coscienza: che lo si riconosca lucidamente oppure no, la natura della radice fondamentale di ogni uomo è sempre in ogni caso e in ogni epoca ordinata al medesimo logos, quindi sempre ordinata alla creazione e, pertanto, coerente con il pensiero cattolico. Ma la coscienza della natura del proprio cuore è, più meno gravemente, offuscata. E cosa forma rettamente la nostra coscienza? Dobbiamo ristudiare Caritas in Veritate, come propone il professore? O forse, ormai giunto il momento “ratzingeriano”, dobbiamo rifugiarci in piccole comunità come suggerisce Don Alberto? Mi permetto di citare Don Nicola Bux: prima dello studio (studium come zelo, passione, ricerca, lavoro) c’è un antefatto, l’amicizia. Si studia, innanzitutto, per una amicizia (la “teologia come amicizia”, nella riflessione di Don Nicola). Per una amicizia, anzitutto con Cristo, che poi è “il” soggetto che studiamo nei rivoli delle varie materie della vita. La piccola o grande comunità in cui cercar rifugio e studiare Caritas in veritate e non solo, è l’amicizia in e con Cristo (con le armi che Lui ci ha consegnato, a partire dai sacramenti). Collaborare con il Suo trionfo è, in primo luogo, gustare la Sua compagnia e la Sua amicizia, con la certezza che questa vince il “mondo, la carne e il maligno”. Lo si chieda al Card. Van Thuan, lo si chieda a padre Kolbe: il nemico non vince neppure quando sembra lo faccia. Sopporto l’idea di un nemico a cui dar battaglia (e del grande sacrificio che una battaglia richiede) solo nella certezza dell’amico, esattamente come uno scienziato inizia una lunga e faticosa opera di ricerca solamente nella convinzione, seppure remota, che esista l’oggetto del proprio cercare. Combatto perché Lui c’è e perché Lui è proprio Lui, quel bambino che tiene nel palmo della mano l’intero universo.
  23. In questo nuovo intervento, don Alberto richiama l'importanza del metodo nel vivere la fede. Lo si trova descritto nella "Forma d'insegnamento della Scuola Ecclesia Mater" Nel precedente contributo del Prof. Gotti Tedeschi che, innanzitutto ringrazio per l’apprezzamento che ha voluto esprimere per il mio intervento dal titolo “Contro chi è la battaglia?”, apparso su Il Pensiero Cattolico, ho riconosciuto l’invito esplicito a precisare qualcosa in più in vista di una risposta alla domanda: «Che fare?». Ma mi fermerò a questa mia sola “aggiunta” al mio intervento precedente, per non correre il rischio di avviare un ping pong tra noi, (magari poco opportuno per i lettori abituali del blog). 1. Mi sembra di poter leggere tra le righe il suo legittimo timore «che ci rifugiamo nella passività di azione, che con la scusa di abbandonarsi nelle mani di Dio, di fatto trasforma la speranza in “pigrizia spirituale”» (cito le sue parole). Non è questo che intendo, ovviamente. Penso piuttosto sia necessario un modo di procedere non velleitario, ma proporzionato alle nostre effettive possibilità, consegnando poi il tutto nelle mani di Dio che provvederà come solo Lui sa fare, e agli spazi che si possono effettivamente creare senza essere schiacciati dai poteri di varia natura, dei quali pure, in questi tempi – abbastanza apocalittici, per non dire escatologici – il demonio sa abilmente servirsi. 2. Quanto al rifiuto in blocco della prospettiva, prevista dall’allora Card. Ratzinger – delle piccole comunità vive che fanno sopravvivere la Chiesa in attesa di una sua risurrezione dopo la passione e la croce, come quella del suo Signore – rifiuto espresso con l’esplicita dichiarazione: «Non credo al rifugio nel “piccolo gregge” (una “setta “ di fatto)», non penso che Ratzinger intendesse una sua realizzazione così negativa. 3. Penso che si possa tentare una risposta alla domanda «che fare?», seguendo una strada simile, pur tenendo conto della differenza della situazione (che non è poi così grande…) a quanto vidi già realizzato, nel 1980 quando andai insieme ad alcuni amici, per una settimana in Ungheria, a Budapest, a trovare persone e gruppi solidamente cristiani, su indicazione di chi, pionieristicamente, era in contatto diretto regolare con loro da anni. 4. Loro avevano adottato questa strategia: a) nelle parrocchie erano permessi dal regime, allora, solo gruppi per formare dei piccoli cori per il canto (liturgico e non solo). Per cui i cori erano numerosi. I parroci erano più o meno pubblicamente ossequienti al potere. Mentre lasciavano fare i giovani preti (cappellani: allora là ce n’erano…) i quali clandestinamente, formavano i giovani (all’epoca incontrai degli universitari davvero in gamba) ad una cultura alternativa a quella ufficiale, ad incominciare dalla dottrina cattolica e dalla rilettura intelligente e cristiana della storia della nazione. Noi non siamo ancora ad un livello così estremo (ma potremmo arrivarci anche presto!), ma per esempio già il condizionamento del “pensiero unico” c’è ed è sottile. Come facevano a non ridurre i loro gruppi in «sette» chiuse in se stesse? Ci pensavano i principalmente predetti cappellani, insieme ad alcuni laici, i quali, di nascosto, tenevano i contatti tra loro, per confrontarsi e avere un “metodo” formativo comune, evitando ogni forma di chiusura e settarismo. Qualcuno ogni tanto veniva scoperto dal regime e pagava di persona! Ma questo modo di procedere, sostanzialmente, funzionava. b) In Polonia un modo di procedere simile riuscì a formare Solidarnosc che, al momento opportuno, emerse pubblicamente come soggetto identitario della nazione intera. c) Per la formazione dei seminaristi (più o meno clandestini) non potevano certo mettere in piedi dei “mega istituti”, ma facevano riferimento ai pochi Vescovi fidati per formare e ordinare i nuovi preti (sappiamo che anche Wojtyla seguì questo tipo di formazione iniziale). Partendo dal “piccolo”, quasi invisibile, riuscirono ad ottenere, infine, anche il “grande”, perché Dio lo volle e loro ebbero fede. 5. Mi sembra di vedere che quello che manca, normalmente, da noi è questa attenzione ad un’unità nel “metodo”, una “visione comune” della Chiesa che vada al di là delle lamentele contro il Papa e o il Concilio Vaticano II. Ma se questa unità nel “metodo” non c’è non possiamo pretenderla e allora dovremo accontentarci almeno di farci compagnia, di qualcuno che proponga contenuti sensati, e non immaginare di creare, per esempio, un movimento con un’unità di impostazione all’origine. Ho l’impressione che l’epoca dei movimenti si sia ormai conclusa, con la morte dei loro fondatori. E adesso, sembra essere giunto proprio il momento “ratzingeriano” delle piccole comunità, le cui guide si raccordano tra loro per garantire una certa unità di “metodo” come facevano i cappellani ungheresi. Occorre imparare a vedersi e sintonizzarsi meglio, nel rispetto delle rispettive storie e situazioni locali, evitando di andare avanti isolatamente. Diversamente si rischia il ripetersi dell’esperienza fallimentare dei discepoli di Gesù che non riuscirono a scacciare il demonio («“Ho detto ai tuoi discepoli di scacciarlo, ma non ci sono riusciti” […] "«Perché noi non abbiamo potuto scacciarlo?". Ed egli disse loro: "Questa specie di demoni non si può scacciare in alcun modo, se non con la preghiera”», Mc 9,18.28-29). Ci riusciranno dopo, con una fede che li sosterrà fino nelle prove più estreme. Ma non saranno tanto loro a riuscirci, quanto il potere di Cristo che volle servirsi di loro. Per quanto mi riguarda, ho avuto, già ormai cinque anni fa, la richiesta di aiuto da un piccolo gruppo di persone da diverse città di fare con loro un’esposizione “dottrinale” ed “esistenziale” (una volta si sarebbe detto “spirituale") del Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, perché si rendevano conto di non conoscere seriamente il cristianesimo, pur essendo fedeli praticanti. Il materiale si trova tutto sul mio sito albertostrumia.it e sul mio canale YouTube . Il lavoro, svolto on line dai tempi del covid, si è dimostrato utile, non solo per evitare di spostarsi continuamente da un posto all’altro, ,ma anche per consentire a chi lavora oltre oceano, di esserci. Quelli che possono e vogliono possono anche ritrovarsi di persona. Anche la Messa domenicale, per coloro che stanno nella stessa città è divenuta possibile (in novus ordo, si può attuare anche una sorta di “riforma della riforma”, celebrando riservatamente, in una piccola chiesa o cappella, per garantire una modalità liturgicamente dignitosa). Può essere ed è sicuramente poco, ma è già qualcosa e, soprattutto, c’è già da subito, e si cerca di farlo crescere con il dovuto «Timor di Dio» (richiamato nell’articolo che mi ha preceduto), che è anche da intendere come il “timore di rovinare” con qualche atto maldestro quanto di bello il Signore ha già fatto, con un rispetto dell’«autorità morale» che sa anche far capire, quando occorre, che «bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5,29). Se questa è una strada percorribile, certamente anche una via più pubblica e ambiziosa si può tentare, ed è bene che chi ne è in grado, senza venire “tarpato” lo faccia. Sarà la storia a valutare gli esiti dei due modi di procedere, quello più accorto e quello più ambizioso, entrambi guidati dal realismo della fede: non siamo noi da soli a sconfiggere il demonio, ma è chi lo ha già vinto perché è Signore!
  24. Nel suo splendido articolo su IPC ( “Contro chi è la battaglia ?” ), don Alberto Strumia ci indica l’avversario contro cui dobbiamo combattere e ci invita a tenerne conto. Molto intelligentemente sintetizza l’ operato del nostro avversario oggi, riferendosi a suor Lucia di Fatima che spiegò che Satana sta costruendo una Anti-Creazione . Esatto, perfetto. Satana sta riscrivendo la Genesi: non più il Creatore li creò uomo e donna, non più disse loro andate e moltiplicatevi, non più li invitò a sottomettere la terra e ogni essere vivente. La nuova genesi blasfema dice esattamente il contrario: Genderismo, neomaltusianesimo, ambientalismo e animalismo. Lo capiamo anche leggendo un paio di notizie oggi sulla decisione del Presidente del Veneto di attuare anche lui una rivoluzione dei diritti civili finanziando una clinica che cambia il sesso ( scelta di civiltà) o leggendo quanto succede nello stesso ambito, nella chiesa tedesca. Vorrei tentare di integrare il pensiero di don Alberto, quando ricorda l’espressione di don Giussani sul fatto che “si deve tener conto della totalità dei fattori (in gioco)", specificando che si deve tener conto anche della totalità degli “attori in gioco”, dei loro obiettivi, dei loro mezzi, ecc. . Cioè noi cattolici di criterio dobbiamo “pensare strategicamente“ e strategicamente agire. Questo, secondo me, intendeva don Giussani con questa considerazione. Don Strumia lo specifica bene quando parla infatti dell’avversario con cui dobbiamo combattere. Ecco, riflettiamo un momento su questo avversario: Il diavolo. Tutta la storia dell’umanità, non solo la storia sacra, ne ha subito l’influenza. Oggi sembra agire con maggior malizia offrendo alla umanità la proposta di migliorare in tutto scientificizzandosi, e pertanto modificandone obiettivi e mezzi, rivoluzionando pertanto la Genesi stessa e le sue indicazioni. Questa è la grande tentazione di questo secolo, Ma noi dovremmo ricordarci che il Signore ci ha dato tutti i mezzi per vincere sempre in ogni tempo e condizione ogni tentazione. Proprio il grande cardinale Caffarra (con altri tre Cardinali ) ce lo ha ricordato con i DUBIA riferiti ad Amoris Laetitia che sembrerebbe proporre qualcosa di diverso, di molto diverso. Ma il Signore non ci ha proprio chiamato alla santità, ad esser perfetti come il Padre Nostro è perfetto ? Ed a esserlo anche oggi e nel nostro stato. Proprio oggi e proprio nel nostro stato, non “nonostante” le tentazioni di oggi e le difficoltà del nostro stato. Conveniamo o no che la crisi di oggi è crisi di santità ? Benedetto XVI conclude Caritas in Veritate spiegando che queste crisi non si risolvono cambiando gli strumenti ,ma il cuore degli uomini. E nella parte da lui scritta di Lumen Fidei spiega che chi ha responsabilità di cambiare il cuore degli uomini è la Chiesa, con tre strumenti: preghiera, magistero e sacramenti. I sacerdoti cattolici ed i laici cattolici dovrebbero riflettere bene su questi due punti. Ma per cominciare è necessario tornare alle raccomandazioni di don Strumia: riconoscere l’avversario e aborrire il peccato, che non è certo conseguenza della la miseria materiale (“l’inequità“, nella ripartizione delle risorse ) a generarlo, bensì la miseria morale genera la miseria materiale (come si sente la mancanza dell’insegnamento del Tomismo nei seminari). Che fare ? certo il Signore non vuole che contiamo troppo sulle nostre capacità e abbiam troppa fiducia nello sforzo umano, ma neppure ( io credo e chiedo conferma a don Strumia ) vuole che ci rifugiamo nella passività di azione, che con la scusa di abbandonarsi nelle mani di Dio, di fatto trasforma la speranza in “pigrizia spirituale“ …Se ricordo bene San Tommaso scrisse nella Summa che la Grazia non sostituisce la Natura e Dio ci ha messo in mano gli strumenti che servono a non tralasciare di fare ciò che si può, aspettando l’aiuto di Dio. Perché, se ho ben capito, ciò equivarrebbe a “tentare Dio “ e pertanto anche la Grazia non agirà . Ma ho una riflessione finale che è una domanda per don Strumia. Fino a ieri noi cattolici ci misuravano con i Misteri della fede. Oggi abbiamo un ”mistero” in più da affrontare, riuscire a capire dove la Chiesa di oggi vuole portare la fede cattolica e perché. Un piccolo nuovo sotto-mistero è anche capire come il Timor di Dio ( che non è terror di Dio…) sia stato trasformato in Timor della autorità morale. Un tempo ci insegnavano a sentirci “figli di Dio” ed agire come tali. Oggi sembrerebbe ci invitino a considerarci cancro della natura ed a vergognarci di non esser giardinieri o ortolani. Se il mondo cattolico oggi non ha pace non può seminare pace e fede con gioia. Non solo non credo al rifugio nel “piccolo gregge” (una “setta “ di fatto) o al passaggio a religioni più ortodosse (che è esattamente quello che il nostro avversario vuole!), credo invece che dobbiamo ristudiare Caritas in Veritate (e Lumen Fidei) di Benedetto XVI. Ci ha spiegato tutto quello che dobbiamo fare. Questo sarà il tema di volta che verrà discusso durante i prossimi appuntamenti della Scuola Ecclesia Mater. Benedetto XVI aveva già spiegato contro chi stiamo combattendo e come combattere oggi.
×
×
  • Crea Nuovo...

Important Information

Informativa Privacy